In una fase come l’attuale, densa di grandi trasformazioni socio-economiche, le scuole e le università, non possono ancora ingenuamente pensare di «insegnare» solo competenze generali che poi andranno trasferite e/o applicate nei contesti lavorativi (secondo una visione sequenziale in cui prima c’è la fase dello studio e poi la fase del lavoro). Cosi come appare poco produttivo pensare di proporre un’alternanza tra lo studio e il lavoro senza costruire pratiche formative e organizzative «ai confini» che connettano, e non semplicemente giustappongano, questi due mondi. In altre parole, si tratta di costruire luoghi di “intersezione attiva e virtuosa” tra tali mondi, avendo ben chiaro che le conoscenze non possono mai essere apprese indipendentemente dalle pratiche sociali che le producono (e questo è vero sia per scuole e università che per il mondo del lavoro) (Lave, 1988; Resnick, et al, 1997; Chaiklin e Lave, 1993; Rogoff, Lave, 1984; Scribner, 1984).
Nella realizzazione di percorsi di alternanza, la fase sul lavoro è spesso, troppo spesso, ancora considerata come residuale nel progetto formativo dello studente, in base all’idea che l’apprendimento «fuori» possa comunque realizzarsi in modo naturale (Resnick, 1987). Le attività lavorative svolte dagli studenti vengono ancora troppo di rado progettate e integrate con le attività scolastiche e universitarie. E questo è vero sia per quel che riguarda il versante curricolare (ad esempio nella costruzione di profili coerenti di competenze) che sul versante personale, come rielaborazione dell’esperienza lavorativa in termini formativi e identitari allargati (e come momento rilevante della costruzione della biografia professionale e individuale dello studente). Lo studente, nella maggior parte dei casi, è lasciato solo nell’attraversamento di mondi profondamente diversi, quali quello scolastico-accademico e quello lavorativo. Il sistema educativo riesce al più a svolgere una funzione «burocratica»: mette a disposizione un elenco di organizzazioni lavorative disponibili ad ospitare gli studenti e successivamente certifica l’avvenuto svolgimento della “fase” lavorativa dell’alternanza. Anche i contatti con le organizzazioni ospitanti sono molto limitati e la progettazione formativa dell’esperienza si esaurisce, nella maggior parte dei casi, nell’identificazione di un referente interno all’organizzazione ospitante.
Tale mancanza di progettazione condivisa (sia organizzativa che formativa) tra scuole/università e organizzazioni lavorative si riflette in una sotto-utilizzazione dello studente, che così resta ai margini dei sistemi di attività lavorativa senza riuscire a parteciparvi nemmeno in modo periferico, proprio perché poco legittimati e sostenuti da una progettazione comune (cfr. Lave e Wenger, 1991). Tale concezione «residuale» della fase dell’apprendimento sul lavoro produce inoltre una assoluta imprevedibilità dei suoi esiti «formativi»: le situazioni a cui gli studenti si trovano a partecipare risultano assai eterogenee per quanto riguarda ad esempio il loro «orizzonte di osservazione» sulle pratiche professionali (Hutchins, 1995), le forme della loro partecipazione alle comunità di pratiche lavorative, la visibilità e trasparenza degli strumenti e artefatti professionali, il rapporto con gli attori sociali (esperti e non) rilevanti per la loro socializzazione organizzativa. In questo modo, una fase potenzialmente ricchissima da un punto di vista formativo viene per lo più sprecata, riducendosi ad uno svolgimento adempitivo e solo formale dell’alternanza col lavoro.
Tale situazione problematica richiede di ripensare tali attività formative, anche alla luce delle recenti teorie dell’apprendimento sociale e situato (Lave e Wenger, 1991; Wenger, 2000; Zucchermaglio, 1996) progettando sistemi di alternanza in grado di assicurare una maggiore permeabilità formativa tra sistema educativo e sistema del lavoro, quale ad esempio quello di assoluta innovatività (Progetto PIL) messo a punto e realizzato presso l’Università di Ferrara (Gandini, 1999; Bertelli et al, 2005; Zucchermaglio e Alby, 2006) che rappresenta un eccellente modello di tale “lavoro sui confini”. Non si tratta infatti solo di portare dentro ai percorsi formativi la costruzione di progetti professionali, ma anche di potenziare e sfruttare al massimo il valore formativo (e non semplicemente applicativo) dell’esperienza lavorativa. I contesti lavorativi infatti non sono luoghi di applicazione pratica di competenze teoriche, ma contesti socio-materiali specifici di produzione e costruzione di conoscenze complesse, situate e distribuite (Scribner, 1986; Orr, 1995; Engeström, e Middleton, 1996 Luff, Hindmarsh, Heath, 2000)
Tali competenze non si possono in alcun caso imparare a scuola o all’ università ma solo potendo partecipare, a certe condizioni di legittimità e accesso, a complessi sistemi di pratiche sociali e lavorative. E sono proprio la qualità e significatività di tali forme di partecipazione alle attività e comunità lavorative (legittimate, situate e progressivamente più centrali) che possono e devono diventare la nuova unità di misura e di valutazione dell’ apprendimento situato.
Una presa in carico organizzativa e una valorizzazione formativa di tali complesse forme di partecipazione a specifiche comunità lavorative vanno molto oltre il considerare un generico e ingenuo «si apprende nei contesti». Vuol dire al contrario essere consapevoli che tale apprendimento debba essere sostenuto e accompagnato attraverso la messa in campo di specifiche risorse organizzative, gestionali e discorsive (oltre che umane e economiche) che contribuiscano a costruire per lo studente partecipante, una cornice di intellegibilità dell’esperienza lavorativa e dell’esperienza formativa. Risorse da dedicare ad esempio al funzionamento di una struttura dedicata e stabile che consideri come tale fase «situata» del percorso formativo vada anch’essa progettata e monitorata al pari dei percorsi formativi in ”aula”. Questa struttura potrebbe costruire e sperimentare pratiche condivise di progettazione formativa e lavorativa «ai confini» tra rappresentanti del mondo universitario e del mondo del lavoro. Interazioni stabili e continue attraverso le quali sviluppare repertori di pratiche, strumenti e lessico nuovi per entrambe le comunità, contribuendo così sia a produrre importanti risultati sulla struttura e qualità del sistema educativo sia sulla struttura e funzionamento del mondo delle organizzazioni lavorative.
Tali interazioni ai confini sono preziose permettendo a scuole e università di conoscere tempestivamente repertori di competenze professionali esperte in “azione” e alle organizzazioni lavorative di intercettare competenze disciplinari e scientifiche in evoluzione e sviluppare cosi pratiche professionali innovative. In sintesi un’occasione quindi preziosa per realizzare un percorso «osmotico» e «bidirezionale» di innovazione organizzativa e formativa e che sostenga gli studenti in percorsi ricchi e significativi e di apprendimento situato e socializzazione alla vita adulta.
Riferimenti bibliografici
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Zucchermaglio, C. (1996). Vygotsky in azienda. Roma: Carocci.
*Dipartimento di Psicologia dei Processi di Sviluppo e Socializzazione
Sapienza, Università di Roma cristina.zucchermaglio@uniroma1.it