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Cambiare alcune regole, se no il gioco diventa … mortale

Scrivo queste righe all’indomani dell’incidente nel quale, il 28 maggio, due lavoratori sono rimasti uccisi sul lavoro in un’azienda che produce farine per mangimi. Sono morti a 50 e 51 anni per una asfissia causata dal getto di gas non aspirato dalla cappa di una vasca contenente scarti di lavorazione animale. Questo incidente porta a 306 morti il malinconico bilancio delle vittime sul lavoro dei primi quattro mesi dell’anno. In media abbiamo perso, in questo periodo, 2 vite e mezza al giorno.

Un numero che ferisce la coscienza del Paese. La tutela della salute dei lavoratori e le norme di sicurezza non possono essere un optional. Non ci si può permettere un abbassamento del livello di guardia, come ci ricordano i dati sulle morti sul lavoro che già a gennaio, febbraio e marzo erano aumentati dell11% rispetto allo stesso periodo di un anno fa. Quelli che stiamo vivendo saranno ricordati come i due anni in cui la pandemia ha fatto più vittime di una guerra, cogliendo il mondo impreparato alla sua violenza e costringendo scienziati e ricercatori a bruciare i tempi nella disperata corsa al vaccino. Ebbene, la strage continua sul lavoro non è solo causata da un nemico nuovo e invisibile quale è stato il Covid 19; è anche conseguenza della inosservanza delle norme di sicurezza.

E, su questa base, è una buona notizia che il Governo, nel nuovo decreto Semplificazioni”, non abbia deregolato il subappalto e non abbia reintrodotto il massimo ribasso, foriero di contratti pirata e dumping salariale. Massimo ribasso che, soprattutto, costringendo a risparmiare ferocemente sui costi – oltre a non garantire la qualità del servizio e il rispetto dei tempi di consegna – forza il risparmio sulle misure di prevenzione e aumenta le occasioni di infortunio.  In sostanza, determina un circuito vizioso di degrado economico e sociale.

Torniamo alla crescita, dopo anni di un trend in calo, di incidenti e morti sul lavoro. Come mai accade? Sbaglia chi pensa che se aumentano i morti sul lavoro vuol dire che ci sono più persone tornate nel ciclo produttivo in seguito a una ripresa delle attività. Questo è vero in parte. La realtà ci racconta altro: ancora una volta ci basiamo su dati scientifici, oggettivi, elaborati dal nostro Centro Studi Lavoro&Welfare (sulla base di statistiche dellInps, dei Ministeri del Lavoro e della Salute). Ebbene, se prendiamo un termometro importante per verificare lo stato di salute della nostra economia, quello è senza dubbio la Cassa Integrazione: a gennaio, febbraio e marzo 2020 lInps autorizzava mediamente 22 milioni di ore di CIG al mese, mentre nel corso del primo trimestre di questanno, mensilmente, ne ha autorizzate mediamente 343 milioni. Quindi, non è vero che ci troviamo di fronte a unimpetuosa ripresa produttiva in questi primi tre mesi del 2021, tale da giustificare un aumento degli incidenti sul lavoro. Sta accadendo qualcosa di diverso. È possibile, ad esempio, che questo aumento sia in parte dovuto al fatto che le statistiche contengano al loro interno anche le morti da Covid, dato che – come previsto nel decreto Cura Italia del 2020 e in una successiva circolare dellInail – la malattia contratta attraverso la pandemia è stata equiparata a infortunio sul lavoro. Un dato confermato dallInail che ha messo bene in evidenza il fatto che un terzo delle morti sul lavoro è riconducibile al Covid contratto durante lo svolgimento delle proprie mansioni professionali. 

Disaggregando i dati si nota che, a seguito di unattività non ancora in piena ripresa, c’è un calo statistico che corrisponde alla diminuzione di più del 30% dei decessi in itinere (cioè di coloro che si spostano da o verso il luogo di lavoro), mentre, per quanto riguarda i decessi sul luogo di lavoro c’è un aumento addirittura del 40%. Questo suggerisce una tendenza alla diminuzione delle tutele e un calo di attenzione per il rispetto delle norme di sicurezza, dal momento che il numero dei decessi sul lavoro è superiore a quelli che possono essere riconducibili al Covid, anche se si tratta di una percentuale minima in più. È un trend che deve metterci in allarme perché siamo ancora in un momento di altissimo ricorso alla Cassa Integrazione e dunque, se dovesse esserci, da maggio, come auspichiamo, una drastica diminuzione del ricorso alle ore di Cig, potremmo trovarci di fronte a un ulteriore aumento del numero dei decessi e di infortuni sul lavoro.

Si deve, perciò, riaccendere lattenzione sulla rigorosa attuazione delle misure di prevenzione e protezione. E, da questo punto di vista, è una buona notizia lannuncio da parte del ministro del Lavoro, Andrea Orlando, del nuovo concorso per aumentare lorganico dellIspettorato del Lavoro di 2.100 nuove unità, seppure da parte sindacale si indichi che queste assunzioni saranno appena sufficienti a pareggiare le uscite previste nei prossimi anni. Ma ogni deciso passo in avanti è sicuramente prezioso.

Ma c’è anche altro da fare. È necessario attuare pienamente il decreto 81/2008, ossia il Testo Unico su salute e sicurezza che ho varato da ministro del Lavoro del secondo Governo Prodi insieme al ministro della Salute Livia Turco. È certo incredibile che, a 13 anni di distanza dalla nascita di quel provvedimento, esso non sia stato ancora pienamente implementato.

Ma ci sono ancora altre soluzioni che possiamo mettere a terra” per incrementare la qualità della prevenzione. Per esempio, dobbiamo affrontare un argomento fondamentale come quello della flessibilità previdenziale. Ritengo, soprattutto in questa fase, che sia molto importante – nel momento in cui, a fine anno, terminerà “Quota 100” – adottare una nuova forma di uscita anticipata in pensione. C’è il rischio, se non si interviene, di ripristinare lo scalone” nato con la Monti-Fornero, vale a dire il ritorno delletà pensionabile dai 62 ai 67 anni. Penso sia molto importante che il Governo vari una riforma pensionistica che introduca, non in modo congiunturale – come nel caso di Quota 100”, che è durata solo per tre anni – bensì in modo strutturale, un criterio di flessibilità.

Un criterio – a parer mio – estremamente moderno. Per farlo, partirei da ciò che esiste: lApe Sociale. Anchessa è congiunturale, perché viene rinnovata di anno in anno. Ed è ora che sia resa strutturale È necessario confermare unarchitettura che prevede unuscita a partire dai 63 anni, con quattro anni di anticipo, avendo un massimo di 36 anni di contributi che sarebbe molto giusto calibrare a seconda delle categorie. Trenta anni, come prevede la legge attuale, per chi è licenziato almeno da tre mesi, sono più che sufficienti. Questa misura dei trentanni dovrebbe essere estesa ai lavoratori delledilizia; perché è inutile fornire loro uno strumento di flessibilità irraggiungibile. Come sappiamo, la discontinuità nei cantieri non consente, purtroppo, a questi lavoratori di arrivare ai trentasei anni di contribuzione. Ciò, nonostante gli edili siano già inseriti giustamente tra coloro che svolgono lavori gravosi. Credo che questa misura anagrafica e contributiva (63 anni di età e 36 di contributi) possa essere estesa allinsieme dei lavoratori. Chi appartiene alle categorie dei lavori gravosi non deve subire penalizzazioni rispetto alla possibilità di andare anticipatamente in pensione. Per chi invece svolge lavori intellettuali o di concetto – che non ricadono nella gravosità – si possono prevedere le stesse condizioni, ma con una penalizzazione massima del 2-3% per ogni anno di anticipo rispetto agli attuali 67 anni di età. Riprendo, in questo senso, il contenuto di una proposta di legge avanzata, nel lontano 2013, dagli onorevoli Gnecchi e Baretta, insieme a me, sullo strumento della flessibilità previdenziale. Aggiungo, che sarebbe molto importante non dimenticare i lavoratori cosiddetti precoci per i quali fissare definitivamente i 41 anni di contributi – sia per le donne che per gli uomini – sufficienti per andare in pensione indipendentemente dalletà anagrafica. Parlo di chi ha cominciato a lavorare a partire dai quindici anni di età.

Ci si può chiedere quale sia il rapporto tra anticipo pensionistico e sicurezza sul lavoro. Abbiamo ormai imparato che laspettativa di vita è differenziata tra mansione e mansione, persona e persona, soprattutto in relazione alla gravosità del lavoro svolto. Possiamo dire, purtroppo, che un lavoratore manuale vive meno di un professore universitario. Ritengo che favorire, senza penalizzazioni, luscita dal lavoro verso la pensione di chi svolge lavori gravosi, usuranti, pericolosi come quello sui ponteggi, di chi rischia la disoccupazione o svolge lavori esposti alla pandemia, significhi connettere il princìpio di previdenza a quello di prevenzione. Si tratta, in definitiva, di utilizzare la previdenza anche come uno strumento di prevenzione.

La pandemia ha avuto un effetto di accelerazione dei processi economici, delloccupazione, della sanità e anche della prevenzione. Come molti ripetono, nulla resterà come prima e, proprio per questo, il futuro che stiamo progettando dovrà avere una impronta fortemente sociale. Altrimenti tutto resterà come prima, comprese le morti sul lavoro.

 

*Presidente di Lavoro &  Welfare, già Ministro del Lavoro

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