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Brasile. Dal processo a Bolsonaro, nuove speranze per la democrazia

Con la sentenza di condanna emessa il 12 settembre scorso dal Supremo Tribunale Federale nei confronti dell’ex presidente della Repubblica Jair Messias Bolsonaro, si pensava che si sarebbe chiuso uno dei capitoli più odiosi della ancora giovane democrazia Brasiliana. Ma forse era sperare troppo.
Nessuno pensava, in verità, che una condanna a ventisette anni e tre mesi di reclusione, comminata al Presidente della Repubblica che aveva governato fino a tre anni prima, potesse essere considerata un atto di ordinaria amministrazione. Progressisti e conservatori facevano notare, sin dai primi passi del Processo, che il Brasile stava camminando su strade che neppure la democrazia nordamericana di ben più antiche tradizioni era stata capace di intraprendere.
Il parallelo, naturale per una serie di aspetti, nasceva dall’assoluzione che aveva ottenuto Donald Trump per l’invasione del congresso statunitense il 5 gennaio 2021. Assoluzione che gli ha permesso di ripresentarsi alle elezioni e di diventare, per la seconda volta, il Presidente degli Stati Uniti d’America (con tutti i guai conseguenti).
In verità Bolsonaro era andato oltre il suo mentore statunitense. Ben oltre.
Non si era accontentato, nel gennaio del 2023, di ispirare e facilitare la riedizione a Brasilia dell’assalto al Campidoglio ma, insieme al suo gruppo di fidati, militari e civili, aveva ideato uno vero e proprio schema golpista. Con iniziative articolate da attuare prima ed eventualmente dopo la rielezione di Lula, il progetto prevedeva di destabilizzare il Paese con campagne di propaganda, attraverso la rete, e anche con vere e proprie azioni terroristiche da mettere in atto progressivamente, in particolare da parte di militari suoi fedelissimi.
L’obiettivo era quello di non permettere, prima la vittoria e poi l’insediamento di Lula, eletto per la terza volta Presidente nell’ottobre 2022. L’inchiesta accurata e ineccepibile condotta dal Procuratore Generale della Repubblica Paulo Gonet ha messo in evidenza la preparazione di una sorta di guerra civile ibrida: gli obiettivi e i metodi venivano scelti di volta in volta in una progressione che prevedeva perfino il sequestro e l’assassinio del Presidente Lula, del suo Vice Alckmin e del Presidente del Supremo Tribunale Elettorale Alexandre De Moraes. Un percorso nefasto, quasi incredibile, ma confermato da prove documentali rintracciate dalla Polizia Federale, da messaggi registrati nei cellulari degli imputati, da resoconti di riunioni con i capi militari, da testimonianze e confessioni di partecipanti e di pentiti.
L’ipotesi finale era quella di un intervento dei militari, o per iniziativa propria, o perché “chiamati” ad una “azione necessaria” per ristabilire l’ordine pubblico, e soffocare le prevedibili iniziative di protesta e di mobilitazioni popolari antigolpiste.
Il processo che è durato quasi quattro mesi, si è concluso con una sentenza ponderata che ha visto l’accordo di quattro giudici su cinque della sezione giudicante.
Può essere interessante conoscere la motivazione del giudice che ha espresso l’unico voto contrario, Luiz Fuks: secondo l’alto magistrato non c’era colpevolezza perché di fatto il golpe non era stato attuato. Giustamente arguta è stata la risposto di uno degli altri giudici che, nel dibattimento, ha fatto notare che, se il golpe si fosse realmente consumato, loro, Giudici del Supremo Tribunal Federal, non sarebbero lì a compiere il loro dovere. È per questo che la legislazione brasiliana prevede come reato gravissimo il tentativo di colpo di stato, e stabilisce pene durissime.
Durante lo svolgersi del processo, era sceso in campo anche Donald Trump, promettendo dazi più ragionevoli, se il suo amico Bolsonaro fosse stato risparmiato…
Sono bastati pochi giorni, giusto il tempo per digerire una sentenza – che, anche se attesa, ha comunque provocato una certa emozione collettiva – che è entrata in campo la Camera dei Deputati (con maggioranza di destra e destra-centro) approvando due provvedimenti: una legge che avrebbe permesso l’amnistia totale e senza restrizioni per i fatti dell’8 gennaio 2023 (assalto alle sedi dei tre poteri a Brasilia) e un emendamento Costituzionale che avrebbe garantito ai Parlamentari, la completa immunità per crimini di qualsiasi tipo.
Nel giro di una settimana, e prima ancora che questi provvedimenti venissero presi in esame dal Senato, in tutto il Brasile è scoppiata una protesta popolare straordinaria. Centinaia di migliaia di persone, hanno invaso le piazze delle maggiori città, per manifestare il loro netto dissenso. I brasiliani, prima rincuorati dai risultati del processo ai golpisti e poi frustrati dal tentativo di colpo di mano dei parlamentari, questa volta non si sono piegati.
Il Brasile democratico, con i Partiti, le Organizzazioni Sindacali e le tante espressioni della Società Civile, ha manifestato con cortei, feste, show musicali, con molta forza e tanta allegria, la ferma volontà di girare pagina. I due provvedimenti oggetto della protesta, sono stati immediatamente accantonati. E se anche fosse un ravvedimento solo temporaneo, tutti sanno che ora la popolazione è allertata. Brasilia rimane sempre lontana, troppo lontana, ma adesso il Congresso sa che la gente sta vigilando ed è pronta a mobilitarsi di nuovo.

Accompagnando dall’Italia, l’andamento del processo, mi è capitato di rivivere il periodo del governo Bolsonaro che avevo interamente vissuto in Brasile. Oltre alla vocazione golpista, confermata poi chiaramente dal processo, sono riemersi alla mia memoria, pezzi di quotidianità, fatti che all’epoca avevo considerato minori e che però hanno assunto, nel tempo, un peso sempre più significativo.
Allora mi apparivano come dati caratteriali del Capitano Presidente: la banalizzazione del confronto democratico, le battute sprezzanti nei confronti di chi la pensa diversamente, l’incapacità o l’insensibilità di cogliere il vero senso dei problemi, le smargiassate, e il vittimismo, le volgarità, le bravate, il negazionismo, l’indifferenza verso chi soffre davvero, l’uso strumentale delle informazioni e l’attacco continuo alla stampa, il tentativo ripetuto di manomettere le relazioni tra i poteri, in particolare per impedire l’autonoma azione del Giudiziario.
E poi la maniacale soggezione al Trump del primo mandato, l’esaltazione del (falso) amor patrio e l’uso ripetuto di slogan riciclati, come “Dio Patria e Famiglia” o di quelli più “moderni” quali “Il Brasile al di sopra di tutto, Dio al di sopra di tutti”.
Ed è stato quindi impossibile, per me, non fare una comparazione con gli atteggiamenti che spesso assumono esponenti del Governo italiano. Certo, con le dovute differenze, ma quello che emerge è la matrice comune. Credo che sia un connotato che non è possibile trascurare.
E se tutto questo, in Brasile, sembra già appartenere al passato, nel nostro Paese (che adesso bisognerà chiamare Nazione, mi pare) sembra, che si sia ancora immersi in questioni di retroguardia, mentre è ancora nebuloso, indefinito il ruolo che vogliamo giocare in Europa e nel Mondo.
Fortunatamente, all’orizzonte, c’è l’accordo UE/Mercosur. Un’intuizione che ha più di vent’anni, ormai, ma che ora sembra prender vita veramente. Lo vuole la Von Der Leyen e lo vuole Lula. Definitivamente (e grazie anche all’assist di Mr. Trump e ai suoi dazi).
E, proprio in queste settimane, stiamo assistendo ad un ampio movimento per la pace e di Solidarietà per la Palestina. Un movimento intergenerazionale che è nato prepotente e autonomo, sorprendendo partiti e istituzioni e che sta dimostrando, ancora una volta, che la società civile, anche in Italia e in Europa, è sempre viva e fonte di provvidenziali sorprese.

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