Nell’ultimo biennio la «questione criminale» della Capitale è montata alle cronache nazionali e internazionali sotto l’imponente etichetta di Mafia Capitale, che racconta di un fenomeno trasversale alle città e alle sue istituzioni, descritto come quasi sintomatico in un contesto in cui le prassi corruttive nella gestione della spesa pubblica assumono una pervasività apparentemente endemica. Questa attenzione sul caso giudiziario che fa più scalpore, perché riunisce politica, amministrazione e impresa nelle modalità che più s’adattano alle cronache e al gusto «dietrologico» di chi esaspera la criminalità dei «colletti bianchi» come «il male maggiore», ha in parte messo in ombra un altro fenomeno romano: l’acuirsi dello svantaggio sociale e urbano nelle periferie, con il connesso consolidarsi di una multiforme malavita di strada, anagraficamente giovane e giovanissima, attiva nella distribuzione e nel consumo di stupefacenti, utile ad alimentare le maestranze di potenti gruppi di criminalità organizzata.
Proviamo qui a richiamarne alcune dimensioni principali.
Dicevamo, il narcotraffico. È questo il settore che segna la maggiore crescita nei delitti denunciati, ma anche nelle operazioni antidroga: nel 2015 il Lazio è secondo solo alla Lombardia per numero di operazioni antidroga (2.940), in incremento rispetto all’anno precedente (+17,2%), per un totale di 3.764 kg di sostanze sequestrate. Sono in crescita la cocaina (360,5 kg, +13,8%), le droghe sintetiche (1.263 kg, +70,5%) e ancor più l’eroina (124,6 kg, +299%), che segna un preoccupante ritorno (Direzione Centrale per i Servizi Antidroga, Relazione Annuale 2015). Ai traffici si affianca ovviamente una abbondante manovalanza criminale: Roma e il Lazio conservano il primato italiano per numero di arresti per droga nel 2015 (4.095, di cui 1.683 stranieri), aumentato di un quinto su base annua (+20,8%).
Il mercato degli stupefacenti nella Capitale assume una sua connotazione concretamente visibile nella vita urbana. Lo spaccio si concentra nei quartieri che più ereditano gli squilibri socio-spaziali cumulatisi nella storia urbanistica romana: edilizia pubblica e popolare, caseggiati imponenti in cui si addensano profili di svantaggio plurimo, acuitosi con una «tumultuosa espansione demografica, che, fatte le dovute proporzioni, presenta alcune analogie con quanto accaduto nel corso degli anni cinquanta e sessanta» (Casucci e Leon 2014, p. 100).
La popolazione romana aumenta dell’8% nel periodo 2001-2011, corrispondente a quasi 300.000 residenti in più, per il 70% dei quali stranieri (210 mila, tenendo conto dei soli regolari), impiegati anche in forme irregolari o parzialmente sommerse nei settori che segnano maggiore dinamicità: commercio all’ingrosso e al dettaglio (+25.693), trasporto e magazzinaggio (+14.679) e attività dei servizi di alloggio e di ristorazione (+28.155).
I consistenti flussi migratori aggravano gli squilibri socio-spaziali preesistenti configurando addensamenti di diverse forme di deprivazione, talvolta intrise di «contesa etnica». Ne sono testimonianza viva le aggressioni agli ambulanti bengalesi in zona Casilina e Tuscolana, stessa zona in cui nel settembre 2014 avveniva l’omicidio di Muhammad Shahzad Khan, giovane pakistano pestato a morte. Episodi di contesa etnica si verificano recentemente a San Basilio per la gestione degli alloggi popolari, anch’esso campo d’azione delle organizzazioni criminali romane. Nelle periferie si concentra il maggior numero delle occupazioni a scopo abitativo (103 al dicembre 2015) mosse da un contesto di grave fabbisogno, connotato da elevata e pluriennale conflittualità, nonché il proliferare dei centri di accoglienza per rifugiati e dei luoghi informali occupati dai profughi non presi in carico dalle istituzioni. Si pensi all’ex Hotel Africa, a Palazzo Selam, all’ex fabbrica occupata Metropoliz, fino alla vicenda del centro Baobab, sgomberato più volte dalla sede di via Cupa in zona Tiburtina nel novembre 2015, nel giugno e nel settembre 2016, fino all’incendio di inizio gennaio 2017.
Anche le proteste contro questi centri sono frequenti, talvolta spontanee, talvolta fomentate da organizzazioni dell’estrema destra. Il caso più eclatante è l’assalto al centro di accoglienza di Tor Sapienza (novembre 2014) con bombe carta, pietre e fumogeni sostenute da slogan con chiare connotazioni razziste. Le condizioni di vita precarie in queste periferie si acuisce per la distanza dalle reti comunicative e di mobilità metropolitane: l’inadeguatezza dei servizi di mobilità sfibra il «capitale spaziale», ovvero l’opportunità di «gestire la scala», di avere accesso ai servizi di inclusione e di circolare nello spazio urbano.
In questi contesti si registrano le più efficaci forme di presidio criminale degli spazi urbani, specialmente nel mercato della droga. La vendita al dettaglio richiede infatti una precisa delimitazione spaziale e i luoghi più consoni sono proprio i rioni di edilizia decadente, abitati da gruppi sociali deprivati e isolati dal centro. Non a caso nell’area sud-est di Roma, specialmente tra Tor Bella Monaca e San Basilio, la criminalità si atteggia «secondo il modello delle “piazze di spaccio” importato dal territorio campano» (Direzione Nazionale Antimafia 2016, p. 917), con zone controllate da vedette, spaccio parcellizzato e depositi temporanei per gli stupefacenti.
Il noto clan Casamonica sistematizza questo modello organizzativo in diverse periferie a sud e a est di Roma (Anagnina, Cinecittà, Borghesiana, Romanina fino alla stessa Tor Bella Monaca), organizzandosi «con modalità “industriali”» attraverso veri e propri «fortini di spaccio» (Direzione Nazionale Antimafia 2012, p. 719) e specializzandosi anche nel racket sulle case popolari. Condizioni simili si registrano anche a Torre Angela, Torre Maura, Tor Sapienza e Nuova Ostia. Proseguendo dalle aree Sud-Est a ridosso o fuori dal Grande Raccordo Anulare verso il centro, si trovano altre forme di controllo territoriale, non fortificate ma pur sempre presiedute da una regia unica. È il caso di Tor Pignattara, Quarticciolo e Centocelle gestite dal clan camorristico dei Pagnozzi, del Pigneto e di San Lorenzo, dove il controllo delle piazze è nelle mani della criminalità magrebina e «lo spaccio al dettaglio avviene quasi sempre alla luce del sole […]. L’organizzazione è di tipo militare […]. Presidiano gli angoli della piazza e quando le forze dell’ordine si appostano […] si spostano di qualche metro o si muovono per il quartiere» (Carta 2013, pp. 67-8). L’organizzazione del narcotraffico offre ai residenti opportunità di inserimento lavorativo e di welfare parallelo a quello statale, declinato sulla base dei diversi ruoli nella catena commerciale dello spaccio. In un recente reportage si parla di «500 euro al mese se custodisci la roba, “200 a sera” se la spacci, “da 50 a 80” per le vedette. “Alcuni prendono stipendi da mille euro”, rivela un operatore sociale. Per un omicidio ne porti a casa 10 mila» (Chirico 2016). Ovviamente, la presenza di stupefacenti anche a costi «popolari» diffonde a un tempo il consumo di droghe. Come si legge ancora nel suddetto reportage: «Tor Bella Monaca è anche la più grande stanza del buco a cielo aperto. Nella pineta ai piedi di via dell’Archeologia, presidia il territorio il camper della fondazione “Villa Maraini”, che si occupa di riduzione del danno. Racconta un operatore: “Ogni giorno distribuiamo 300 siringhe”. A giovanissimi e adulti, uomini e donne, ricchi e poveri».
Inevitabile situare tale fenomeno nello scenario ricostruito sopra. Qui la regolazione criminale diviene allora componente del tessuto sociale, elemento di opportunità parallela in contesti di esclusione che sfociano, nel tempo, in vera e propria anoressia istituzionale. Ci riferiamo alla esclusione di intere fasce di popolazione giovanile (quasi) mai prese in carico dai servizi di supporto pubblici (Spanò 2001) e, sull’altro fronte, al conseguente atteggiamento di rifiuto e disgusto verso le istituzioni, già riscontrato nel caso romano nell’ambito delle ricerche sulla povertà estrema.
La funzione di regolazione pubblica della vita sociale non solo non è riconoscibile né legittimata, ma persino rigettata. In questi rioni non è raro registrare tumulti ed eclatanti casi di aggressione e ribellione diffusa agli interventi delle forze di polizia. In Viale dell’Archeologia a Tor Bella Monaca, nel luglio 2015 gli abitanti sono scesi in strada per affrontare i poliziotti impegnati nel fermo di due spacciatori, con «sputi, insulti, si è arrivati alle mani e alla fine, nel caos generale, gli spacciatori – protetti dal quartiere – sono riusciti a fuggire mentre quattro agenti aggrediti hanno riportato lesioni e contusioni». Lo stesso accade nella zona del Pigneto (luglio 2015) e a Lunghezza (ottobre 2016).
Deprivazione, criminalità e questione giovanile possono dunque essere declinate anche come gli effetti di progressiva «concentrazione dello svantaggio», derivanti da processi di causazione circolare tra disagio abitativo, deprivazione economica, disoccupazione e spinta alla devianza. Un approccio, mutuato dagli studi classici sulle periferie statunitensi, che è stato utilmente adottato da Enrico Pugliese sul caso italiano, come per Scampia a Napoli.
Occorre rifletterne la replicabilità su Roma, con riferimento agli atavici irrisolti della sua storia urbanistica qui solo accennati, che alimentano vecchi e nuovi ghetti: lo stato di abbandono dell’edilizia residenziale pubblica, in cui s’addensano profili di disagio plurimo e dove proliferano occupazioni, abusivismo e assenza di presidi di polizia, inficia l’edificazione di un tessuto sociale consolidato, cagionando l’isolamento e il cedimento delle istituzioni che regolano la vita sociale.
(*) Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Napoli – Federico II.