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Caffè, l’economia come impegno civile

Il fatto che a 35 anni dalla sua scomparsa si continui a parlare di Federico Caffè testimonia in maniera evidente la capacità di suggestione che la sua visione dell’economia ha ancora soprattutto presso un pubblico di non addetti ai lavori. Oggi come in passato, ciò che colpisce chi legge i suoi lavori è, oltre alla chiarezza dell’esposizione, la sua lettura dell’economia come disciplina morale. Meno attenzione è stata data invece al modo in cui lo studioso è arrivato a definire questa visione. Un vuoto di analisi che ha finito col lasciare lo spazio all’idea che ci si trovi di fronte ad un economista certamente motivato sul piano dei valori, ad un profondo conoscitore della materia, che ha tuttavia avuto una importanza relativamente marginale sul piano della produzione scientifica e che, in ogni caso, non ha dato alcun contributo significativo al dibattito economico italiano e internazionale.

Due conclusioni largamente discutibili non solo perché il suo impegno etico sociale è il punto di arrivo di un percorso scientifico profondamente radicato nella letteratura economica del suo tempo, ma anche perché Caffè ha arricchito questa stessa letteratura con contributi tanto originali quanto poco compresi. Una difficoltà di comprensione che può essere superata solo collocando la sua opera nel contesto in cui questo studioso si è formato. Un passo che va fatto evidentemente per qualunque economista, ma che spesso ci si dimentica di fare quando una visione dell’economia diventa egemone al punto da apparire l’unica possibile. Un passo indispensabile in particolare per uno studioso come Caffè che si è formato in una stagione del tutto particolare sia della politica che della cultura in generale e, in particolare, di quella economica. Molte tra le sue prese di posizione, che al lettore di oggi possono apparire stravaganti, erano del tutto simili a quelle prese da molti tra gli economisti del suo tempo.

Ciò che ha reso in qualche modo specifica l’esperienza scientifica di Caffè è stato invece la sua profonda conoscenza del dibattito economico che si era sviluppato nel mondo anglosassone negli anni Trenta. Una conoscenza che lo ha messo in condizione di avere una piena comprensione del significato di una stagione in cui l’intera cultura si stava ripensando. Una stagione segnata dal New Deal, cioè da un progetto che era politico e sociale prima di essere scientifico, che si proponeva di superare l’idea di democrazia paternalistica sino ad allora prevalente nel mondo occidentale e di costruire una democrazia che accettava il conflitto tra interessi diversi trasformandolo in partecipazione. Caffè è stato, in altre parole, un testimone attento e coinvolto sul piano dei valori, di un cambiamento profondo della cultura attraverso il quale una intera generazione di studiosi ha lavorato alla definizione di una lettura dell’economia che voleva rendere praticabile un progetto di democrazia partecipata e, nello stesso tempo, lo voleva far diventare uno strumento per una sua legittimazione.

Ma l’esperienza di Caffè è stata profondamente segnata anche dalla sua partecipazione agli anni della resistenza e, più in generale, al clima del dopoguerra in Italia. Anni nei quali ha avuto la possibilità di vivere pienamente il risveglio politico e culturale del nostro paese dopo la caduta del fascismo e, più in particolare, ha potuto rendersi conto di come l’intera avventura scientifica e politica del New Deal poteva costituire un punto di riferimento importante all’interno di un contesto, quello del nostro paese, che, sia pure per un arco di tempo breve, è stato straordinariamente aperto ai cambiamenti.

La stagione che la disciplina ha vissuto negli anni Trenta, in particolare negli USA e in Gran Bretagna, può essere vista come l’effetto combinato di un insieme di spinte che si sono alimentate una con l’altra. La prima, come spesso accade nella riflessione economica, è stata quella che è nata all’interno della politica. Un cambiamento della politica che si è accompagnato ad una radicale trasformazione delle convinzioni di tutta la comunità scientifica sul piano del metodo e che, col tempo, ha in qualche modo costretto gli studiosi di economia a ripensare l’intero impianto teorico che era stato definito nei decenni precedenti. 

Il ruolo centrale della politica nei processi di cambiamento è legato in primo luogo alla dimensione dei problemi con cui la politica stessa si è dovuta misurare in quegli anni. A partire dal 1929, di fronte ad una crisi che aveva assunto dimensioni straordinarie con effetti sociali devastanti, le classi dirigenti hanno dovuto prendere atto dei limiti di una cultura economica che fino ad allora si era presentata come scienza “forte”, spingendola a muoversi in altre direzioni per trovare una soluzione a questi problemi. L’obiettivo che erano in qualche modo costretti a porsi non era solo quello di far ripartire nuovamente lo sviluppo, ma di riuscire a farlo attraverso nuovi equilibri sociali. Attraverso un progetto capace di sfidare sul piano della tutela dei più deboli e su quello dei valori, il mondo del socialismo reale (e quello dei fascismi europei). E’ solo se collochiamo i cambiamenti nella cultura economica in questo contesto che possiamo capire perché l’orizzonte culturale della disciplina è radicalmente cambiato in pochi anni. Perché si è passati da una cultura che legittimava gli equilibri politici e sociali esistenti ad un’altra che li metteva in discussione e che tentava di definire un progetto di democrazia più avanzata, nel senso di maggiormente partecipata. In altre parole, sono state in qualche modo le necessità imposte dalla storia che spiegano ciò che è avvenuto in quegli anni a livello politico prima e culturale poi.

Sul piano della disciplina la discontinuità più evidente con il passato sta nel fatto che le politiche del New Deal hanno trovato il loro retroterra non tanto nella teoria economica quanto nei valori e, in particolare, nei valori costituzionali USA. Un insieme di politiche che nel loro insieme hanno disegnato una proposta di convivenza civile che rifiutava l’idea di un capitalismo incompatibile con la sopravvivenza di una democrazia cercando di mostrare come fosse sempre possibile far dialogare le logiche di una democrazia avanzata con quelle del mercato. Sempre possibile, ma alla condizione fondamentale che le logiche del mercato restassero subalterne rispetto a quelle della democrazia. Un dialogo che, come si può immediatamente comprendere, non poteva non coinvolgere la questione dei valori e quindi degli obiettivi.

Il cambiamento del quadro politico è avvenuto negli stessi anni in cui stava giungendo a maturazione un altro grande cambiamento tutto interno questa volta alla comunità scientifica il cui effetto è stato una nuova e sostanziale delegittimazione della visione economica tradizionale. A partire dai primi due decenni del secolo, infatti, la cultura epistemologica stava ripensandosi, mettendo in discussione il positivismo e, in particolare, il metodo deduttivo a priori di Mill, cioè il metodo intorno al quale era stata costruita l’intera cultura del mercato. Un metodo che si fondava sull’esclusione dei valori dal processo scientifico, su assiomi attraverso i quali si volevano cogliere gli elementi essenziali all’interno della complessità economico sociale, su una logica deduttiva e deterministica. Tre pilastri che risultavano incoerenti con la nuova cultura epistemologica che affrontava in maniera diversa la questione della complessità, che usava logiche probabilistiche e che individuava nei valori le premesse necessarie di ogni processo scientifico. Una conclusione, quest’ultima, che da un lato ridimensionava fortemente l’immagine di “scienza neutrale” che si era data l’economia nei decenni precedenti e, dall’altro, legittimava un approccio, come quello del New Deal, che era fondato anche e in primo luogo sui valori (quelli costituzionali USA).  

Il cambiamento del quadro politico e di quello epistemologico non poteva non incidere sul dibattito interno alla disciplina costringendolo a un profondo ripensamento dell’intera impalcatura della teoria economica. Un ripensamento che ha assunto una sua forma compiuta con Keynes che ha portato all’interno della disciplina gli sviluppi epistemologici anche attraverso la costruzione di una teoria capace di fondarsi su valori (la buona vita nella buona società), di superare la logica deterministica (con il ricorso ad una logica probabilistica) e di dialogare con la complessità in modo diverso da quello di Mill (la teoria macroeconomica). E’ attraverso il pensiero di Keynes che le politiche del New Deal hanno superato la fase strettamente sperimentale e sono state in grado di svilupparsi all’interno di un quadro di riferimento ben definito.

Con Keynes comincia a strutturarsi quello che sarà conosciuto come il riformismo, cioè appunto il tentativo di utilizzare il mercato come uno degli strumenti necessari al pieno raggiungimento di una democrazia avanzata. Nulla a che fare quindi con l’attuale riformismo che va in una direzione esattamente opposta visto che il suo obiettivo è quello della flessibilità, cioè di piegare l’organizzazione sociale all’obiettivo del buon funzionamento del mercato e, di conseguenza, dell’efficienza.

Come si vede, l’idea che l’economia debba essere considerata una scienza morale che va costruita in funzione di valori e del perseguimento di una qualche civiltà possibile, accomunava Caffè ad una larga parte della cultura anglosassone degli anni Trenta. Ma è la partecipazione ai lavori preparatori all’Assemblea Costituente che mette lo studioso abruzzese in condizioni di arricchire queste conoscenze spingendolo ad andare al di là di quel dibattito. E questo perché è un’esperienza che lo mette in condizioni di cogliere il significato profondo di quanto aveva potuto apprendere dalla letteratura economica in un momento fondamentale della vita del nostro paese. All’interno dei lavori preparatori a quell’assemblea, Caffè ha trovato infatti non solo un uditorio attento a quanto aveva da dire, ma anche una capacità di interagire e porre le sue riflessioni all’interno di un punto di vista più ampio.

Ed è da questa interazione che è nato il suo contributo più importante alla riflessione che è legato al modo in cui Caffè ha affrontato la questione della complessità della cultura in un contesto in cui possono coesistere molti percorsi scientifici. Una pluralità di percorsi che è stata l’ovvia conseguenza del fatto che i valori da cui partono gli studiosi e i loro obiettivi possono essere differenti. Una questione della quale il dibattito degli anni Quaranta e Cinquanta era stato solo in parte consapevole, anche come effetto dell’egemonia raggiunta dalla cultura keynesiana, e che in quegli anni era stato affrontato sostanzialmente riproponendo l’atteggiamento non dogmatico tipico di quell’approccio. Una posizione che Caffè ha qualificato e superato attribuendo un valore di carattere generale a quanto l’esperienza alla Costituente gli aveva insegnato. Nella sua lettura, l’esistenza di visioni dell’economia anche sensibilmente diverse non doveva essere vista come un problema quanto piuttosto come un’occasione di confronto che poteva portare a risultati capaci di arricchire ciascun partecipante al confronto stesso.

La conclusione a cui è giunto Caffè è che il percorso scientifico, ma anche quello di formazione di uno studioso di economia, deve articolarsi in due fasi. Nella prima, l’obiettivo deve essere quello di costruire una visione consapevolmente ed esplicitamente di parte, perché fondata su interessi e valori che possono non essere condivisi. Questo significa che non può esistere nessuna cultura economica che può essere definita “tecnica” nel senso di neutrale mentre, al contrario, è possibile costruire una cultura economica che si ponga dal punto di vista degli interessi del lavoro e dei gruppi sociali deboli. La definizione di un punto di vista economico di parte è un obiettivo che va perseguito in maniera intransigente e senza alcuna subalternità rispetto alle altre culture e, in particolare, rispetto a quella dei forti. Ma, nella visione dell’economia di Caffè, la costruzione di una visione “di parte”, non deve essere mai considerata un punto di arrivo. Va visto piuttosto come il primo passo, essenziale ma non conclusivo, per potersi mettere in condizioni di confrontarsi con gli altri interessi, valori e punti di vista. Un confronto che viene visto come lo strumento attraverso il quale si può arrivare a momenti di sintesi più avanzati e si costruisce la cultura della democrazia e dell’impegno civile. L’attenzione di Caffè a tutti gli sviluppi scientifici, il suo eclettismo, può essere compreso fino in fondo solo se lo si colloca all’interno di questo tipo di lettura del ruolo dello studioso di economia.

Un punto di arrivo che rende più comprensibile da un lato perché l’opera di Caffè, la sua visione dell’economia come disciplina dell’impegno civile, mantenga inalterata una forte capacità di suggestione e, dall’altro, perché sia difficile per le nuove generazioni comprenderne fino in fondo il significato, nonostante il fatto che si tratti di una visione profondamente radicata nella tradizione del pensiero economico. Una difficoltà di comprensione che è legata in primo luogo al fatto che il grande dibattito degli anni Trenta è stato completamente dimenticato e non è più frequentato dagli studiosi di economia. Ma è anche conseguenza del fatto che la “civiltà possibile” che sta dietro la visione di Caffè è quella di una democrazia della partecipazione che si nutre di interessi, valori e cultura diverse in continuo confronto tra loro. Un confronto che evita le semplificazioni e non è mai tra posizioni vere o false, giuste o sbagliate; che prevede che esista sempre uno spazio di possibile sovrapposizione tra le posizioni. Uno spazio che oltre ad essere una caratteristica della cultura della complessità, lo è anche della vita democratica. Una idea di democrazia molto lontana da quella attuale che rende evidente il suo essere paternalistica nel momento stesso in cui prevede che esista una sola cultura, da tutti condivisa, considerata neutrale, dalla quale si possono ricavare linee di politica d’intervento demandate ad organismi non politici che, come tali, appaiono incontestabili.

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