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Cambiare la seconda parte, renderla coerente con la prima

Il criterio di fondo con cui valutare la riforma costituzionale e la connessa riforma elettorale dovrebbe essere il seguente: l’attuale Seconda Parte della Costituzione è una risorsa o un ostacolo nel realizzare i Principi fondamentali della Prima Parte?

1. Il criterio e la memoria dell’inizio della transizione
Il criterio di fondo con cui valutare la riforma costituzionale e la connessa riforma elettorale dovrebbe essere per tutti il seguente: l’attuale Seconda Parte della Costituzione, sia come impostata in origine sia dopo le riforme parziali cui è stata soggetta, in particolare quella del Titolo V del 2001, è una risorsa o un ostacolo nel realizzare i Principi fondamentali della Prima Parte a cui siamo giustamente affezionati?

La memoria specifica che ci dovrebbe illuminare è quella degli anni in cui abbiamo affrontato la transizione tra il primo e il secondo sistema dei partiti. Quel criterio aveva infatti condotto le principali associazioni del cattolicesimo democratico, in particolar modo la Fuci e le Acli, in sintonia con ampi settori della sinistra dc e in sinergia con radicali e Pds, a guidare il movimento referendario. Allora noi non solo aderimmo a un movimento che si sviluppò nel Paese dalla primavera del 1990 fino al referendum sul Senato del 1993, superando tradizionali ritrosie di schieramento legate alla rottura coi collateralismi precedenti, ma addirittura lo promuovemmo tra i primi, innescammo le prime scintille Se si vanno a riprendere le carte delle presidenze Bianchi e Passuello non troviamo peraltro solo traccia delle innovazioni portate a termine (il passaggio di sistema elettorale), ma anche di altre sfortunatamente non andate in porto: una riforma costituzionale sul Premierato, per stabilizzare il Governo, in connessione con la riforma elettorale, su cui venne organizzata una raccolta di firme di iniziativa popolare, articolati sulla regolamentazione per legge sulle primarie e su un regionalismo più robusto. 

Al di là delle soluzioni tecniche si tratta esattamente dei temi di oggi, già allora affrontati in chiave organica e sistemica: diritto dei cittadini a decidere sul Governo e sulla scelta dei candidati, nuovo regionalismo cooperativo. La ragione di quell’impegno che spesso non è ricordato (per cui quando ci si riferisce all’impegno dei cattolici democratici si fa riferimento solo alla Costituente, come se un analogo ruolo pionieristico non fosse stato esercitato anche in un altro tornante decisivo) non era di ordine tecnico, per la fissazione di qualcuno, ma civico, etico-culturale: si avvertiva uno scarto tra la Prima Parte e la Seconda, nonché tra Prima parte e derive del sistema dei partiti dovute anche al sistema dei partiti. La Prima Parte prometteva di perseguire finalità forti, ma esse non si conciliavano con istituzioni deboli; prometteva autogoverno ma esso era contraddetto da un improduttivo centralismo; il sistema elettorale selezionava male i candidati col voto di preferenza in enormi circoscrizioni, con costo crescente delle campagne che favoriva lobbismi e correntismi e non lasciava prevedere conseguenze chiare sul Governo, una coerenza tra consenso, potere e responsabilità. 

2. Le premesse di poco precedenti: il Convegno della “Lega Democratica” nel 1979 
A sua volta quella memoria poggiava su un precedente importante, sia pure solo a livello di elaborazione più alta, mentre il movimento referendario fu anche un’esperienza di massa. Nel 1979 nel convegno di Arezzo della Lega Democratica (una realtà fortemente intersecata con le nostre associazioni) su “La Terza fase e le istituzioni”, Pietro Scoppola aveva segnalato e avvisato: “Tutto il meccanismo istituzionale previsto dalla Costituzione appare inceppato. Il Parlamento legifera (poco) e amministra sempre di più; il Governo amministra come può e legifera in luogo del Parlamento quando quest’ultimo non è in grado di raggiungere la mediazione tra gli interessi in campo; la delega legislativa e il decreto legge proliferano non come strumenti di intervento più incisivo, in caso di urgenza, ma come sedi di mediazione più agili; sulla mediazione raggiunta dal Governo in sede di decreto legge il Parlamento torna a mediare in sede di ratifica”, col rischio che proseguendo così “l’ultimo capitolo della prima Repubblica italiana sarebbe già iniziato e sarebbe probabilmente un pezzo avanti nel suo svolgimento”. Nello stesso convegno, conseguentemente, Roberto Ruffilli proponeva: “di riprendere il lavoro lasciato interrotto dalla Costituente per l’individuazione di regole comuni del gioco politico e democratico. 

L’insegnamento di Moro pare essere quello di una specie di ritorno alle origini del sistema politico, un ritorno alla ‘tregua’. Non si tratta di un utopistico ritorno allo spirito della Costituente, quanto un momento di pausa per creare, o ricreare o rafforzare le regole della convivenza civile, ormai difficile”. Non solo però un cambiamento al centro del sistema, ma anche nel rapporto centro-periferia, come delineato dalla relazione di Umberto Pototschnig, secondo il quale anche la seconda legislatura regionale, nonostante i trasferimenti di competenze amministrative sarebbe stata “non particolarmente brillante” a causa della mancanza di “un livello di raccordo” tra tutte le autonomie”. 

3. Costantino Mortati nel 1973: la tematizzazione del rendimento diverso tra Prima e Seconda Parte
Se facciamo un ulteriore salto all’indietro, in questo rapido flash-back di memoria del cattolicesimo democratico, riprendiamo alcune frasi importanti di uno dei più importanti padri della Costituzione, Costantino Mortati, nella nota intervista al periodico “Gli Stati del gennaio 1973: «Un’esatta valutazione della nostra Costituzione esige che si distingua la parte che si potrebbe chiamare sostanziale … dall’altra dedicata all’organizzazione dei poteri … Non mi pare contestabile che essa, nella formulazione dei principi racchiusi nella prima parte, sia riuscita particolarmente felice, tale da porla ad un livello superiore delle altre Costituzioni emanate nello stesso periodo di tempo … (mentre) volgendo lo sguardo ad auspicabili riforme costituzionali … ricordo che alla Costituente io, quale relatore della parte del progetto di Costituzione riguardante il Parlamento, fui tenace sostenitore di un’integrazione della rappresentanza stessa che avrebbe dovuto affermarsi ponendo accanto alla Camera dei deputati un Senato formato su base regionale … Una Camera che fosse rappresentativa dei nuclei regionali offrirebbe il grande vantaggio di fornire quello strumento di coordinamento fra essi e lo Stato che attualmente fa difetto, e che invece si palesa essenzialmente per conciliare le esigenze autonomistiche con quelle unitarie. Non sono da nascondere le difficoltà pratiche offerte da questo tipo di rappresentanza, ma sembra che sia in questa direzione a cui bisogna avvicinarsi per dare una ragion d’essere a una seconda Camera, che non sia, come avviene per l’attuale Senato, un inutile doppione della prima.» 


4. Ritorno al presente: perché il Sì’ è coerente con criterio e memoria 

I riformatori odierni hanno in realtà inteso completare ciò che alla Costituente non si poté pienamente realizzare, agendo quindi, secondo la nota metafora di Bernardo di Chartres, come nani sulle spalle dei giganti. La riforma ha infatti al centro la revisione del bicameralismo paritario che sta all’incrocio tra due esigenze allora frustrate e non risolte né allora né in seguito. 

La prima è la stabilizzazione del tipo di Stato nel senso di un regionalismo forte. La regionalizzazione del Senato è la vera chiave di volta del completamento della riforma del Titolo Quinto. Per quanto infatti si possano cambiare la struttura e la stesura degli elenchi di competenza legislativa un certo grado di sovrapposizione è comunque ineliminabile. La riforma del Titolo Quinto è quindi in ultima analisi assicurata dai rappresentanti dei legislatori regionali in Senato, a cui si affiancano quelli dei sindaci della regione, percepiti come particolarmente vicini ai cittadini. 

La seconda è la stabilizzazione della forma di governo, anche grazie a norme elettorali in grado di legittimare maggioranze certe e relativamente omogenee, non costrette a ricorrere a grandi coalizioni eterogenee, a transfughi o alla stampella emergenziale del Presidente della Repubblica. In questa chiave il cuore del progetto sta quindi anzitutto nella rimozione dell’irrazionalità di due Camere che danno entrambe la fiducia al Governo. 

Ad una lettura positiva delle trasformazioni elettorali e costituzionali in corso dovrebbe condurre anche lo scenario europeo in profonda trasformazione, con le sue opportunità e i suoi pericoli. Esso richiede indubbiamente un salto di qualità, distinguendo meglio l’integrazione politica più forte della zona Euro dalle cooperazioni ulteriori, giacché i principali problemi che ci troviamo ad affrontare non possono essere affrontati in modo efficace rinazionalizzando le politiche. Il fatto che il nostro Paese, proprio in questo contesto europeo, vari nel frattempo riforme ragionevoli (senza seguire chimere di impossibile perfezione assoluta o pretendere la coincidenza con teorie di singoli studiosi o di singoli esponenti politici), che lo possano collocare stabilmente nella “Europa della decisione” cara a Duverger, dovrebbe rappresentare un obiettivo largamente condiviso. 

Decisione che non fa venire meno nessuno dei contrappesi: né l’autonomia della magistratura e quella del Csm (il quorum per i membri laici resta sopra quello della maggioranza di Governo), né quella della Corte (i giudici di estrazione parlamentare saranno eletti 3 dalla Camera e 2 dal Senato con quorum superiori alle maggioranze, che peraltro potrebbero essere diverse), né quella del Capo dello Stato (i cui poteri restano inalterati e il cui quorum di elezione viene anche troppo innalzato), né il contropotere dei referendum (per il quale si apre ad altre forme e in ogni caso per l’abrogativo se le firme sono superiori a 800.000 il quorum scende a un potabile quorum della metà più uno dei votanti alle politiche precedenti). 

Se ci allontaniamo quindi dalla pretesa di perfezione, che non è di questo mondo, e da fantasmi inconsistenti, a queste limitate ma incisive riforme va quindi dato un laico e motivato consenso: come dire di No a un Senato ad ampia maggioranza regionale e a una sola Camera che dà la fiducia al Governo? Questo infatti, al di là dei necessari approfondimenti di dettaglio, che però non ci debbono fuorviare in una deriva tecnicistica, è il cuore del progetto che rispecchia i criteri indicati e che è coerente con la nostra memoria.

 

  Stefano Ceccanti   Costituzionalista, Università la Sapienza di Roma

 

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