Il documento del Consiglio dell’UE che ha sancito l’uscita dell’Italia dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo si sostanzia in una serie di “raccomandazioni” , in definitiva dei consigli per evitare di cadere nuovamente in errore rispetto ai canoni imposti dall’appartenenza all’Unione.[1]
Per noi italiani, il ricordo non troppo remoto corre alla famosa lettera di Rehn e Trichet di due anni fa che sancì la caduta del governo Berlusconi e la nascita del governo Monti.
Tuttavia, in quel caso, non si trattava di raccomandazioni, ma di vere e proprie condizioni vincolanti per evitare il default finanziario, tanto che in quel documento si specificavano addirittura le singole iniziative legislative e di governo che dovevano essere urgentemente adottate. E proprio il rispetto di tale condizioni ha consentito di conseguire il risultato dell’uscita dalla procedura di infrazione che oggi registriamo.
Parallelamente, il Governo Letta ha individuato le iniziative urgenti da adottare subito compatibilmente, beninteso, con le possibilità economiche del momento per cercare di favorire la crescita del nostro sistema economico.
Il problema “metodologico” per evitare di “avvitarsi” nell’aforisma di chi voleva salvare capra e cavoli è quello di trovare le risorse per favorire la crescita da cui dovrebbe derivare il ritorno a un regime virtuoso.
Premesso che non esistono riforme a costo zero, il Sistema italiano, in particolare quello politico, deve anzitutto convincersi che non serve approvare nuove leggi, magari battezzandole come Riforme. E forse di questo si è accorta anche l’UE se ha mutato indirizzo rispetto alla lettera sottoscritta anche dalla BCE, di cui sopra. In materia di lavoro sembra essersene accorta anche la Confindustria che ora si accontenta di manutenzioni fatte “con il cacciavite e non con la scure”.
Per il momento le variazioni normative devono limitarsi a quelle che ostacolano la crescita o che calpestano inutilmente diritti inalienabili di singoli o categorie.
E questo non è poco per il panorama socio politico dell’Italia di oggi esasperatamente caratterizzata dalla lotta fra lobbies gelose dei loro privilegi e di ostacolo al perseguimento del bene comune di cui si parla ormai solo nei convegni.
L’esempio più macroscopico di quanto ora detto è la assurda lotta ingaggiata dal governo Monti (peraltro ispirato dalla Commissione UE) contro l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e della procedura di licenziamento dei lavoratori, passato alla storia come rito Fornero, sulla convinzione che, ridimensionata la portata garantista di quella norma, i finanziamenti sarebbero nuovamente affluiti in Italia.
Il problema è molto più complesso come è dimostrato dal fatto che l’introduzione del cosidetto rito Fornero non solo non ha favorito l’afflusso di capitali stranieri, ma anzi ha ulteriormente aggravato la situazione del contenzioso del lavoro.
Ebbene, proprio la situazione del contenzioso civile in generale è uno dei motivi più evidenti dell’inefficienza dei servizi pubblici in Italia, inefficienza che, questa sì, scoraggia l’imprenditoria a tutti i livelli e l’attività lavorativa e produttiva.
Si può fare qualcosa subito senza attendere i mitici “tempi migliori” ?
Ora sembra che si debba fare, dal momento che una delle raccomandazioni della Commissione riguarda proprio l’Amministrazione pubblica. In particolare si auspica, fra l’altro, di scoraggiare il contenzioso, di abbreviare la durata dei processi civili, di semplificare i procedimenti amministrativi autorizzativi e concessori.
Per perseguire questo obiettivo in tempi ragionevoli e senza costi eccessivi è necessaria una strategia e un metodo diverso da quello finora perseguito.
Anzitutto, si deve individuare a livello governativo chi se ne deve occupare, o meglio quale soggetto (e non soggetti !) se ne debba occupare. Il pericolo è che si debba passare attraverso le Forche Caudine del “concerto” fra diverse Autorità ministeriali.
Poi bisognerebbe esaminare i motivi per cui non si riesce a smaltire il contenzioso, in particolare quello in materia civile che è stato evidenziato dai rapporti ISTAT (vedi l’estratto pubblicato da questa news letter N.97 del 30.10.2012 ).
L’errore metodologico che finora si è commesso è quello di prescindere dal “prodotto”, cercando semplicemente di ridurre la produzione; in altre parole rendendo più difficile per l’utente ottenere il servizio.
E’ stata questa la logica della spending review del governo Monti, quando ha introdotto il “contributo unificato” e cioè una tassa per esercitare il diritto costituzionale di ottenere giustizia, tassa che quindi prescinde dalla fondatezza della domanda.
Ma torniamo alle raccomandazioni del Consiglio UE.
A parte le indicazioni di obiettivi per così dire strategici, c’è un filo rosso sotteso all’intero documento rappresentato da due indicazioni che potremmo dire strumentali e collegate che rappresentano il che fare ora e subito: si tratta dell’”attuazione piena delle riforme strutturali adottate, che non è scontata” (testuale al § 9) mentre “ permangono debolezze considerevoli nell’efficienza della pubblica amministrazione in termini di norme e procedure, qualità della governance e capacità amministrativa, con conseguenti ripercussioni sull’attuazione delle riforme e sul contesto in cui operano le imprese” (§ 10).
E’ un’indicazione metodologica esplicita di mettere mano prioritariamente al funzionamento della Pubblica Amministrazione in termini ampi evitando la scorciatoia (spesso solo mediatica) di nuovi processi riformatori, per lo meno fino a quando non ci si attrezzi per dare concreta attuazione ai processi riformatori.
Ben venga quindi la semplificazione delle procedure, ma, una volta semplificate, debbono poi funzionare. Non sarebbe certo una soluzione quella che si autodefinisce liberista di abolire tutti i procedimenti autorizzatori, salva la possibilità della P.A. di intervenire ex post in sede di controllo.
Ma ben venga soprattutto l’efficientamento dei servizi, questo sì che incide fortemente sui costi di produzione. Altrimenti è inevitabile il ricorso al taglio delle retribuzioni e delle pensioni.
Un modo per procedere ad aumentare l’efficienza dei servizi è, ovviamente, quello di aumentarne la produttività, che si ottiene certo rivedendo le procedure, ma anche modificando il modo di lavorare in modo da ottimizzare l’utilizzo delle strutture e della forza lavoro.
Due esempi al riguardo: le strutture sanitarie e gli uffici giudiziari.
L’attività sanitaria negli ospedali è concentrata nelle ore antimeridiane dal lunedì al venerdi, ma è chiaro che i costi di degenza si ridurrebbero drasticamente ove si lavorasse anche il pomeriggio e il fine settimana.
Lo stesso dicasi per gli Uffici giudiziari e non solo per le Cancellerie, ma anche per il calendario delle udienze dei giudici . A proposito ma perché questi dipendenti statali debbono lavorare a casa ? E’ possibile che non si possa assegnare a ciascuno di loro uno studio presso l’Ufficio giudiziario cui sono assegnati, in modo, fra l’altro, di avere rapporti con gli utenti?
Questioni marginali ? Non credo se è vero che una delle raccomandazioni della UE chiede di “abbreviare la durata dei procedimenti civili e ridurre l’alto livello di contenzioso civile”.
Certo questo significa dover cambiare il modo di lavorare nel settore pubblico, in modo da aumentare in termini temporali l’offerta di servizi e di favorire la mobilità funzionale (non territoriale !) degli addetti, come sarebbe quella dell’utilizzazione, ad esempio, degli infermieri o dei cancellieri nella città di Roma.
E per tornare al problema da cui siamo partiti, un’imprenditore straniero che voglia investire in Italia si preoccuperà di più dell’efficienza degli Uffici comunali o giudiziari o tributari o della procedura di licenziamento con reintegra per le aziende di maggiori dimensioni?
Ed infine, tale metodologia è funzionale al problema dei costi, dal momento che la spending review del Governo Monti è stata deludente.
E’ infatti un contenimento della spesa anche un sistema che la razionalizzi aumentandone la produttività.