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I ricambi generazionali nelle politiche attive del lavoro

L’invecchiamento della popolazione e la crisi occupazionale
Nelle precedenti crisi (primi anni ottanta e novanta), oltre a far fronte alla crescente disoccupazione imposta dal ciclo avverso, si è dovuto gestire un flusso di giovani che si affacciavano al mercato della lavoro superiore a quello degli anziani che lo abbandonavano per la pensione. 
Dalla figura 1 si può osservare che per tutti gli anni ottanta la quota di bambini tra zero e quattordici anni era superiore alla percentuale di anziani (con più di 64 anni). Dagli anni novanta si inverte la proporzione.

Da quasi un ventennio l’Italia sta sperimentando il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione che vede la forte riduzione delle persone con meno di 15 anni (che passano dal 21% del 1981 all’attuale 14% del totale della popolazione) e nella fascia 15-64 anni (che scende dal picco del 69% del 1993 a meno del 65% nel 2013), e la crescita parallela degli ultra 65enni, tra il 1981 ed il 2013 crescono dal 13% al 21% della popolazione totale (figura 1). 

Questa tendenza non si arresterà nei prossimi dieci anni, anzi le previsioni Istat mostrano una leggera accelerazione: al 2023 i bambini con meno di 14 anni saranno il 13% della popolazione, mentre i cittadini in età attiva (15-64 anni) diminuiranno e raggiungeranno quota 63,5% e cresceranno le persone con più di 65 anni, al 2023 si prevede saranno 23 ogni cento abitanti.

Nelle fasi di ciclo economico positivo, come quella tra il 1997 ed il 2007, questi andamenti demografici assieme alla crescita dell’offerta di lavoro hanno creato fabbisogni occupazionali, sanati in una certa misura dagli italiani, soprattutto donne e anziani (55-64 anni), e dal flusso di lavoratori immigrati.

A questi cambiamenti strutturali nel 2008 si è inserita la crisi economico-finanziaria più grave e duratura dal secondo dopo guerra. Nel 2013 l’Italia è ancora immersa in una profonda contrazione della domanda interna e della produzione, mentre la ripresa si prevede non arriverà prima del 2014 e verosimilmente sarà molto lenta. La difficile situazione non ha lasciato indifferente il mercato del lavoro: la disoccupazione è al 12% nel secondo trimestre del 2013 (tabella 1), praticamente è raddoppiata dal 2007 raggiungendo il picco massimo da quando ci sono le rilevazioni Istat (1977). 

L’occupazione ha tenuto, rispetto all’andamento della produzione, sostenuta anche dal massiccio ricorso agli ammortizzatori sociali, in primo luogo la cassa integrazione. Si pensi che sono state concesse circa un miliardo di ore all’anno, più o meno equivalenti a 630 mila lavoratori a tempo pieno; e sono stati aperti circa 700 tavoli di crisi aziendali dal 2007. Dal bilancio Inps risulta che sono stati spesi tra 2009 e 2012 21,8 miliardi di euro per la cassa integrazione, 9,5 miliardi per la mobilità e 48,1 miliardi per la disoccupazione. 

C’è un emergenza sociale che va affrontata, al tempo stesso il processo di consolidamento fiscale non concede molte risorse. L’unico modo di fronteggiare questa emergenza consiste nel puntare sul lavoro e sulle opportunità di impiego che si possono offrire a chi è ai margini tra lavoro e non lavoro. Senza aspettare che si inneschi la ripresa, la quale probabilmente nella prima fase non creerà occupazione, è necessario tentare di migliorare l’assetto del mercato del lavoro. È importante evitare la “cultura della disoccupazione”, passare dagli ammortizzatori sociali alle politiche attive del mercato del lavoro. È necessario inoltre assicurare che le persone rimangano attraenti per il mercato del lavoro regolare.

 

Fig.1. Evoluzione demografica della popolazione residente in Italia. Anni 1981-2023.

Fonte: elaborazioni su dati Istat.

 

Tab. 1. Principali indicatori del mercato del lavoro in Italia. Anni 2007-2013.


Fonte: elaborazioni su dati Istat (rilevazione sulle forze lavoro RCFL, settembre 2013). 

 

L’ipotesi di combinare politiche attive e passive del mercato del lavoro

Data la lentezza della ripresa e considerato che il numero atteso di lavoratori uscenti per motivi di età è superiore a quello degli entranti, è auspicabile modernizzare il sistema di ammortizzatori sociali per tener conto di questa occasione. Infatti è possibile ipotizzare un sistema che, senza pesare sulle casse dello stato, coniughi politiche attive e passive in un nuovo strumento per il mercato del lavoro fondato sul concetto di trasferibilità degli ammortizzatori sociali, come fossero una sorta di assegno al portatore. 

In sostanza nelle imprese in cui vi sia la presenza di lavoratori prossimi alla pensione si potrebbe trasferire a titolo di pre-pensionamento o di riduzione dell’orario di lavoro gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione, mobilità o disoccupazione) spettanti a lavoratori “giovani” dipendenti di imprese in crisi. Per favorire la sostituzione sarebbe lecito pensare a forme di incentivazione dell’assunzione, per esempio il credito d’imposta o contratti meno onerosi come l’apprendistato e allo scopo si potrebbe far ricorso anche ai fondi Fse per la formazione. In questo modo, si creerebbero le premesse finanziarie per sostituire i dipendenti maturi in posizioni non ridondanti con giovani lavoratori in eccesso. 

Dal 2009 sono usciti circa 1,1 milioni di lavoratori con almeno 55 anni per pensioni di vecchiaia/anzianità. Nell’ipotesi che solo metà occupassero posti non ridondanti, con la trasferibilità degli ammortizzatori sociali si sarebbero potuti rioccupare immediatamente 550 mila lavoratori, usando in maniera più equa ed efficiente la cassa integrazione. Infatti con questo strumento si riuscirebbe a ottenere tre risultati: 

1) non impattare sulle casse dello stato, in quanto nella pratica si cambierebbe  l’erogazione di un ammortizzatore sociale spettante ad una persona, con un assegno di pre-pensionamento o con il pagamento del salario a orario ridotto ad un’altra; inoltre lo Stato incasserebbe i contributi sul neo-assunto oltre che l’Irpef e l’iva derivante dal maggior consumo garantito dallo stipendio. Incassi che sarebbero pari a zero nel caso il “giovane” lavoratore fosse inoccupato. Contemporaneamente si frenerebbe il lavoro nero, la precarietà e il livellamento verso il basso delle condizioni di lavoro. 

2) Diminuire i costi di searching e training, in quanto nei limiti del possibile si sostituirebbero lavoratori simili, in termini di settore e mansioni; inoltre l’azienda avrebbe il tempo per dare la formazione necessaria e organizzare il trasferimento di conoscenza. 

3) Ridurre i costi legati alla contrazione del personale per le aziende con lavoratori in esubero, che quindi potrebbero essere incentivate a finanziare parte dell’operazione training.

La crisi che stiamo attraversando è molto grave ed è irragionevole lasciare qualcosa di intentato. Se si fosse in grado di rimuovere gli ostacoli normativi, organizzativi e culturali, il presente schema di staffetta finanziato da ammortizzatori sociali potrebbe svolgere una funzione positiva, riequilibrando contemporaneamente il peso delle politiche attive, dato lo storico sbilanciamento in favore di quelle passive.

 

* Paolo Feltrin è professore associato di Scienza dell’Amministrazione presso l’Università di Trieste.

** Marco Valentini è direttore di ricerca del dipartimento Economia e Imprese presso la Tolomeo Studi e Ricerche srl.

 

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