Intelligenza e artificialità, matrice e prodotto sono da sempre la storia dell’uomo e non hanno mai avuto bisogno di creare una terza categoria, quella binomiale.
Oggi i robots programmati per rispondere, la clonazione, la riproduzione degli arti … pongono all’uomo problemi etici e comportamentali. Non solo, ma mentre fino ad ora l’artificiale, una volta definito e costruito, non aveva nessuna capacità di contribuire al “divenire” e quindi di partecipare alla storia dell’evoluzione delle conoscenze specifiche e dei prodotti, oggi con le capacità di calcolo dell’informatica, con l’impostazione algoritmica delle conoscenze per raggiungere traguardi derivati e specifici, registriamo autonomie elaborative comunque derivate da capacità di svolgimento fino a ieri impensabili della matrice iniziale.
E’ da qui che viene l’esigenza di creare il nuovo termine binomiale Intelligenza artificiale?
Penso che il binomio diminuisca il valore dei due termini usati se considerati singolarmente. È una battaglia persa? Senz’altro sì, essendo questo binomio diventato un’espressione d’uso, un significante con significati chiaramente confusi data la giovane età delle tecnologie, dei prodotti e degli sviluppi che hanno dato origine a questo termine binomiale.
Ma tant’è. Quando nel primo dopo guerra frequentavo le scuole elementari, la maestra ci dettava il tema che noi scrivevamo con bella grafia in rosso. Nella riga sottostante scrivevamo “svolgimento”. Il compito era svolgere quel tema in modo più o meno ricco e articolato, ma quel tema. L’intelligenza artificiale può andare fuori tema? Se sì, allora il nostro vocabolario si deve ampliare altrimenti, e come fino ad oggi ha dimostrato, dovremmo tenere separati i due termini. Qualsiasi ricchezza dello svolgimento fa rimanere ben ancorati i processi cognitivi e conoscitivi alla matrice nata da un altro ente: l’intelligenza.
Entriamo nel merito del termine binomiale: intelligenza artificiale. Ridotto a unico termine, il binomio esprime una contraddizione ed è come tale che l’ho sempre visto. Proprio perché nulla voglio togliere al valore dell’artificialità, non vedo perché, per darle maggiore dignità, sia necessario farne il parente povero e dipendente dell’intelligenza.
L’espressione intelligenza artificiale è sottrattiva per intelligenza, e ampollosamente squilibrata per artificiale; toglie al termine intelligenza tutti i valori etici-morali, inventivi-elaborativi, i dubbi, le incertezze e le complessità che sono il presupposto per sapere ciò che ancora non si sa e per ricercare ciò che non si conosce.
L’intelligenza senza questi valori non esiste, e l’artificiale non ha questi valori.
La domanda è: perché vogliamo esprimere in un unico termine (anche se binomiale) quella che è sempre stata una relazione virtuosa e fruttuosa, capace di costruire la storia dell’uomo? Perché condurre in un termine unico un binomio in cui la coesistenza è difficile sia per i significati lessicali che per quelli storico-multiculturali?
I due termini hanno dignità come tali, e vivono tranquillamente di vita autonoma nel mondo della cultura, delle scienze e delle arti. Di converso, un unico termine in forma binomiale riduce i due termini che separatamente sono la storia umana del pensiero e delle tecniche.
Propongo 5 frasi di Einstein che esprimono con chiarezza perché considero contraddittorio il termine binomiale:
- Tutti sanno che una cosa è impossibile da realizzare finché non arriva uno sprovveduto che non lo sa e la inventa.
- Non ho particolari talenti, sono solo appassionatamente curioso.
- La mente è come un paracadute, funziona solo se si apre.
- La misura dell’intelligenza è data dalla capacità di cambiare quando necessario.
- La fantasia è più importante del sapere perché il sapere è limitato.
Nel primo termine, intelligenza, risiede la matrice di tutte le culture e le autonomie di cui l’uomo è capace; il secondo, artificiale, appartiene al mondo dei prodotti e dell’applicazione; è l’ampliamento, la riproposizione, la riproduzione, l’evoluzione di un ente nato dall’intelligenza umana; è incapace di produrre “cose e pensieri” fuori dalla matrice numerica o fisica su cui è nato e su cui è stato impostato e programmato.
Senza troppe perifrasi, l’artificiale è un prodotto.
Se il binomio non fosse contraddittorio, dovremmo pensare che l’artificialità prodotta dall’intelligenza ne sarebbe figlia e non applicazione e che, come tale, vive solo grazie alle capacità dell’intelligenza di aver pensato ciò che non c’era, e delle capacità della cultura di aver ricercato ciò che non conosceva. Spesso non si conosce per incapacità di calcolo e di sviluppo del tema, ma la vera essenza del conoscere è conoscere ciò che non si sa, e non solo ciò che non si conosce.
Le conoscenze hanno un grande sistema che le raccoglie, le ordina, le confronta, le sintetizza e le gerarchizza: la sapienza.
Sapienza è un significante generale che si trova articolato nelle molte culture che abbiamo formato ma, nella sua generalità, si riferisce alla gestione individuale e collettiva del sistema di conoscenza, e non alle singole conoscenze.
Noi homines sapientes ci chiamiamo così nella coscienza del valore sistemico della sapienza e non del valore parziale e soggettivo delle conoscenze.
Se il fine è ricercare quello che non si sa, allora cultura e Intelligenza sono i due termini correlabili e per molti (me compreso) inscindibili; l’elaborazione al contrario è una variabile dipendente.
Credo che tutti noi dobbiamo avere amore e rispetto per l’artificialità, sia come prodotto umano sia come valore in sé e ne dobbiamo rispettare le parziali “autonomie” elaborative. Dobbiamo aver coscienza che oggi con le nuove tecnologie abbiamo il grande vantaggio di entrare nell’elaborazione in profondità e con velocità di calcolo e articolazioni finora sconosciute.
Sono l’intelligenza, la cultura e la conoscenza che, potendo usare elaborazioni finora impensabili per complessità e velocità, evolvono sé stesse; sorrette dall’attuale artificiale, esse potranno avere una crescita complessa e raggiungere risultati e nicchie del sapere fino ad ora sconosciute.
Intelligenza, cultura e conoscenza saranno anche capaci di negarsi o reinterpretarsi in un’altramatrice, grazie a una peculiarità, la coscienza critica, di chi detiene la sapienza come organizzazione del sapere e sintesi della cultura e dell’intelligenza.
Ritengo sia importante questo rilievo perché troppo spesso vengono confusi le conoscenze con l’informazione, la sapienza con la conoscenza tecnica, il valore della coscienza critica con i valori relativi delle conoscenze parziali avulse dalla loro verifica sistemica.
Per nostra fortuna ci stiamo muovendo con sempre maggior attenzione culturale e disciplinare verso una visione sistemica del mondo e delle discipline, per l’utilizzazione del metodo olistico di indagine e comprensione. È sempre più dichiarata la soggettività delle scienze così come evolutasi negli ultimi cento anni. È sempre più dichiarato il valore della complessità con i suoi valori relativi, indicatori di azioni culturali, sociali ed economiche.
Sono tanti gli statuti disciplinari che stanno entrando in questa ridefinizione, come tanti sono quelli che entrano in crisi proprio per la consapevolezza che la cultura sistemica è superiore alla cultura delle parti.
La conoscenza sistemica non può fare a meno della conoscenza delle parti, ma è proprio la conoscenza sistemica quella capace di portare le parti a sintesi culturale e sistemica.
Lo strumento per elaborare dati e produrre elaborazioni/attuazioni di conoscenza (artificiale) può correlarsi solo in modo parziale e dipendente con chi costituisce il presupposto (l’intelligenza); certo, può fornire dati e calcoli utili a una migliore e più ampia progettazione, può aiutare sé stesso a disporre di meccanismi migliori e più sofisticati, di funzioni raggiungibili grazie alla sua capacità di calcolo ma, come diceva Bertolt Brecht, non ha il difetto [dell’intelligenza] dell’uomo: pensare.
L’intelligenza senza la morale, il dubbio, la valutazione, l’incertezza e il ‘cogito’ non esiste e non può subire neanche una ‘diminutio’ di tali dimensioni come quella espressa dalla correlazione con lo strumento che ha progettato e attuato.
È nel termine INTELLIGO che troviamo le complessità d’uso: comprendere, pensare, ponderare, meditare, credere, ritenere; e ancora percepire, capire, intendere, stimare e valutare, apprezzare: tutti valori legati a scelte soggettive capaci di produrre culture e diversità.
Detto questo, parliamo del fascino del gioco, del piacere di disporre di una tecnologia che ci permette elaborazioni impensabili, che è talmente sbalorditiva da volerla premiare, sublimandola, con il termine importante di intelligenza. Attenzione però, non passiamo da cogito ergo sum a digito ergo sum.
Da dove nasce la forzatura? Da tante cose e ne cito due:
A. Dal fascino che ogni strumento capace di essere plurimo, multiplo e plurifunzionale esercita. Ci ricordiamo Lucignolo e il Paese dei Balocchi? Quando diamo a un bambino un dispositivo di pochi cm2 pieno di luci, funzioni, ma anche ubbidiente e duttile, lo abbiamo portato nel Paese dei Balocchi. Ci comportiamo come Lucignolo senza Mangiafuoco, anzi con consenso e ammirazione per la sua manualità.
B. Dalla possibilità di poter raggiungere un risultato le cui ‘necessarie elaborazioni’ erano faticose e non raggiungibili con gli strumenti di calcolo pre-informatica.
È sufficiente per la promozione?
C’è un ulteriore errore che commettiamo, la diminutio del valore delle tecnologie. Correlandole a ciò che non sono, facciamo loro un grande torto.
Basta leggere la filosofia del pensiero scientifico (per esempio Ludovico Geymonat) per capire il grande torto che facciamo a una tecnologia quando vogliamo inserirla nelle categorie del Pensiero. Sono due cose diverse, non giudicabili con le categorie del migliore o del peggiore, ma con quella dell’utilità.
Siamo coscienti, consapevoli e difensori del valore delle nuove tecnologie, delle macchine evolute … Già oggi, senza i sistemi di calcolo dell’informatica non saremmo stati in grado di eseguire elaborazioni e raggiungere molti risultati di conoscenza; non saremmo neanche stati capaci di risparmiare tempo e lavoro, traferendo molto lavoro attuativo, compreso quello intellettuale, nelle tecnologie. Questo ci ha permesso, come da sempre ci consente l’uso delle “macchine”, di alleggerire ed elevare il ruolo umano nei cicli lavorativi.