Nel 1930 il più grande economista del secolo scorso – Maynard Keynes – parlando a Madrid davanti ad un consesso internazionale, scandalizzò i suoi prestigiosi ascoltatori enunciando quali erano, a suo avviso, le prospettive di lavoro per i suoi nipoti. Keynes è nato nel 1885 ed è morto nel 1947: dunque, i suoi nipoti corrispondono a noi e ai nostri figli.
Secondo il grande economista, dunque, già nel 1930 l’umanità si era dotata delle tecnologie sufficienti a garantire l’uomo dai bisogni primari del cibo e della sicurezza. Dunque, i problemi dei nostri figli non sarebbero stati di ordine economico ma di ordine culturale. I paesi ricchi, infatti, si sarebbero trovati ben presto di fronte alla mancanza di lavoro, assorbito ormai dalle macchine, con la conseguente necessità di distribuire con equità i beni prodotti meccanicamente e fare in modo che ogni cittadino potesse lavorare almeno un poco: tre ore al giorno o, comunque, quindici ore alla settimana.
Quando Keynes scriveva queste cose, non erano stati ancora inventati il calcolatore elettronico, il laser, le fibre artificiali, il fax, la fissione nucleare, la plastica, il transistor, le fibre ottiche, il cellulare, la tac, internet. Keynes stesso predicava che, se in un determinato Paese il tasso di disoccupazione avesse superato il 2%, l’economia di quel Paese sarebbe andata allo sbando. Oggi i disoccupati superano il 12% in Italia e in Europa, il 20% in Spagna. Eppure, non ci consideriamo fuori gioco. Perché?
Per dare una risposta occorre fare un passo indietro nella nostra storia. Da sempre gli esseri umani hanno sognato di produrre beni e servizi senza doversi sobbarcare alla fatica. Ma da sempre, ogni volta che si profila la possibilità di realizzare questo sogno, l’umanità si dimostra impreparata all’evento e lo vive più con angoscia che con gioia.
Nella mitica età di Pericle, Aristotele vagheggiò: “Se ogni strumento potesse, a un ordine dato, lavorare da se stesso, se le spolette tessessero da sole, se l’archetto suonasse da solo sulla cetra, gli imprenditori potrebbero fare a meno degli operai e i padroni degli schiavi”. Quando scriveva queste cose, i 60.000 cittadini liberi di Atene erano serviti da 300.000 schiavi. Più tardi, quando Roma era all’apice del suo fulgore, l’impero disponeva di 10 milioni di schiavi su una popolazione totale di 50 milioni di abitanti.
Quest’ampia disponibilità di manodopera a costo zero disincentivò i Greci e i Romani da qualsiasi progresso tecnologico: ancora dieci secoli dopo Cristo, l’uomo fruiva di supporti pratici pari a quelli inventati nella Mesopotamia di 4000 anni prima.
Fu proprio la carenza di schiavi, una volta terminato l’espansionismo imperiale, a incentivare nel Medioevo la diffusione di nuove tecnologie: il mulino ad acqua, la staffa e la bardatura moderna dei cavalli, la rotazione delle colture nei campi, l’orologio, gli occhiali, la polvere da sparo, la bussola permisero una prima, vasta sostituzione di manodopera con macchine, dando vita a quella proto-industrializzazione che trovò poi, nell’Inghilterra di Bacone, l’espressione più avanzata.
Nella metà del Settecento una nuova carenza di manodopera a basso costo spinse ad adottare le tecnologie e l’organizzazione industriale. Gli effetti furono straordinari: in due secoli appena, le calorie disponibili decuplicarono, i megawatt di energia crebbero di oltre cinquanta volte, fu consentita una sconfinata produzione di massa con l’impiego di una manodopera sempre meno numerosa.
In pochi decenni i paesi ricchi si trovarono vicini alla realizzazione dell’antico sogno aristotelico: la Fiat, dove oggi un lavoratore produce 100 vetture nello stesso tempo in cui, solo qualche anno fà, ne costruiva 10, prelude alla realizzazione di quel sogno; la fabbrica di Benetton, che sforna abiti senza nessun apporto di manodopera, è il superamento della condanna biblica a guadagnare il pane con il sudore della fronte.
A furia di immettere nel processo produttivo aliquote crescenti di tecnologia sempre più sofisticata, siamo ora giunti ad una svolta epocale: fino a qualche anno fa, il numero dei lavoratori sostituiti dalle macchine era inferiore al numero dei lavoratori che occorrevano per costruire quelle macchine e per far fronte all’espansione del mercato. Oggi la situazione è radicalmente diversa: la forza lavoro aumenta numericamente in tutto il mondo (nella metà del Settecento la popolazione mondiale era di 600 milioni; oggi è di quasi 7 miliardi); dall’altra, per costruire ciò che ci occorre, servono sempre meno lavoratori perché è ormai possibile delegare alle macchine tutta la fatica fisica e buona parte della fatica intellettuale. In altri termini, o si blocca il progresso tecnologico, o si riprogetta la vita degli esseri umani centrandola su poco lavoro e su molto tempo libero.
La novità, a livello di opinione pubblica nazionale e internazionale, è che, per la prima volta nella storia, la disoccupazione non è considerata solo come effetto di crisi, ma anche come effetto di successo aziendale. Dieci anni fa una rivista autorevole come Newsweek diffondeva per la prima volta il concetto di Jobless Growth: sviluppo senza lavoro. In Italia le faceva eco un articolo di Vittorio Zucconi sull’Espresso, non a caso intitolato “Andiamo così bene che ti licenzio”, in cui si riferiva che, oltre ad aziende mature (come l’IBM che aveva licenziato 24.000 dipendenti; la General Motors che ne aveva licenziati 50.000; la McDonnel Douglas, che ne aveva licenziati 10.000), anche aziende in ottima salute riducevano il personale proprio perché il successo permetteva loro di investire in modernissime tecnologie capaci di sostituire sempre più lavoro umano. In America era il caso della Procter & Gamble, che licenziava 13.000 dipendenti (su una forza lavoro complessiva di 105.000 unità) e chiudeva 30 fabbriche; in Giappone era il caso della Fujitsu, allora massima produttrice di computer, in ottima salute, che aveva appena licenziato 6.000 persone.
Jobless Growth, dunque,significa che produrremo sempre più oggetti e servizi con sempre meno persone. In qualche modo, l’antico sogno di Aristotele, una volta realizzato, invece di essere gioiosamente accolto come liberazione dal lavoro, è sofferto come flagello di disoccupazione. Questo effetto perverso dipende dalla nostra incapacità di godere i vantaggi cui non eravamo preparati; dipende dalla miopia con cui gli organizzatori aziendali e sindacali hanno recepito le nuove tecnologie senza predisporre le condizioni sociali necessarie per socializzarne i vantaggi, dipende dalla impreparazione epistemologica degli economisti, che non dispongono di modelli adeguati; dipende dai lavoratori (soprattutto maschi) che temono di essere costretti a occuparsi della famiglia e della casa. Invece di ridistribuire equamente il lavoro (merce sempre più scarsa) ai disoccupati (sempre più numerosi), si preferisce avere genitori che sgobbano dieci ore al giorno e figli completamente esclusi dal mondo lavorativo.
Come estrema beffa ai giovani disoccupati, si racconta loro che avranno un lavoro quando la nostra economia ricomincerà a crescere. Ma non si dice che questa crescita è del tutto improbabile e che, se anche ci fosse, le imprese investirebbero i loro soldi comprando robot piuttosto che lavoratori. Il lavoro mancherà anche quando saremo usciti dalla crisi perché il progresso è appunto liberazione dal lavoro. Sia nelle aziende che nella società, occorre dunque una classe dirigente capace di riprogettare ex novo la vita attiva dell’uomo. Ma, almeno per ora, quella di cui disponiamo, non possiede la cultura per farlo.
(*) Sociologo, Professore emerito di Sociologia del lavoro presso l’Università “La Sapienza” di Roma.