La politica di coesione segna la biografia di Fabrizio Barca, oggi co-coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità. Nel 2008 la Commissione Ue gli ha assegnato la stesura di una “Agenda per la riforma della politica di coesione”. Nel 2011 Mario Monti gli ha affidato l’incarico di ministro per la Coesione territoriale.
Il rapporto Draghi e il tormentone della competitività permeano la riforma del bilancio Ue che Ursula von der Leyen ha in mente. L’idea di finanziare i “grandi campioni” non è antitetica allo spirito della coesione?
L’idea in sé di ridurre il divario di ricerca e innovazione tra l’Ue e altri attori internazionali può essere compatibile con gli obiettivi della coesione se la si intende come possibilità per ogni territorio di esprimere le sue capacità di innovazione. Ma – anche se è una buona notizia che l’Ue si doti di un piano – quello di Draghi la danneggia: l’obiettivo di rafforzare la capacità innovativa viene giocato in un modo superato e antisociale, che trascura e nega i punti di forza dell’Europa. Se Fitto, in riferimento alla coesione, metterà fondi per creare campioni europei realizzerà un micidiale combinato disposto tra ridurre la tutela della concorrenza e dare incentivi a corporation che non hanno vincoli europei e potranno andarsene senza neppure ringraziare una volta sfruttate le risorse (si veda Stellantis). La forza dell’Europa, Italia in primis, sta invece nello straordinario sistema di aziende medio grandi che all’Ue chiedono anzitutto certezze per poter investire. Nel rapporto stilato nel 2008 individuavamo missioni strategiche di grande attualità come l’adattamento climatico. A Fitto direi: concentrati su missioni che parlino ai bisogni e anticipino le devastazioni in arrivo.
Sono passati 15 anni da quando è stato pubblicato il rapporto Barca, voluto dalla commissaria Hübner. Gli sviluppi sono stati all’altezza di quella agenda?
Sono stati paradossali. Il rapporto ha trasmesso un metodo che stava maturando nella pratica dei territori e nelle accademie, sdoganando politiche che tenessero insieme l’individuazione di obiettivi lungimiranti a livello europeo e saperi e aspirazioni dei territori con un processo dialettico continuo. Al contempo questa eredità non ha mai vinto il cuore delle classi dirigenti. Si è andati all’indietro.
Il Porr non ha avviato cambi virtuosi?
Sulla carta, quel modello contiene una battaglia nostra del 2008-9: lo sganciamento dei pagamenti dalla realizzazione della spesa e l’aggancio a target di contenuto, risultato, riforma. Ma nei fatti, l’allontanamento dell’esperienza del Pnri dalla logica di coesione è altissimo: sia nella costruzione dei piani che nell’attuazione non c’è stata pressoché alcuna interazione coi vari livelli di governo e con la società civile. Nel 2012, quando ero ministro del governo Monti, costruimmo lo strumento di monitoraggio Open Coesione. Obama premiò l’Italia per la qualità del monitoraggio, mentre oggi neppure i parlamentari sanno con esattezza quali siano i progetti del Pnrr che camminano. I fondi possono essere usati in due modi opposti, ed è per questo che il monitoraggio è crucia-le: uno è distribuire rendite per acquietare momentaneamente; l’altro è cambiare la vita delle persone, tirarle fuori dalla trappola del sottosviluppo con un salto definitivo. Una qualità di monitoraggio bassa implica un deficit di controllo collettivo. E poi c’è la fretta: in teoria il Pnrr è legato ai target; di fatto in nome dell’urgenza sono stati abbassati al punto da rischiare la spesa in nome della spesa.
Cosa si rischia se si usa il “modello Pnrr” su più ampia scala, modificando cosi anche la coesione?
Il limite che segnalavo è un altro, clamoroso: per Next Generation EU la Commissione non si è dotata di una struttura tale da accompagnare i paesi e garantire ai cittadini la qualità dell’intervento. Una politica sensibile a luoghi e persone è esattamente il contrario di uno spezzatino localistico, richiede una squadra robusta o potente a livello centrale e missioni strategiche chiare: metà del mio rapporto era dedicata a definirle, e se le ripercorro suonano attuali. L’intero piano Draghi è improntato al keynesismo bastardo; chiede di caricare su figli e nipoti enormi debiti a livello europeo, e per fare cosa? In larga misura, per costruire armi e per creare piccoli Musk europei, stravolgendo così il sistema di imprese che regge l’innovazione in Europa; e poi per realizzare infrastrutture a scelta dei singoli governi, senza missioni che rispondano alle angosce di milioni di europei.
Le sue riflessioni sottintendono due tendenze: il deterioramento dei processi democratici in Ue e l’inasprimento del suo versante neoliberista.
Esatto. Missioni strategiche implicano un processo democratico, invece von der Leyen accentra: indebolisce ogni commissario con la logica dello spezzati-no; è evidente il senso di fragilità di una Commissione che non si radica su una solida coalizione. Il pensiero neoliberista — per cui la complessità è risolvibile con la concentrazione delle decisioni in mano alle corporation – è una delle ragioni per le quali il mio rapporto non ha conquistato i cuori della classe dirigente. Il neoliberismo è profondamente antiliberale. Non a caso il rapporto Draghi ammazza l’anti trust che Biden ci invidiava. Lo straordinario tessuto di imprese europee è stato tutelato finora dalle regole sulla concorrenza, principio liberale ma contrario al neoliberismo, che non dà limiti all’iniziativa privata e si alimenta di slogan come “semplificazione” (interpretandola come abbattimento di vincoli e regole). Tutto ciò comporta lo smantellamento degli strumenti che avevano reso l’Europa capace di affrontare le sfide. Draghi è convinto che la democrazia sia ortogonale alla competitività, non comprendendo che invece le due cose vanno insieme: non ho problemi con la competitività in sé, ma giocando con le mie carte. L’Europarlamento è il posto dove fare queste battaglie, e lo è specialmente ora che non c’è più maggioranza stabile: questa è una occasione per le destre, certo, ma potrebbe pure venir voglia ai socialisti di fare opposizione… Il neoliberismo di Thatcher, Reagan, persino di Berlusconi, ha provocato danni paurosi, ma prometteva che dietro l’angolo della diseguaglianza ci fosse l’uguaglianza per tutti. Questo neoliberismo invece non è neppure in grado di promettere questo. Dunque ha bisogno dell’autoritarismo, dell’ossessione compulsiva della difesa; attraversa una fase gramscianamente involutiva, ha bisogno di dominare, della concentrazione di poteri, del ddl 660.
*Questo contenuto giornalistico fa parte del progetto “#Coesioneltalia. L’Europa vicina”, che è finanziato dall’Ue. I punti di vista e le opinioni espresse sono tuttavia esclusivamente quelli dell’autore e non riflettono necessariamente quelli dell’Ue. Né l’Ue né l’autorità che eroga il finanziamento possono essere ritenute responsabili per tali opinioni.