Per iniziare a dire di Aris mi servirò del linguaggio metaforico col quale la sua “compagna di vita e di pensieri” racconta, nel recentissimo L’età della moneta, l’epico conflitto di cui sono protagonisti gli uomini della moneta, gli uomini dei libri e gli uomini del lavoro che, nella società industriale, erano anzitutto gli uomini col colletto blu e le mani callose. Sono sicuro che Rita Di Leo non me ne vorrà, perché tutto lasciava presagire che il destino professionale di Aris non avrebbe differito da quello del padre: un uomo del lavoro con la qualifica di aggiustatore stampista. E’ con la medesima qualifica infatti che il giovane Aris trascorre più di dieci anni in un’azienda metalmeccanica. Fino al licenziamento per motivi anti-sindacali.
Però, nel suo dna era inscritta la vocazione a diventare l’intellettuale di riferimento del popolo degli uomini del lavoro. Che di lui potevano fidarsi. E ciò perché l’esperienza dell’uomo del lavoro che era stato, e avrebbe dovuto restare per tutta la vita, era l’ago della bussola che lo guidava nei suoi itinerari scientifico-culturali. In questo senso, perciò, Aris non ha mai smesso di appartenere al popolo degli uomini del lavoro. Nei confronti del quale si era auto-assegnato un ruolo più d’intermediazione che d’insegnamento dottrinale. Un ruolo svolto con impegno inusuale per continuità e devozione; come se si fosse trattato d’un dovere morale che, in quanto tale, per essere adempiuto esigeva la passione totalizzante della cui prepotenza lo stesso Aris si farà carico. Col garbo che era una sua cifra stilistica, domanderà scusa per avere tardato a rendersi conto di quanto sia egoistico chiedere agli altri di amare il proprio lavoro come lui amava il suo.
L’attaccamento alle sue radici è all’origine dell’anticonformismo di questo uomo dei libri rispetto alla mentalità dominante nel suo stesso ambiente politico-culturale.
Sta di fatto che precorre i tempi la sua nitida percezione che il consolidarsi del regime d’informalità del diritto sindacale permette alle parti sociali di praticare un gioco consistente nel restare fuoridella costituzione senza, per ciò stesso, mettersi contro, e nel cercare altrove ciò che vi sta dentro. Ne costituisce un significativo compendio la sorte toccata all’art. 39. Ormai, è opinione comune alla generalità degli operatori giuridici e sindacali che l’art. 39 è inattuato, inattuabile e tuttavia attuale: un modo di dire che piacerebbe al fondatore del teatro dell’assurdo.
Le anomalie (ma, non a torto, Aris parla anche di “schizofrenie”) del sistema sindacale sono numerose. A beneficio (anche) dei giuristi, Aris osserva che il sistema:
– è tenuto insieme da poco più che spago e chiodi pur proponendosi come insostituibile, perché il “feticismo costituzionale” degli attori nasconde la tentazione di cancellare di fatto tre quarti del mosaico di norme che rispecchia la cultura giuridico-sindacale dei costituenti;
– è governato da una coalizione di “carissimi nemici” che si rifiutano di riflettere sull’anacronismo di una dis-unità che venne impostata per ragioni estranee alla logica sindacale;
– è basato su principi pre-moderni che fanno del sindacato-istituzione più un tutore che un mandatario e del suo rappresentato, siccome destinatario finale di decisioni prese chissà dove anche in nome suo, un soggetto a metà strada tra il capace e l’incapace: l’organizzazione “poggia sì su alte idealità, ma anche su meccanismi poco trasparenti”. Lo stesso statuto dei lavoratori si preoccupa delle garanzie dei rappresentanti di fronte al potere dell’impresa, ma non definisce la posizione dei rappresentati di fronte al potere dei rappresentanti: questo, infatti, è il non-detto dello statuto anche secondo Massimo D’Antona.
Osserva, inoltre, Aris che, nell’arco di un secolo o giù di lì, il mondo della produzione ha sprigionato coercizioni di segno opposto: uniformante l’una, deflagrante l’altra. Entrambe hanno gettato un’infinità di uomini e donne privi di fonti di sostentamento diverse dalla capacità di lavoro nella condizione di aggirarsi in un mondo divenuto improvvisamente ostile con mappe invecchiate. Come dire: figlio del Novecento, il diritto del lavoro – legificato o negoziato in sede sindacale – ha fatto quel che doveva. Ha omologato e livellato i trattamenti economico-normativi. Adesso, non può sottrarsi alla sfida delle differenze che hanno fatto irruzione nel mondo del lavoro, premendo sui suoi congegni normalizzatori, e chiedono di essere ammesse e rispettate. E ciò perché “il post-fordismo sta facendo emergere nel mondo del lavoro altrettante diversità quant’erano state le uniformità introdotte dal taylor-fordismo”
Aris, ch’io sappia, non disse mai del disagio che doveva provocargli il confronto con interlocutori che, pur seguitando a chiamarlo “compagno professore”, nell’intimo lo colpevolizzavano per la sua attitudine a formulare interrogativi imbarazzanti (“come diversificare gli assetti normativi in relazione ai bisogni e alle aspettative?”) e dissacrare miti (“il post-fordismo prepara un nuovo lavoro e un nuovo lavoratore”).
So soltanto che, per carattere, non cadde mai nel vezzo delle penose abiure e che non avrebbe mai indossato il saio del penitente. In coerenza, del resto, col suo tragitto esistenziale. Ciò che in esso c’è di autenticamente fiabesco è il come Aris entrò nell’élitedegli uomini dei libri che lavorano negli atenei. Entrarci senza il maestro che ti ha laureato e dal quale ti aspetti atteggiamenti protettivi è un evento che ha del sensazionale e difatti nella storia dell’Università (non solo) italiana se ne conta un numero esiguo.
A merito di Aris, tuttavia, va ascritto un esito di fondamentale importanza: riuscì a trasformare in un privilegio l’handicap dell’essere orfano di maestro. Per questo, è corretto rifarsi al giudizio che Paolo Grossi ha di recente espresso riguardo ad un out-sidercome Gino Giugni al quale Aris si sentiva unito da affinità elettive della cui esistenza, so per certo, neanche Gino dubitava. Per entrambi lo scomodo privilegio significò “libertà di scelte, libertà di azione intellettuale, libertà di ricercare la propria identità senza condizionamenti”.
Ma Aris non solo era orfano di maestro. Non aveva nemmeno il diploma di laurea. Aris era un autodidatta d’eccellenza. A sua insaputa, però, si erano create le condizioni favorevoli al coronamento nel più solenne dei modi del suo processo di formazione. All’aprirsi del nuovo millennio, infatti, l’Università di Ferrara gli conferirà la laurea honoris causanel ramo del sapere giuridico nei confronti del quale aveva dimostrato una spiccata sensibilità non solo da sociologo del lavoro (come si desume da quanto finora esposto), ma anche e soprattutto in qualità di componente per sei anni della Commissione di garanzia istituita in attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali del 1990 – la prima d’una lunga serie. Diciamo: la madre di tutte le Commissioni successive.
E’ bene, a questo punto, che si sappia come conclude la rituale laudatiodel proponente del conferimento della laurea, amico e collega Guido Balandi. “Noi giuslavoristi siamo un poco invidiosi della bravura di Aris Accornero. Ma abbiamo capito che, per vincere il disdicevole sentimento, non c’è altro modo che cooptarlo tra di noi. Così, tutti insieme potremo dire di essere un poco migliorati”.