I dati e i filmati, i volti e le parole della crisi sono da troppo tempo crudi e dolenti. Ad essi non c’è assuefazione che tenga. Martellanti, giorno dopo giorno, ci ricordano che alla perdita di sicurezza e al degrado non si possono voltare le spalle. Ma ci ricordano anche che quello che si è fatto finora, a tutti i livelli, non è sufficiente, né è soddisfacente. E’ semplicistico puntare il dito soltanto e solitamente verso l’alto, verso le istituzioni pubbliche o i grandi centri del potere finanziario. E’ necessario, ma non esaustivo. Il problema non è sempre altrove, è anche qui, vicino a ciascuno di noi, ci appartiene, ci interpella. E’ dal basso che occorre reagire, costruire con piccoli passi, ma costruire nella direzione giusta. C’è qualche segno? Sì.
Inizialmente impercettibile, il segno che vale la pena sottolineare, ora emerge dalla sua infanzia ed ha il nome di welfare aziendale. Non è l’unico messaggio creativo che si fa strada tra i rottami della lunga congiuntura della distruzione di produzioni e di posti di lavoro. Ma è uno dei riflettori che si sono accesi con più vigore nella direzione del futuro. Luce calda, non egoista. Illuminazione diffusa, non rintanata in enclave di benessere. Bagliori consistenti, nient’affatto effimeri. La lettura di ciò che si è sviluppato in questi ultimi 7/8 anni nella contrattazione aziendale ci riporta a queste immagini che descrivono cultura partecipativa tra aziende e lavoratori, volontà di scambiare cose buone non vili, intendimenti sussidiari e non alternativi alla responsabilità pubblica, visioni concrete sulle nuove priorità del welfare, emancipazione da ogni estremismo, anche quello di genere.
Tutto questo è presente negli accordi che si sono succeduti in questi anni, ai margini delle cronache, giustamente infittite dalle vicende drammatiche e complesse riguardanti la perdita del lavoro. Dove il lavoro c’era ancora, imprese e sindacati, management e lavoratori hanno imboccato la strada dello scambio tra miglioramento della produttività e ridistribuzione del valore aggiunto non in termini di salario ma di servizi e prestazioni più corrispondenti alle aspettative delle persone. Si badi, non c’è niente di paternalistico da parte delle aziende. Lo dichiarano esplicitamente. Sono disponibili a venire incontro ad esigenze che il sistema pubblico non è più in condizioni di assicurare o che è in ritardo nel recepirle, individuando le risorse nei mutamenti efficientistici dell’organizzazione del lavoro. Lavoratori e sindacati rispondono in maniera esemplare. Non parti uguali, ma selezione delle priorità. Non i soliti “pochi, maledetti e subito”(con riferimento ai soldi), ma individuazione degli interventi più efficaci per far star meglio quelli che hanno esigenze più pressanti.
Certo, questa è contrattazione in aziende in cui la crisi, se si è fatta sentire, non ha prodotto guasti consistenti. Ma non è contrattazione da “benestanti”. Chi ha la pazienza di leggere questo dossier (tanto gli articoli, quanto gli allegati) non si imbatterà nella descrizione di acquisizioni elitarie, ma piuttosto di un impegno collettivo per disegnare nuovi livelli di tutela. E’ significativo che bambini e anziani sono le preoccupazioni che spingono a definire tante forme di sostegno a quelle famiglie che li hanno semmai entrambi in casa, senza distinguere sui destinatari, perché si parla sempre di lavoratori e non di uomini o donne. Soluzioni che vanno oltre le agevolazioni di legge. Misure che travalicano le prescrizioni del contratto nazionale. Mezzi e strumenti che nascono dal confronto tra le parti, vengono riadattati sulla scorta dell’esperienza e si proiettano nel territorio, provocando, spesso, anche lì, un salto di qualità. Specie dove prevale la piccola azienda.
Il fenomeno non ha dimensioni di massa. Ma si può dire che è fuori dalla fase pionieristica. Prevedere la sua diffusione non è come buttare il cuore oltre lo steccato. Specie se l’intervento pubblico non si ferma a quanto già esiste. Anche perché la legislazione di cui si dispone è intrisa di ambiguità. Basti pensare che per alcuni servizi e talune prestazioni se è elargizione diretta delle aziende sono esentasse, se è conseguenza di una contrattazione vanno tassati. Sarebbe auspicabile una revisione globale delle misure e degli incentivi che ruotano intorno al così detto “secondo welfare”, a partire da un’analisi sull’uso della legge 104 che in pratica sta scaricando sulle aziende ma anche sui lavoratori i costi dell’assistenza dei familiari, specie se bambini e vecchi.
E per quanto riguarda le risorse, c’è soltanto da dire che il “secondo welfare” rende ancora più stridente lo spreco che si è fatto fino all’anno scorso del danaro pubblico con la detassazione salariale derivante dagli accordi di produttività. Alcuni miliardi, per anni, hanno incentivato il ricorso agli straordinari e ai turni nelle aziende che avevano mercato e puntavano a massimizzare l’utilizzo degli impianti. Se solo la metà fosse stata destinata a sviluppare il “secondo welfare”, la produttività aziendale non ne avrebbe sofferto ma anzi sarebbe stata orientata ad interventi di medio e lungo periodo ed un numero significativamente più ampio di lavoratori avrebbe a disposizione servizi e prestazioni di grande utilità.
In questo caso, la politica non è stata in ritardo rispetto a quanto emergeva dal sociale. Si è soltanto limitata ad assecondare le richieste più tradizionali del mondo imprenditoriale. Non accorgendosi che proprio in questo mondo si stava facendo largo una visione più moderna e “socialmente utile” della crescita della produttività e del benessere nei luoghi di lavoro. Con il consenso unitario dei lavoratori e dei loro sindacati. Ora che il Governo ha cancellato questo finanziamento drogante, si deve riaprire la discussione sulle condizioni più efficaci per avere aziende sane e proiettate nel futuro. Ed in questa discussione, un posto di rilievo dovrà avere la valorizzazione del welfare aziendale.