Nei giorni scorsi la rivista “il Mulino”, nella sua edizione on line, ha pubblicato un documento appello di importanti docenti universitari, nella stragrande maggioranza di università del sud Italia, in cui si propone di mettere all’attenzione del piano di ricostruzione italiano, con i fondi del “Next Generation UE”, il mezzogiorno d’Italia. Un documento davvero interessante. In buona sostanza si afferma che non ci sarà una vera ricostruzione del nostro Paese senza il Mezzogiorno. Questo documento ci offre l’opportunità di fare il punto sul “meridionalismo”. Esiste un nuovo meridionalismo? Ne parliamo, in questa intervista, con il professor Luciano Brancaccio. Insegna Movimenti Sociali e Politici all’Università di Napoli Federico II. Conduce studi sulla politica e sulla criminalità organizzata in una prospettiva territoriale. Su questi temi ha di recente pubblicato: Il populismo di sinistra: il Movimento Cinque Stelle e il Movimento Arancione a Napoli (con D. Fruncillo), in «Meridiana» (2019); Crisi del clientelismo di partito e piccole rappresentanze territoriali. Forme e spazi del consenso personale a Napoli, in «Quaderni di Sociologia» (2018); I clan di camorra. Genesi e storia, Donzelli (2017).
Professore, lei e alcuni suoi colleghi, in maggioranza docenti nelle Università del Mezzogiorno, avete scritto un documento appello, in dieci punti, interessante, dal titolo :”Ricostruire l’Italia, con il Sud”. Però, prima, se mi è consentito, vorrei fare alcune domande sulla cultura “meridionalista”. Sappiamo bene quanto importanza ha avuto nella storia unitaria del nostro Paese il meridionalismo. Salvemini, Gramsci, Sturzo, E di Pasquale Saraceno, sono nomi che hanno fatto grande il “meridionalismo”. Ebbene, nel dibattito politico italiano, il “meridionalismo” sembra scomparso. Perché? Perché nessuno si professa più “meridionalista”?
C’è una ragione di carattere politico e una riguardante la riflessione sul tema. Quanto alla prima, l’inabissamento del discorso sul Mezzogiorno è una conseguenza della scomparsa del Mezzogiorno dall’agenda politica nazionale. Fino agli anni 70 gli interventi per il Mezzogiorno si inscrivevano nelle politiche per l’industria fordista, che è stata una componente non trascurabile dell’economia del Sud. Essi consistevano essenzialmente in misure di carattere macroeconomico: incentivi automatici alle imprese e grandi investimenti industriali di natura pubblica. Tramontata la fase fordista, la politica non è stata in grado di riformulare il problema, limitandosi a misure di equilibrio finanziario. Ciò ha avvantaggiato la struttura produttiva basata sulla piccola e media impresa del Nord, che poteva contare, diversamente dal Mezzogiorno, su un vantaggio competitivo costituito dalla migliore funzionalità dei fattori di contesto, relativi per esempio all’accesso al credito, a una imprenditorialità diffusa che facilmente creava reti di collaborazione, a una maggiore efficienza della Pubblica amministrazione.
Ma se la politica non è stata in grado di fare ciò è anche perché il pensiero sul Mezzogiorno non è riuscito a innovare a sufficienza le proprie categorie di analisi. Il passaggio postfordista richiedeva di superare l’approccio economicistico per affrontare i nodi irrisolti del contesto che, dopo il tramonto della grande industria, diventavano ancora più decisivi: i problemi strutturali delle grandi città, delle aree interne, delle capacità sociali e dei limiti politici. Ci sono stati alcuni studiosi, sociologi ed economisti, che hanno spinto molto negli anni passati per innovare in questa direzione. Solo per fare due nomi, Carlo Trigilia e Gianfranco Viesti hanno messo in evidenza a più riprese l’importanza di analisi che inquadrassero il ruolo dei fattori non strettamente economici dello sviluppo. Ma, complice anche la congiuntura storico-politica sfavorevole di cui dicevo, queste analisi non hanno trovato adeguata connessione con le politiche nazionali e il Mezzogiorno è entrato in un cono d’ombra dal quale ancora non è uscito.
Saraceno parlava di un “blocco sociale” (che non era più la borghesia agraria) che ha condizionato l’intervento dello Stato piegandolo agli interessi di quel blocco sociale (dilapidando il bilancio dello Stato con le famose “cattedrali nel deserto”). Non c’è lo stesso rischio anche oggi?
Quella espressione si riferiva alla presenza di un potere consolidato basato su interessi parassitari e promosso anche in sede nazionale. Oggi, semmai il problema è opposto. Nel Mezzogiorno non c’è un problema di poteri forti che fanno gerarchia, c’è piuttosto un problema di carenza di interessi organizzati. D’altra parte, i grandi mediatori clientelari della prima repubblica sono tramontati all’inizio degli anni 90. L’impoverimento assoluto e relativo degli anni successivi ha messo il Sud alla mercé di interessi diffusi, parcellizzati, particolaristici (tra i quali anche i circuiti di criminalità organizzata, che tuttavia costituiscono un problema generale e non solo del Sud, come si vede dalle recenti inchieste). Non c’è un blocco sociale al Sud, quindi. Almeno non nel senso del temine e nella dimensione dei fenomeni analizzati dal meridionalismo classico nelle varie fasi storiche del 900. Non è un caso che una nuova offerta politica antisistema (vedi il consenso verso il M5S e marginalmente la Lega di Salvini) trovi ampie praterie proprio al Sud, con scarsa capacità di resistenza, se non da parte di alcune leadership locali che agiscono su un registro decisamente populistico. Questo rende, paradossalmente, il Mezzogiorno un terreno relativamente sgombro, adatto alla ricezione di politiche innovative, purché se ne controllino in modo efficace le procedure e i risultati.
Saraceno auspicava un nuovo meridionalismo. Le domando: Esiste? Quali sono i punti cardini?
Un disegno unitario ma che deve essere in grado di declinarsi secondo le specificità dei luoghi e dei contesti socio-economici. Occorre fare tesoro della storia dell’intervento – e del non intervento – per il Mezzogiorno che abbiamo alle spalle. Politiche che promuovano l’uguaglianza, come da dettato costituzionale. Che assicurino che i servizi per i cittadini e per gli operatori economici erogati dallo Stato siano omogenei, a cominciare dai settori strategici (scuola, sanità, università e ricerca). Che assicurino una infrastrutturazione delle reti (di trasporto, di comunicazione) che metta tutti i territori in grado di dare il proprio contributo alla ricchezza nazionale. Per una questione morale di equità nazionale, che pure è decisiva per il prestigio del paese, ma anche e soprattutto per la convenienza che deriva dalla maggiore remuneratività degli investimenti nel Mezzogiorno. Questo significa, per esempio, che i trasferimenti dello Stato devono essere parametrati almeno al peso demografico e alle possibilità di miglioramento delle istituzioni locali, non alla spesa storica che invece è un moltiplicatore delle disuguaglianze. E significa anche che occorre utilizzare in modo perequativo la spesa in conto capitale per investimenti mirati allo sviluppo nel Mezzogiorno.
Parliamo del vostro documento – appello. Il titolo è molto bello e significativo: “Ricostruire l’Italia con il Sud”. l’occasione viene offerta dal Recovery Fund. Qual è la filosofia di fondo del documento? Quali sono i punti strategici?
La filosofia è quella di considerare l’Italia per quella che è e non per quella che spesso emerge nel dibattito pubblico: un paese unitario che sarà in grado di uscire dalla crisi in cui si è infilata e di cogliere le opportunità che ci vengono dal PNRR solo se saprà farlo con tutti i suoi territori. Occorre riconoscere e mettere a valore le complementarietà e le interdipendenze tra le economie e i territori del Sud e del Nord. La contrapposizione tra territori del nostro paese che spesso è sottointesa nel dibattito politico, nelle esternazioni di alcuni leader e anche nelle elaborazioni di alcuni tecnici ed esperti (qui spesso camuffata nel discorso sulle “eccellenze”) è una astrazione che non ha alcuna rispondenza nella vita reale dei cittadini e delle imprese, del Sud e del Nord. Se si vuole migliorare e offrire nuove prospettive per la parte attualmente avvantaggiata, occorre favorire un significativo avanzamento della parte più svantaggiata. D’altronde se abbiamo ottenuto come paese la porzione maggiore di aiuti europei è proprio per recuperare un gap territoriale interno che non ha eguali in altri paesi. Questo è l’obiettivo del piano europeo e su questo ci sarà chiesto conto. Chiediamo quindi che in ogni missione e linea progettuale del PNRR siano resi espliciti gli obiettivi territoriali e i risultati attesi per i cittadini e le imprese.
Sappiamo che l’Italia in Europa ha due pessimi primati: una cattiva capacità di spesa dei fondi europei e, anche, di cattive opere pubbliche (alcune). Come evitare che la storia si ripeta?
Rinforzando e innovando la PA. Occorre un intervento straordinario di riforma e rafforzamento delle amministrazioni pubbliche e in particolare di quelle comunali, di semplificazione delle norme e delle procedure. Nel Mezzogiorno gli organici sono ridotti rispetto al centronord e speso inadeguati dal punto di vista della formazione e dell’istruzione. Le nuove competenze e motivazioni dei giovani laureati devono essere trasferite direttamente, attraverso un piano straordinario di assunzioni, nel personale amministrativo degli enti periferici dello Stato e degli enti territoriali.
Un ruolo centrale, secondo voi, deve essere giocato dagli Enti locali. In particolare dai comuni. Ma non sono l’anello debole della catena?
Non più di altre amministrazioni pubbliche. Teniamo presente che i comuni negli ultimi anni hanno subito più di altre amministrazioni pesanti tagli ai trasferimenti. Gli organici si sono ridotti notevolmente di numero e sono invecchiati (anagraficamente, ma ancor di più come capacità di far fronte ai nuovi compiti richiesti dalla rivoluzione digitale). I comuni insieme alle aree metropolitane sono l’istituzione più vicina ai cittadini, quella maggiormente in grado di tarare gli interventi sulle specifiche caratteristiche dei territori.
Avete avuto un riscontro positivo al vostro documento?
Ci sono state molte manifestazioni di interesse, inviti a dibattiti, iniziative di ascolto. Di recente il Ministro per il Sud ha organizzato una giornata di ascolto in cui ha invitato Viesti che ha illustrato i contenuti del nostro documento. Tuttavia, siamo scettici per mestiere, sappiamo che non basta un dibattito o un gesto di interesse per modificare significativamente l’agenda politica del paese. Per questo intendiamo vigilare e rilanciare in tutte le sedi possibili i nostri convincimenti.
Dal sito: