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Qualche conto a favore di tempi di lavoro redistribuiti

Immaginiamo questa situazione. In un’azienda che “tira”, imprenditore e lavoratori sono d’accordo a ridefinire un sistema orario annuo che riduca mediamente l’orario individuale del 12,5% (pari cioè a 5 ore settimanali in meno). Hanno valutato che, a parità di volumi produttivi e con impianti saturati, con la nuova regolamentazione degli orari, si può realizzare un incremento occupazionale di giovani pari al 6,8%, ipotizzando che la produttività per ora lavorata assorba l’altra metà della riduzione d’orario. Ovviamente, va messo nel conto un incremento di costo del lavoro di pari portata. Infatti, all’esultanza per la concreta dimostrazione di solidarietà, fa da contrappeso un appesantimento di oneri salariali.

Non possono farcela da soli. A parità di salari, è verosimile che ogni incremento di produttività verrebbe assorbito da essi, rendendo non conveniente per l’azienda il gesto buona volontà. Se, invece, il maggior onere fosse a carico dei lavoratori, questi non reggerebbero una decurtazione salariale di quella portata. Il guaio è che, allo stato della legislazione di sostegno all’occupazione, non c’è alcuna norma che favorisca quella comune volontà. Com’è noto, vi è una selva di agevolazioni (ne sono state calcolate 43) per chi intende assumere un nuovo lavoratore, qualora la produzione fosse in crescita o per coprire il turnover. Inoltre, esiste una rete di protezione che arriva fino ai contratti di solidarietà, per quelle situazioni in cui la crisi produttiva minaccia i livelli occupazionali. Non c’è, invece, traccia di sollecitazione ad una contrattazione aziendale finalizzata allo scambio tra meno ore lavorate dai già occupati e più giovani assunti ex novo.

Varrebbe la pena che una norma di questo genere facesse parte dello scenario entro il quale un ‘impresa può dare una mano all’occupazione? In altri termini, è ragionevole concentrare risorse su operazioni di ripartizione del lavoro che c’è, in una fase in cui scarseggiano le disponibilità finanziarie da parte dello Stato? E ancora, è conveniente puntare le fiches su questo capitolo, piuttosto che  sulla classica strada del sostegno ad una domanda interna che langue o quella della concentrazione degli interventi sugli investimenti pubblici? La questione non può che essere affrontata e risolta pragmaticamente, senza visioni ideologiche o aprioristiche. 

Ebbene, la tabella allegata realizza una simulazione sull’efficacia a breve di una riduzione dell’orario di lavoro in fatto di occupazione. Ripercorre il ragionamento sviluppato dall’azienda presa a riferimento all’inizio di questo articolo. E  sviluppa una ipotesi “macro”. Per rimanere con i piedi per terra ed escludendo contributi di solidarietà a carico dei protagonisti aziendali (cosa legittima e sotto certi aspetti auspicabile, ma non presa in considerazione per comodità di valutazione) si è fatto riferimento ad una platea coinvolgibile pari al 20% dei dipendenti dell’industria e dei servizi privati e ad una retribuzione media annua di 30.000 euro. E’ realistico pensare che una tale platea è soltanto una quota, sia pure significativa, di quella parte del sistema produttivo italiano che attualmente non soffre di carenza di ordini e attività (nel settore metalmeccanico, il 40% delle aziende sta producendo a pieno regime e per almeno il 50%, produce per i mercati esteri). 

Dalla tabella si evince che, se questo universo si orientasse a contrattare una riduzione del 12,5% dell’orario annuo individuale, si otterrebbe un incremento di 150.000 nuovi occupati, con un aggravio per le casse dello Stato di circa 6 miliardi di euro. Si tratta di una bella cifra, ma non tale da mettersi le mani nei capelli. E come si vede nell’ultima parte della tabella si attiverebbero ricadute positive per le casse dello Stato, tali da rendere meno oneroso l’intervento. 

Ma per capire meglio se questa strada è la migliore per creare occupazione, bisogna verificare se sono più efficaci altre vie. La prima, come si è detto, è quella di un più vigoroso sostegno alla domanda interna. Se si mettessero 6 miliardi di euro nelle tasche degli italiani e fossero tutti spesi, gli effetti in termini di occupazione sarebbero minimi, dato che sappiamo che soltanto un incremento del Pil del 2% può incominciare a svuotare il bacino della disoccupazione. Quei 6 miliardi sono, invece, solo un terzo di un punto di Pil.

La seconda è quella degli investimenti. Se i 6 miliardi di euro fossero canalizzati tutti sugli investimenti privati e pubblici, l’effetto occupazionale sarebbe intorno a 100.000/120.000 nuovi posti (si calcola che un nuovo posto di lavoro così nato, vale 50.000 euro), cifra ragguardevole ma sempre più bassa di quella raggiungibile con la ripartizione del lavoro. Va sottolineato che, mentre l’effetto aggiuntivo di nuova occupazione sarebbe quasi immediato nel caso della prima ipotesi, se la fiche viene puntata sugli investimenti, quel risultato si ottiene a regime entro un arco di tempo necessariamente e realisticamente più lungo.

Si tratta di un esercizio comparativo non particolarmente raffinato sotto il profilo della precisione contenutistica, ma proprio per questo sono stati assunti valori non risicati ma con buoni margini di sicurezza. L’obiettivo è quello di sollecitare visioni di strategia che non riflettano tanto convenienze di breve periodo, né che affrontino questioni nuove con strumenti vecchi. Se il lavoro è una vera priorità, non basta metterlo al primo posto nei discorsi ufficiali, per poi farlo regredire nei fatti agli ultimi posti del buon governo. Né può valere in assoluto la tesi che non ci sono risorse per tutto e tutti. Se, come si dice, si sta andando verso la costituzione di un Fondo che automaticamente trasferisce i vantaggi della spending review e della lotta all’evasione all’abbattimento del cuneo fiscale, si deve sapere che i possibili recuperi dell’occupazione diventano soltanto una variabile dipendente della domanda interna. Cioè poca cosa. Forse, anche in considerazione che la somma delle due voci di entrata del Fondo dovrebbe fare ben più di 6 miliardi già nel 2014, sarebbe meglio che si prendesse in considerazione la confezione di una norma che finanzi le riduzioni d’orario contrattate azienda per azienda e nello stesso tempo cancelli i vantaggi al ricorso dello straordinario.

Non la legge, ma le parti sociali devono essere i protagonisti della strategia degli orari, direttamente sui luoghi di lavoro e coinvolgendo i lavoratori. Fare sul serio, è più difficile che sparare slogan. Ma non è più tempo di slogan. La disoccupazione è questione che giorno per giorno mina la coesione sociale.

 

EFFETTI OCCUPAZIONALI DI UNA RIDUZIONE DEGLI ORARI DI LAVORO

 

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