Professore, la pandemia mondiale sta mettendo in evidenza un diverso “agire” delle Regioni e soprattutto una notevole difficoltà dello Stato a coordinare gli interventi. E’ una tendenza non solo italiana, ma da noi ora c’é chi parla della necessità di inserire in Costituzione una clausola di supremazia dello Stato sulle Regioni. Che ne pensa?
«L’articolo 117 della Costituzione riserva già allo Stato i compiti in materia di profilassi internazionale. L’articolo 120 della Costituzione consente già al governo di sostituirsi alle Regioni in casi di pericolo grave per l’incolumità. La legge 833 del 1978 già assegna al ministro della salute il compito di intervenire in caso di epidemie. Quel che è successo in Italia è dovuto solo alla scarsa autorevolezza del governo centrale, la cui debolezza – in questa materia e in questo frangente – è pari soltanto a quella dei governi centrali americano e tedesco (che sono però due Paesi federali, non a struttura regionale).
Il virus non ha confini. Come è possibile che di fronte a una situazione d’emergenza come quella che stiamo vivendo lo Stato non abbia assunto un ruolo più forte?
«La spiegazione è duplice. Primo: da un lato, vi sono presidenti di Regioni che fanno la voce grossa perché hanno una investitura presidenzialistica, diretta, popolare. Dall’altro, un governo centrale con una maggioranza precaria e persone con scarsa esperienza (che tuttavia, anche per merito degli eccellenti uomini di scienza che abbiamo, stanno nel complesso tenendo la barra, se si fanno comparazioni con quel che succede nel Regno Unito, negli Stati Uniti, in Brasile). Secondo: i principali protagonisti sono stati i presidenti delle Regioni del Nord, a guida Lega, nei confronti dei quali il governo centrale si è trovato in posizione di minorità, per ragioni che si spiegano con le vicende della politica italiana degli ultimi due anni».
Alcuni Costituzionalisti propongono di ridurre il potere alle Regioni o di dare al governo poteri di intervento effettivi in materia sanitaria compensando questa scelta con l’istituzionalizzazione della Conferenza Stato-Regioni. E’ una buona idea?
«Direi di più. Il servizio sanitario è definito nazionale perché deve avere una organizzazione e un funzionamento uniforme sul territorio. Il diritto alla salute non cambia se si passa dalla Lombardia alla Sicilia. Quindi, finita questa vicenda, bisognerà trasferire il servizio allo Stato, o a una guida centrale assicurata da un organo composito Stato – regioni, ma che parli con una voce sola. E’ questa una proposta da tempo affacciata, che tiene conto anche del fatto che dopo il 1970 alle Regioni sono state assegnate troppe funzioni, che svolgono con notevole affanno».
Ma il regionalismo spinto in una nazione di media grandezza come l’Italia è proprio una buona idea?
«Imposterei la questione in altri termini, come ci aveva insegnato un bravo studioso della Cattolica, il professor Giancarlo Mazzocchi: bisogna stabilire i servizi che hanno quale dimensione ottimale la nazione, e quelli che hanno come dimensione ottimale la Regione. Se ci sono “effetti di traboccamento”, bisogna ridisegnare il perimetro delle competenze. Mi pare naturale, dopo esattamente cinquanta anni di esperienza regionale in Italia, fare un “check up”. Dopo tanti anni, compiti che una volta era bene svolgere in periferia vanno assegnati a organi nazionali, e viceversa.
Un presidente di Regione dura 5 anni, il Presidente del Consiglio – almeno nell’esperienza concreta – no. Non sarà il caso di rafforzare il governo con la sfiducia costruttiva o altri strumenti analoghi?
«Mette il dito sulla piaga che indicavo prima. Certamente non si può più pensare che il vertice dell’esecutivo sia tanto precario. Vi sono molti modi per assicurarne la durata, nell’ambito di un sistema parlamentare, che preserverei, considerati i venti che spirano dall’Ungheria».
*da Il Messaggero, 03/04/2020