In tema di lavoro e produttività riproporre, da parte del Presidente di Confindustria, le vetuste gabbie salariali, concordate nel 1945 tra le organizzazioni sindacali e datoriali in un Paese devastato dalla seconda guerra mondiale, è avere una visione industriale del Paese e della società a dir poco novecentesca, indefinibile, sicuramente fuori dal tempo presente.
Oltretutto le gabbie salariali, abolite definitivamente nel 1972, dividevano il Paese in zone con riferimento al costo della vita e non della produttività come oggi propone Confindustria. Inoltre, sostenere che al Sud le imprese sono meno produttive è un’affermazione (leghista) stonata e che accusa lo stesso mondo delle imprese da lui rappresentato, che negli anni hanno investito nel Mezzogiorno.
Quindi l’idea confindustriale ha questo filo continuo: investo al Sud perché ho sgravi e incentivi ovvero assistenzialismo aziendale da parte dello Stato, e siccome però ho poca produttività pago di meno il lavoratore. Quale logica del futuro vi è dietro questo schema? Forse è la stessa logica per cui dopo tanto sbracciarsi sulla necessità di non rinnovare il blocco dei licenziamenti perché impedirebbe alle aziende di essere competitive, appena il Governo si è fatto carico interamente del costo della cassa integrazione Covid, Confindustria si è zittita e va bene così. Allora anche qui prevale la logica assistenziale e protezionista dei nostri imprenditori e non quella di essere competitivi nel mercato.
A parte che le imprese hanno trovato il modo di aggirare il blocco dei licenziamenti (e l’ultima vicenda di Pininfarina Engineering è maestra) ma non dovrebbero nemmeno dimenticare che attraverso accordi sindacali con le organizzazioni sindacali è possibile concordare uscite volontarie e incentivate di lavoratori, cioè licenziare ma concordandolo. Se Confindustria avesse il coraggio di ribaltare il paradigma rivolgendo lo sguardo al futuro post pandemico come prevedono gli stanziamenti Ue con la Next Generation dovrebbe fare una grande apertura al tavolo sociale chiedendo il mantenimento del blocco dei licenziamenti come base per costruire un’intesa sociale con tutte le forze sociali, coordinata dal Governo, per la ripresa del Paese. Confindustria otterrebbe una forza contrattuale tale da chiedere uno scambio sindacale fortissimo su produttività e salari… ma non voglio dare troppi suggerimenti.
Invece si rimane sul tradizionale delle relazioni sindacali, anzi si invoca un Patto per l’Italia che ricorda una pagina vecchia, di inizio secolo. Mi corre un brivido sulla schiena perché di Patto per l’Italia se ne è già siglato uno nel 2002 con il Governo di centrodestra con l’intento di arginare la sua azione di cancellare dell’art.18. La Cgil non lo firmò perché con la destra non si fanno accordi, dissero, anche quando servono a difendere i lavoratori. Cofferati portò i famosi “milioni” di lavoratori in piazza. Quasi vent’anni dopo, come in un romanzo di Dumas, Landini strizza l’occhio a Confindustria perché è diventato consapevole che da soli non si va da nessuna parte, con buona pace di Cofferati, della sua stessa Cgil e quei tanti lavoratori che allora scesero in piazza. Solo l’anno prima, 2001, Sabatini, segretario generale Fiom, sposava il “finalmente soli” in seguito alla rottura con Fim e Uilm sul contratto nazionale. Ma tant’è, siamo alle battaglie di retroguardia e assistenziali con idee vecchie e consunte. D’altra parte, in questi giorni sindacalisti grillo-fiommini invocano l’intervento regionale come la panacea per rilanciare le aziende in crisi.
Questa unione d’intenti grillo-fiommini con l’assessore al lavoro della Regione Piemonte, di Fratelli d’Italia, che mesi fa proponeva la stessa cosa, dà il senso di come proposte improponibili, demagogiche ma che stuzzicano il populismo portando i lavoratori verso opinioni di destra, come la storia insegna e i grillo-fiommini dovrebbero ormai avere capito, non servono a nulla, tantomeno ai lavoratori e al lavoro.
Confindustria abbia il coraggio, tenendo la testa alta verso la linea dell’orizzonte e non guardandosi la punta delle scarpe, di sostenere il blocco dei licenziamenti accompagnato da un percorso di rinnovamento delle politiche attive, con i fondi Sure e Next Generation, che accompagnino, con accodi sindacali, il passaggio diretto da un’azienda all’altra: un fac-simile del “Contratto di distacco”. Ciò comporta da parte delle imprese di farsi carico della ricollocazione del lavoratore in esubero in un’altra azienda, cioè quel lavoratore non perde il posto finché non trova l’altro. Creare una banca dati unica delle aziende sulle competenze e professionalità dei lavoratori. Esistono già, sul territorio, piccoli gruppi di amici-imprenditori che si trovano periodicamente e si scambiano informazioni, sostegno reciproco e eventuali professionalità.
La ripresa del Paese passa attraverso la tenuta sociale presupposto del rilancio dell’economia industriale e commerciale, non passa attraverso il licenziare per poi riassumere quando sarà possibile, così il nostro Paese crollerà, crolleranno i consumi, aumenterà il risparmio (per paura e se possibile) delle famiglie e degli investitori.
Usciamo dalla crisi Covid con idee coraggiose e innovative e in questo caso allora sì che Confindustria potrà chiedere al sindacato altrettanto coraggio in scelte difficili perché quando c’è la crisi il problema numero uno è difendere il lavoro, ovvero il tessuto sociale, prima del salario; perché senza lavoro non c’è salario e non viceversa.