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Più problemi che certezze*

Differenziazione e livelli essenziali 

Il disegno di legge fa dipendere l’intero processo dalla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale: l’avverbio “subordinatamente” sembra costituire il baluardo dell’eguaglianza, perché rassicura sul fatto che nessuna iniziativa potrà essere intrapresa fintantoché il Presidente del Consiglio dei ministri non avrà provveduto alla definizione dei LEP, in quanto forma di parametrazione delle prestazioni, con funzioni di garanzia di uniforme trattamento dei cittadini in qualsiasi porzione del territorio nazionale. Giova infatti ricordare la funzione della singolare innovazione della revisione costituzionale del 2001 – il “livello essenziale” come garanzia del principio di eguaglianza – che è stato letto fin dalla sua apparsa come il parametro suscettibile di una variazione verso una soglia superiore come manifestazione dell’autonomia delle Regioni. 

All’impiego di questa categoria ha fatto appello, da tempo, tutta la dottrina che ha preteso che il processo di trasferimento di funzioni contemplato dall’art. 116, co. 3, Cost. avvenga in sintonia con la Costituzione. Per cui ai LEP ci si è rivolti per scongiurare che la pratica del regionalismo differenziato non produca squilibri irragionevoli. Dal quadro normativo è infatti deducibile un meccanismo a cascata, che fa dei LEP un punto di passaggio ritenuto “obbligato” per un armonico sviluppo del modello. Di fatto non sono individuati come elemento vincolante nell’art. 116, co. 3, Cost., ma ci si arriva per passaggi intermedi. Tale disposizione, infatti, pone l’art. 119 come condizione di attuazione del regionalismo differenziato; a sua volta l’art. 119 Cost. non menziona i LEP, limitandosi a prevedere interventi straordinari di finanziamento per “favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona”, ma tale disposizione ha trovato compimento (almeno formalmente) nella legge n. 42/2009, che ha collegato le fonti di entrata degli enti territoriali alla configurazione dei LEP. Per finire, il d. lgs. n. 68/2011, di attuazione della legge delega del 2009 con riguardo all’autonomia finanziaria delle Regioni, ha preteso che nei settori della sanità, dell’assistenza, dell’istruzione e del trasporto pubblico locale vada effettuata la ricognizione dei LEP.

Alcune considerazioni ulteriori possono essere espresse per inquadrare meglio i LEP. Fin dalla comparsa del paradigma del “livello essenziale” la Corte costituzionale, le istituzioni politiche nazionali e regionali e la dottrina si sono interrogati su tanti profili aperti di questa previsione costituzionale del Titolo V : chiedendosi il significato dell’“essenzialità”; quali le condizioni di derogabilità; la misura di differenziazione che può essere generata dal superamento del livello essenziale; i possibili contraccolpi sul piano dell’eguaglianza nel godimento dei diritti; ma anche l’“appetibilità”, per l’amministratore regionale, di effettuare uno sforzo finanziario per garantire più numerose (o migliori) prestazioni di quelle che il legislatore nazionale gli impone di assicurare. Si tratta dunque di una previsione che non ha finito di suscitare quesiti e che viene alla ribalta in relazione a situazioni sempre nuove, che dimostrano la sua costante attualità e, insieme, la difficoltà a ritenere assestato e concluso il dibattito che la riguarda. 

Del resto se è vero – com’è vero – che “l’essenziale è invisibile agli occhi” (così Antoine de Saint Exupery ne Il piccolo principe) la ricerca non avrà mai fine. 

Ci si può, allora, sforzare di inquadrare con maggiore completezza la competenza ex art. 117, co. 2, lett. m), Cost. Essa è stata definita dalla Corte in termini di “determinazione degli standard strutturali e qualitativi di prestazioni che, concernendo il soddisfacimento di diritti civili e sociali, devono essere garantiti, con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto”. La medesima “determinazione” va intesa come l’insieme delle soglie di prestazioni che lo Stato deve definire per garantire l’uniformità di trattamento: la competenza dello Stato è funzionale “ad evitare che, in parti del territorio nazionale, gli utenti debbano, in ipotesi, assoggettarsi ad un regime (di assistenza sanitaria) inferiore, per quantità e qualità, a quello ritenuto intangibile dallo Stato”. Fissato questo punto fermo, è però vero che le Regioni e gli enti locali possono garantire, nell’ambito delle proprie competenze, livelli ulteriori di tutela: in tal senso si sono espresse le sentt. nn. 248/2006, 322 e 200/2009, 207 e 10/2010, e infine 297/2012, completando la prerogativa statale con l’ulteriore argomento che alle Regioni è sempre possibile fornire “con proprie risorse, prestazioni aggiuntive tese a migliorare ulteriormente il livello delle prestazioni, oltre la soglia minima uniforme prescritta dalla legge statale”, e restando “integra la potestà stessa della Regione di sviluppare ed arricchire il livello e la qualità delle prestazioni individuate dalla legislazione statale, in forme compatibili con quest’ultima”. Tale è il modello astrattamente applicabile a partire dalla disposizione costituzionale: non è mancata poi giurisprudenza costituzionale – anche la sent. n. 6/2019, oltre a quelle già evocate – che ha evidenziato come diventi spesso estremamente difficile per le Regioni garantire quanto ad esse compete, e di conseguenza come diventi “illusorio” l’obiettivo di innalzare le prestazioni sociali al di sopra del livello dell’essenzialità. Si sono presentate situazioni in cui le Regioni hanno addirittura deciso di erogare in maniera parziale le prestazioni dei Lep: ne è un esempio la vicenda che ha condotto alla sent. n. 72/2020, già richiamata, in occasione della quale una disciplina della Regione Puglia è stata annullata per avere riservato alcune prestazioni per la non autosufficienza solo a beneficio di alcune categorie

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Il difficile equilibrio tra eguaglianza e autonomia: il nodo delle risorse finanziarie 

Così spiegato il contorto percorso che conduce ai LEP, ed alla luce di queste ultime considerazioni, il ricorrere quasi ossessivo dei “livelli essenziali” nel disegno di legge è segnale del fatto che essi possano rappresentare ormai una formula vuota. I dati consolidati e ben conosciuti sullo stato dei servizi in larghe parti del Paese, dove mancano drammaticamente le “prestazioni” sanitarie, educative e di trasporto locale degne dei loro nomi, confermano quanto possa dimostrarsi astratto e inutile lo sforzo di elencare attività della Pubblica amministrazione, che non hanno riscontro nella realtà. Dove mancano le condizioni affinché gli apparati pubblici preposti alle infrastrutture ed ai servizi alla persona possano offrire accettabili prestazioni ai cittadini, la classificazione di queste ultime con l’intento di fissare le soglie di uniforme erogazione a beneficio di chiunque appare, ormai, un esercizio accademico o di stile, che non ha alcun contatto o riferimento obiettivo con la situazione effettiva. 

Anche perché ormai un certo numero di LEP esistono, proclamati come tali. Come evidenziato, in ambito sanitario sono comparsi nel 2001, e più recentemente in ambito di alcuni servizi sociali ha provveduto la legge di bilancio 2022: con mutevoli modalità di definizione, dall’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” esclude scenari di riaggiustamento delle dotazioni. Né a vantaggio dei territori che si candidano all’intesa, né a vantaggio delle istituzioni che manterranno invariata la qualità della loro autonomia.
La relazione illustrativa è chiara a riguardo: “per le singole Regioni che non siano parte dell’intesa, sono garantiti l’invarianza finanziaria nonché il finanziamento delle iniziative finalizzate ad attuare le previsioni di cui all’articolo 119, terzo e quinto comma, della Costituzione, concernenti, rispettivamente, la perequazione ordinaria e gli interventi speciali. Le intese, in ogni caso, non possono pregiudicare l’entità delle risorse da destinare a ciascuna delle altre Regioni”.
Quanto enunciato è senz’altro un ostacolo ad una diminuzione delle risorse assegnabili alle Regioni, che non perseguiranno la differenziazione. Ma allo stesso tempo si trasforma in un sicuro freno ad interventi di correzione, a favore delle medesime, che si rivelassero necessari dopo la variazione della geometria delle competenze delle Regioni ordinarie; nessun sostegno è immaginabile per sanità, istruzione e altre materie fondate sui LEP, nel caso in cui occorresse colmare i divari che verosimilmente si manifesteranno. 

Il nodo fondamentale resta in definitiva quello del finanziamento delle nuove funzioni a cui le Regioni intendono candidarsi: finanziamento che, appunto, dal ddl appare condizionato alla determinazione dei LEP. Esula dalle competenze di chi scrive indicare le modalità di calcolo di tali risorse, ma chi invece ha titolo per pronunciarsi, ovvero gli scienziati delle finanze, avvertono che difficilmente tale operazione può compiersi in un arco temporale così breve, quello dell’anno presente, perché “si tratta di stime assai complesse, che  richiedono informazioni dettagliate, nella maggior parte dei casi ancora da raccogliere, come si è visto nel caso dell’analogo processo di definizione dei fabbisogni standard per i Comuni”. Il rischio, che incontra un alto tasso di probabilità, è quello che si finisca poi per ricorrere al criterio della spesa storica, che oltre a cristallizzare assetti di diseguaglianza – come emerge da dati di Corte dei conti e Ufficio parlamentare del bilancio – risulterebbe un esito ridicolo dell’intero processo in atto, per la negazione del valore dell’autonomia finanziaria che richiede responsabilità e capacità amministrativa. 

Se i LEP si dimostrano, dunque, esposti ad una certa misura di inaffidabilità, c’è da mettere in conto che sempre più i cittadini delle Regioni, dove istruzione, sanità, assistenza sociale e infrastrutture di trasporto locale e collegamenti sono scadenti e non aprono a scenari di vita dignitosi, si rivolgano ai territori dove i servizi hanno una ben diversa consistenza, e sono idonei a soddisfare aspettative e bisogni. Questi sono, prevalentemente i territori che, dopo avere costruito nei decenni sistemi amministrativi di apprezzabile riuscita, anche grazie ad un finanziamento dello Stato parametrato sui fabbisogni nazionali, ritengono ora di poter assumere in esclusiva le relative competenze e di poter nego- ziare un assetto delle risorse – parametrato sui fabbisogni del loro territorio – che renda ancora più efficiente ed efficace il servizio offerto. 

Del resto a chi obietti sull’improprietà di quello che è stato, troppo disinvoltamente, rubricato come “turismo sanitario” – riferendosi a quelle famiglie delle province povere del Sud che si spostano a Milano o a Bologna per cercar cure alle malattie gravi – si deve ribattere che il diritto alla tutela della salute propria e dei propri cari è un diritto individuale fondamentale, che non può trovare barriere in una regionalizzazione che sia stata realizzata in un prisma di differenziazione (al ribasso). Comunque siano scritti i testi normativi de quibus una madre percepisce, col cuore, come essenziale e pretende come diritto che il proprio figlio sia curato e salvato. Se poi ciò spetti allo Stato, alla Regione o alla ASL o ASST farsi mezzo per raggiungere quel risultato, a lei nulla importa. 

*Stralcio da Osservatoriosullefonti.it – Anno XVI  

** Già Professore ordinario di Diritto costituzionale, Università Cattolica Milano Contatto: enzo.balboni@unicatt.it 

** Professoressa ordinaria di Istituzioni di diritto pubblico, Università Milano Bicocca Contatto: camilla.buzzacchi@unimib.it

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