I conti della legge di stabilità, alla fine del procedimento parlamentare, torneranno, anche per Bruxelles. Non saremo ri-sottoposti a sorveglianza. Ma la sua sostanziale instabilità è palese ed è sottolineata da tre fattori, che combinandosi mettono in fibrillazione le certezze sui saldi finali.
Il primo fattore riguarda la previsione di crescita del Pil, 1,0% per il prossimo anno, assunta dalla legge di stabilità. E’ la cifra più alta rispetto a quelle dell’Istat(0,7), della Banca d’Italia (0,7), della UE(0,7), del Fondo monetario internazionale(0,7) e dell’Ocse(0,6). Questione di centesimi, ovviamente, ma che trascina l’esigenza di aggiustamenti in corso d’anno se a prevalere non sarà l’ottimismo di Saccomanni. La Commissione Europea ha già fatto un baccano senza eguali per lo sforamento di uno 0,1% dal patto di stabilità, per il 2013; figuriamoci, se si farà cogliere disattenta nel corso del prossimo anno.
Il secondo fattore attiene alle numerose clausole di salvaguardia previste qualora i conti triennali della legge di stabilità non dovessero tornare. Si prevede il ricorso all’aumento delle accise sulla benzina, oppure al taglio delle agevolazioni fiscali sulle spese sanitarie o sugli interessi dei mutui. Per ora sono soltanto una sorta di uscita di sicurezza, ma anche per l’aumento dell’Iva la vicenda incominciò nello stesso modo. Il fatto che ci siano questi prelievi annunciati, fa sospettare che, qua e là, nella legge di stabilità, ci sono entrate sovrastimate o uscite sottostimate.
Il terzo fattore è quello che dovrebbe allarmare di più. L’occupazione complessiva non crescerà, la disoccupazione giovanile ha sfondato il muro del 40%, quella degli ultra cinquantenni è in costante aumento. Le famiglie, con questi chiari di luna, non spenderanno, anche ammesso che ne avessero la possibilità. Si stringerà ulteriormente la cinghia. Ma anche il Pil ne risentirà. La legge di stabilità lancia un timido segnale con il mini taglio del cuneo fiscale per i percettori di reddito sotto i 35000 euro lordi e forse sarà rafforzato dall’impegno a destinare le risorse liberate dalla spending review , attraverso un meccanismo automatico, all’ulteriore riduzione del cuneo. Il coro unanime a favore di questa soluzione lascia ben sperare.
Ma resta l’incognita della consistenza e della tempistica della revisione della spesa. Il Governo prevede entro il 2016 un dimagrimento di 32 miliardi di euro. Un quarto di quello previsto dal Governo britannico che, essendo partito prima, ora può vantare di realizzare, entro marzo del prossimo anno, il 44% del percorso programmato (118 miliardi di sterline entro il 2018). Ma è la tempistica la vera incognita, perché allo stato, è noto soltanto che il lavoro del Commissario Cottarelli e della sua equipe è impostato su un duplice criterio: convincimento di quanti dovranno subire i tagli e garanzia che non saranno lineari. Concetti condivisibili, ma che potranno essere validati e pesati, soltanto mettendoli alla prova.
A questa incognita, si aggiunge l’assoluta assenza di misure per attivare nel breve periodo l’occupazione. La cassetta degli attrezzi non è stata minimamente irrobustita. Ci sono i rifinanziamenti degli ammortizzatori sociali, senza aggiungere risorse consistenti ai contratti di solidarietà, si prosegue con i crediti d’imposta, si conferma il ventaglio di modalità di entrata nel mercato del lavoro. In sostanza, tutto è affidato alla crescita, ma siccome essa stenta ad assumere una consistente inversione di tendenza rispetto al decennio passato, anche l’occupazione resterà al palo.
I grandi assenti, in questa legge, sono le scelte di politica industriale e gli stimoli alla crescita della competitività del sistema e delle aziende. Le prime, sembra che interessino poco al Governo che, fra l’altro, lanciando la campagna di privatizzazione delle sue partecipate, è come se frenasse qualsiasi potenzialità di manovra di queste che sono un bel pezzo del nostro patrimonio di grandi aziende. Gli stimoli alla produttività restano fermi alla detassazione degli straordinari e della turnistica, quando tutti gli studi ormai mettono l’accento sui fattori esterni all’attività produttiva e per quelli interni alle imprese insistono sulla crescita dimensionale, la diversificazione industriale, gli alti tassi di diplomati e laureati nelle discipline che interessano le aziende (S. Manzocchi e altri, Le cento Italie della competitività, Rubettino).
E’ su questi fronti che bisogna continuare a battere il chiodo. L’approvazione della legge di stabilità non fa chiudere per un anno i battenti della politica economica. E’ sperabile che a tenere il banco non continui ad essere la tassazione sulla casa. Sarebbe una sciagura, per la sua natura deviante dai problemi veri di quegli italiani che sono senza certezze reddituali e occupazionali. Tutto non si può ottenere. Bisogna puntare a quelle scelte che innovino il nostro Paese, piuttosto che rimanere nel pantano della tutela delle rendite. Infatti, la priorità data alla detassazione della casa (tematica inesistente in altri Paesi) ha come brodo di cultura una mentalità redditiera piuttosto che quella produttiva. E la sfida è proprio quella di rendere visibile che questo Paese vuole creare ricchezza piuttosto che conservare quella che già ha.