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Cdp europee vero motore del piano Juncker

La nostra situazione economica sembra migliorare ma ci vorrà un sovrappiù di impegno e di riforme per superare i danni di sei anni di crisi e per rilanciare gli investimenti. Il piano Juncker (Piano J) può servirci se evitiamo appesantimenti burocratici e valorizziamo il ruolo della Cassa depositi e prestiti (Cdp). Cioè della società privata-pubblica che ha deciso, in accordo con il presidente Renzi e il ministro Padoan, un intervento nel Piano J. 

Cdp e piano Juncker. La Cdp si è impegnata infatti per 8 miliardi come la Kfw tedesca e la CdC francese (e quindi molto di più in proporzione al Pil). Si tratta delle tre principali National Promotional Banks europee che sono uno degli strumenti finanziari più importanti del Piano J assieme alla Bei, alle istituzioni europee e ai capitali privati. In totale si punta a mobilitare, entro il 2017, circa 315 miliardi di investimenti di cui 240 per infrastrutturali e 75 per Pmi.
A questo ruolo ed impegno la Cdp giunge lungo una traiettoria europea, costruita negli ultimi anni, come finanziatore a lungo termine di investimenti non solo per le Pubbliche amministrazioni e le infrastrutture ma anche per le imprese e l’internazionalizzazione italiana. Dopo l’importante riforma del 2003 e con l’ingresso nel capitale delle fondazioni bancarie (per merito di Tremonti e Guzzetti), con la presidenza di Franco Bassanini la Cdp ha molto innovato orientandosi al modello della potente Kfw che è perno di tutte le politiche tedesche di investimenti a lungo termine. Cdp ha anche intrapreso varie iniziative con Kfw e con altre omologhe francesi (CdC), spagnole (Ico) e di altri Paesi sia nel Fondo Marguerite sia nel Long Term Investment Club di cui Bassanini è presidente e di cui fa parte anche la Bei. Si spiega così il perché, nel Piano J, le National Promotional Banks contano molto e perché l’impegno di Cdp è stato molto apprezzato dalla Commissione europea. È anche importante che il ruolo italo-europeo di Cdp sia stato apprezzato dai molti governi italiani succedutisi.

I progetti italiani. Per capire le necessità italiane in relazione al Piano J limitiamoci a tre elementi.
Il primo elemento riguarda l’utilizzo degli 8 miliardi di Cdp che non saranno versati nel Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis), che ha una dotazione di 21 miliardi e che darà la garanzia agli altri investitori di assorbire le prime perdite per raggiungere un moltiplicatore di 15 e quindi generare 315 miliardi di investimenti. Saranno invece usati con i fondi Bei su progetti italiani e su Piattaforme regionali selezionate nel Piano J. Tra l’altro Cdp ha già un accordo-quadro con Bei per i finanziamenti alle Pmi e alle infrastrutture che faciliterà la collaborazione dentro il Piano J.

Il secondo elemento sono gli investimenti necessari all’Italia. Per alcuni,  l’Italia necessita di 340 miliardi di investimenti infrastrutturali sui 7 anni 2013-2020. Per altri, nel 2014 i nostri investimenti fissi lordi totali (al netto di quelli nelle abitazioni) sono di 65 miliardi di euro sotto quelli calcolabili sul trend che parte nel 1970 così incidendo (sempre nel 2014) per il 32% sui 200 miliardi del “gap” di investimenti della Eurozona.
Per altri, ancora l’Italia su 144 Paesi è al 26° posto per la qualità delle infrastrutture, ben lontana da Germania (7°), Francia (8°), Spagna (9°), Regno Unito (10°). Quale che sia la valutazione su queste cifre, a nessuno sfugge che l’Italia ha una carenza di investimenti anche per ammodernare (ambientalmente e non) le sue infrastrutture materiali ed immateriali.

Il terzo elemento sono le proposte italiane per il Piano J (preselezionate da una task force speciale) che arrivano a circa 80 miliardi raggruppate in 6 categorie: ricerca-conoscenza-Pmi, digitale, energia, trasporti, società-scuola, ambiente-risorse. Tra queste, verranno selezionati i progetti con l’intervento dello European Investment Advisory Hub (Eiah previsto dal Piano J) che dovrebbe fornire anche assistenza tecnica per passare dalla generica proposta alle fasi successive (standardizzazione) per attirare capitali privati. Sono fasi in cui l’Italia è carente come dimostrano anche vari casi di (non) utilizzo dei Fondi strutturali europei.

Investimenti in Usa, Ue e Uem. Le necessità di investimento nella Ue e nella Uem non saranno certo soddisfatte dal Piano J. Ricordiamo infatti che negli Usa nel 2009 fu varato un “Recovery act” da circa 850 miliardi di dollari principalmente in infrastrutture materiali e immateriali e in sgravi fiscali. Nel febbraio 2015 è stato annunciato un altro piano di quasi 500 miliardi in opere pubbliche. Al tempestivo Qe gli Usa hanno perciò affiancato massicci investimenti.
Con realismo noi dobbiamo però utilizzare al meglio Piano J. Perché, come ha argomentato molto bene Edoardo Reviglio, si tratta già di una innovazione importante nel contesto istituzionale della Ue che punta così ad un “mercato unico” per il finanziamento delle infrastrutture e delle Pmi.

Il successo si misurerà nella capacità di attirare liquidità in strumenti finanziari non speculativi e di lungo periodo con sottostanti di economia reale. Questo dipenderà anche dall’attuazione del principio di “addizionalità” grazie al quale progetti, che non sarebbero stati finanziati (a condizioni di mercato e della Bei), grazie alle garanzie del Piano J concesse con rigorosi criteri competitivi e di prezzo, ora lo potranno essere. Andranno poi superate le complessità burocratiche nei meccanismi e nei processi di delega del Piano J, sia a livello Ue che italiano. Anche in questo le National Promotional Banks (tra cui Cdp) e la Bei potrebbero fare molto.

(*) Docente ed economista. Su concessione dell’Autore. Già pubblicato su Il Sole 24 Ore del 1 aprile 2015 

 

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