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Basta critiche, ai Millennials dovete fare le domande giuste

C’è chi gli punta contro il dito: choosy, bamboccioni, sdraiati. E chi li ha già liquidati come la “generazione persa”, come se si fossero perduti da soli o dovessero espiare una colpa. Mai una generazione ha avuto tante etichette e mai – a dispetto di ciò – una generazione è stata tanto incompresa. 

Chi sono i Millennials? A fare chiarezza è il Pew Research Center, che ha appena tracciato i confini della “generazione Millenials”: sono i nati tra il 1981 e il 1996, chi è nato dopo fa parte di un’altra generazione, al momento senza nome. I Millennials hanno quindi fra i 22 e i 37 anni e in Italia sono la generazione che ha pagato il prezzo più alto della crisi economica.

Alessandro Rosina, ordinario di demografia all’Università Cattolica di Milano, li osserva da vicino da parecchio tempo, nelle vesti di coordinatore del “Rapporto Giovani” dell’Istituto Toniolo. «Non è vero che i Millennials sono la generazione perduta, questo non è un destino ineluttabile. Il ruolo delle nuove generazioni è andare oltre il presente, il compito della società è incoraggiarle a farlo», afferma. 

La fotografia scattata dal Rapporto Giovani 2018, pubblicato a metà aprile, segna un punto di svolta: i giovani oggi hanno una gran voglia «di lasciare alle spalle una crisi economica che li ha schiacciati in difesa e ha bloccato i loro progetti di vita, per essere finalmente messi nelle condizioni di diventare parte attiva di un processo di cambiamento e sviluppo del Paese», afferma Rosina. Una prova? Il 74% degli intervistati ritiene possibile impegnarsi in prima persona per cercare di far funzionare meglio le cose in Italia.

«Quando si parla di giovani il discorso pubblico è pieno di semplificazioni e luoghi comuni. L’errore fatale, per i giovani, sarebbe quello di adattarsi ad essere ciò che pensa di loro chi ha fallito nel far crescere il Paese, anziché farsi parte attiva delle forze che vogliono cambiare il Paese. La narrazione ci descrive giovani incapaci e indolenti, in un’Italia destinata a essere marginale, ma questa non deve diventare una profezia che si auto adempie. I giovani devono incaricarsi di dimostrare di essere diversi da come vengono dipinti da chi li ha messi nelle condizioni attuali, dimostrare che un destino diverso è possibile. Questo dipende molto da loro, ma può essere favorito anche dalle generazioni più mature, se sono disposte a passare dal giudizio ipercritico allo sforzo di comprendere e di agire coerentemente. Perché abbiamo avuto una generazione che ha agito in modo iperprotettivo nei confronti dei propri singoli figli e contemporaneamente ha alimentato un atteggiamento ipercritico verso le nuove generazioni».

 

Il disallineamento tra aspirazioni e lavoro

Rassegnarsi ad avere una generazione “mancata”, che non riesce a esprimere le proprie potenzialità e a realizzare le proprie ambizioni sarebbe «un danno non solo per i giovani, ma per l’Italia. I giovani oggi hanno voglia di scommettere su sé stessi e di esercitare un protagonismo positivo, ma manca un sistema Paese che sia un terreno fertile dove le nuove generazioni possano dare frutto». Prendiamo ad esempio il lavoro, condizione necessaria per realizzare quell’autonomia e anche quella famiglia propria che i giovani italiani comunque desiderano: il 40% dei nostri ragazzi afferma di avere un’aspirazione professionale, ma non sa se riuscirà a realizzarla, dieci punti sopra gli inglesi e i tedeschi. Un disallineamento che alimenta da un lato l’annosa questione del mismatching, dall’altro una condizione esistenziale di frustrazione.

Come intervenire su questo punto specifico? «Con una scuola che rafforzi le competenze utili alla vita e al lavoro e con strumenti più avanzati per costruire il percorso professionale. Abbiamo troppi under 35 nella condizione di Neet». 

La scuola italiana infatti pur riscuotendo un buon giudizio da parte dei giovani, «fa sempre più fatica a essere strumento di promozione sociale e a ridurre le diseguaglianze di partenza. Da noi è molto più alto che nel resto d’Europa il rischio di fermarsi a un titolo basso per chi proviene da famiglie con minori risorse socio-economiche. Inoltre, il rendimento del titolo di studio è più basso rispetto alle economie più avanzate: solo dopo i 30 anni la differenza tra avere o non avere una laurea diventa rilevante in termini di occupazione e retribuzione. Sapendo che il titolo di studio è condizione necessaria ma sempre meno sufficiente per fare una buona carriera, bisogna metterci del proprio in termini di impegno e intraprendenza: di questo i giovani sono estremamente consapevoli».

 

Alieni, ma con tutte le carte in regola

I Millennials italiani, secondo l’Osservatorio Giovani, si danno buoni voti nelle competenze trasversali: onestà, senso di responsabilità, desiderio di imparare, capacità di relazionarsi in modo adeguato con gli adulti, capacità di lavoro autonomo, di pensiero critico, di lavoro in gruppo, di empatia… 

Se tutto questo è vero e se le soft skills saranno sempre più determinanti nel mondo del lavoro, perché molte aziende si lamentano dei Millennials come se fossero alieni, quasi dei disadattati incapaci di stare alle regole base del mondo del lavoro? «Non si è giovani allo stesso modo in tutte le epoche storiche. Le nuove generazioni sono per propria natura diverse dalle generazioni precedenti. I Millennials vivono in un mondo complesso e in rapido mutamento, che ha punti di riferimento molto meno stabili del passato, pieno di contraddizioni, sfide e insidie nascoste», risponde il professor Rosina. 

Rispetto alle fragilità con il mondo del lavoro, «varie ricerche dicono che i giovani di oggi hanno meno propensione al sacrificio, minor capacità di concentrazione e maggior rischio di demotivazione rispetto ai propri genitori. Ma quando sono inseriti nei contesti giusti, con gli stimoli adeguati, con obiettivi concreti e ingaggianti, ci mettono più entusiasmo e impegno, raggiungendo risultati al di là delle aspettative».

Il punto allora qual è? «I ragazzi di oggi sono svogliati o stanno forse cambiando le modalità di apprendimento, richiedendo nuovi strumenti e strategie di insegnamento? È questo che dovremmo chiederci. Sono disimpegnati e indifferenti o forse il loro ingaggio alla partecipazione non segue più gli schemi tradizionali? Sono sfiduciati verso tutto e tutti o offrono attenzione a chi sa mettersi in sintonia con loro attraverso un linguaggio autentico, credibile, proponendo temi coerenti con le loro sensibilità? Su tutti questi punti esistono esperienze sul “che cosa funziona”, per ora purtroppo solo come eccezioni».

La buona notizia è che «c’è un grande desiderio dei giovani di essere riconosciuti non per quello che manca e che il passato non può più garantire, ma attraverso quello che essi possono essere e dare al Paese, per costruire un futuro migliore, coerente con i propri valori e progetti. Le nuove generazioni hanno il compito di dimostrare che quando si dà loro spazio e fiducia si ottengono i migliori risultati, ma questo Paese deve dimostrare di credere nei suoi giovani».

 (*) Professore ordinario presso l’Università Cattolica di Milano in collaborazione con Morning Future 01/06/2018 

 

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