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Alternanza scuola lavoro, tra critiche di maniera e opportunità

La morte di Lorenzo Parelli, il ragazzo di 18 anni ucciso da una trave d’acciaio alla Burimec di Lauzacco, in Friuli, ha scatenato l’ennesimo uragano sull’Alternanza scuola-lavoro (ASL). Gli strali si sono abbattuti denunciando il rischio per gli studenti di entrare nelle aziende e rilanciando vecchi temi d’inutilità del progetto, condite da ricorrenti accuse di sfruttamento degli studenti da parte di datori di lavoro.

Purtroppo l’unico elemento autentico di questa vampata di polemiche è la tragedia di Lorenzo, inaccettabile come ogni morte sul lavoro. E’ proprio l’enormità del dramma ad imporre onestà intellettuale. Come si è poi appurato, contrariamente a quanto sostenuto dalle principali testate giornalistiche nazionali, la sciagura del giovane studente si è verificata in tutt’altro contesto. Lo sventurato ragazzo non era impegnato in Alternanza bensì in stage curriculare previsto per studenti delle scuole professionali regionali.

Al di là della cantonata mediatica, rimane necessario indagare le ragioni dell’ostilità verso quest’esperienza a cui sono chiamati i ragazzi degli ultimi tre anni delle scuole superiori, una carsica opposizione mai sopita dalla sua entrata in vigore nel 2015. 

Partiamo da un elemento. L’introduzione dell’Alternanza Scuola Lavoro (ASL) obbligatoria alle superiori non è piovuta dal cielo, quale bislacca invenzione di un primo ministro antipatico ai più. Una breve esperienza in azienda era già praticata dal 2005 da numerosi istituti tecnici che avevano stabilito rapporti con realtà produttive del territorio in linea con gli indirizzi di specializzazione curriculare. Curiosamente questi istituti erano considerati all’avanguardia da istituzioni, studenti e genitori, che ritenevano la pur limitata sperimentazione in azienda un valore aggiunto della didattica. 

Il meccanismo si inceppa quando lo si volle far diventare da eccezione per pochi a regola per tutti. Nel 2015 con la riforma nota come “La buona scuola” il governo Renzi introdusse l’obbligatorietà non solo per i tecnici ma anche per i licei. Questa lesa maestà determinò l’ira funesta di tanti intellettuali e politici a corto di argomenti.

Sostenere che l’ASL toglie ore alla didattica è pretestuoso. Anche prima del robusto taglio di monte ore del 2019 (come vedremo di seguito) un liceale non dedicava più di una decina di giorni all’anno a quest’esperienza, largamente meno di quanto consacrava ad assemblee, occupazioni, scioperi, settimane bianche. 

Le accuse di sfruttamento dei ragazzi sono ancora più bizzarre. Immaginare che un datore di lavoro possa impiegare a suo esclusivo profitto uno spaesato diciassettenne che conosce il lunedì e saluta il venerdì vuol dire non conoscere la complessità organizzativa e normativa del lavoro moderno, anche quello che appare banale e ripetitivo. Peraltro tutor scolastici, studenti e genitori (fin troppo) proattivi sono stati i primi a denunciare episodi più unici che rari di maldestre interpretazioni.

Per quanto concerne infine la ricorrente denuncia di rischi per la salute e sicurezza degli studenti ricordo che il Ministero dell’Istruzione prevede un primo modulo di ASL obbligatorio focalizzato sulla normativa e sulle procedure a tutela del personale in azienda. Considerati i rilevanti margini di miglioramento della cultura della sicurezza del lavoro nel nostro Paese ritengo un privilegio per lo studente incontrare queste tematiche fin dai banchi di scuola.

Le critiche alla ASL rischiano di scivolare verso una visione elitaria dei licei, più oltranzista di quella di Giovanni Gentile, per il quale, al netto del solo “Classico”, i licei avrebbero dovuto sfornare dirigenti d’azienda ed insegnanti con preparazione anche non necessariamente universitaria per un Paese affamato di competenze perché in trasformazione epocale.

Per i talebani dell’inutilità dell’Alternanza un liceale non dovrebbe “mischiarsi” con il lavoro. Sarà l’università ed il master post lauream a partorire automaticamente una generazione di rampolli pronti a dirigere le sorti del Paese direttamente dalla stanza dei bottoni. Peccato che i giovani leoni che escono dalle università si sentono più marziani nella società del lavoro che ufficiali in plancia di comando. 

Le critiche hanno tuttavia sortito i loro effetti. Con la legge di bilancio 2019 la scure si è abbattuta sull’Alternanza Scuola Lavoro.  L’ASL cambia nome e diventa PCTO ed è stata ridotta di oltre il 50% del suo monte orario triennale: 200 ore in luogo delle 400 per gli istituti tecnici e 90 in luogo delle 200 per i licei. Il taglio draconiano è avvenuto senza una verifica dei risultati ed una conseguente discussione tecnica, in barba a tutti i regolamenti e le prassi raccomandate in merito dall’Unione Europea. Questa scelta ci allontana da un sistema duale che fiorisce in Europa, a partire dal modello tedesco. 

Chi scrive si occupa di orientamento ed alternanza dalla loro introduzione obbligatoria nel 2015. Con il portale WeCanJob.it abbiamo offerto percorsi di Alternanza ad oltre 50.000 studenti di più di 560 istituti sul territorio nazionale. Abbiamo intercettato una domanda enorme da parte delle scuole, erogando progettualità on-line propedeutica alle esperienze in azienda. La nostra quotidiana relazione con centinaia di dirigenti scolastici e docenti chiamati ad organizzare la PCTO ci ha messo in condizione di verificare i margini di miglioramento di quello che è, e rimane, considerate le rocambolesche modifiche e la sostanziale moratoria imposta dal Covid, un progetto in start-up. 

La difficoltà della maggior parte delle scuole di trovare aziende ed organizzazioni produttive disposte ad accogliere studenti risiede in un vulnus d’impostazione.  Mentre la scuola ha l’obbligo (sempre più sfumato ma mai smentito) di organizzare centinaia di ore di PCTO a favore del singolo studente, non è previsto per il mondo produttivo un obbligo corrispondente; assenza di obbligo e di incentivi, economici o normativi. Qualche Camera di Commercio ha pubblicato bandi di aiuti economici per l’accoglienza di studenti in azienda, con risultati che non hanno minimamente modificato lo scenario. La scarsezza di interlocuzione con il mondo produttivo si riverbera inevitabilmente sulla possibilità di offrire agli studenti una variegata offerta esperienziale. In parole povere: in larga parte del Paese, con il Centro-Sud ovviamente sempre in maggior difficoltà, è già un miracolo per un docente saturare le ore di PCTO, figuriamoci se può essere in condizione di articolare incontro domanda-offerta sulla base della matrice curriculare, attitudinale e di preferenze dello studente. 

È nell’organizzazione di una collaborazione strutturata tra scuola e mondo del lavoro che risiede il non più rinviabile colpo d’ala della PCTO. Poli didattici delle scuole superiori, rappresentanze datoriali e sindacali territoriali, aziende ed istituzioni locali devono istituire task-force sistemiche finalizzate a progettare percorsi fruttuosi tanto per gli studenti quanto per il sistema imprenditoriale locale. Sono ora disponibili risorse ingenti per avviare questo processo che, una volta rodato, si autoalimenterà sulla base del mutuo interesse. Il PNRR destina miliardi di euro suddivisi in azioni per l’orientamento, il mentoring, il sistema duale. 

La nostra scuola ha il compito strategico, per un’economia della conoscenza, di assicurare la più elevata formazione culturale, emotiva e civica delle giovani generazioni. Una didattica moderna, partecipata, dialogante, ricca, progettuale include anche una commistione con una realtà produttiva. L’esperienza di PCTO non deve, e non può, trasmettere competenze operative. L’incontro con il mondo del lavoro rappresenta un bagno di realtà particolarmente proficuo per una generazione tanto (forse troppo) virtuale, frastornata dai vorticosi cambiamenti tecnologici e spesso iperprotetta.

* Managing partner WeCanJob.it

 

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