A distanza di un mese dall’elezione di papa Leone è in atto quel che Ricoeur definirebbe un «conflitto delle interpretazioni». C’è chi si attacca alla mozzetta rossa e acclama il ritorno della Tradizione, e chi si attacca alle scarpe nere e parla di un Francesco II. Meno interessanti e congrue le voci, soprattutto ecclesiastiche, che parlano di una rinnovata «unità» della Chiesa, che esse però hanno sempre inteso come «uniformità» rispetto alla libertà di coscienza e di espressione intesa banalmente come «confusione».
Ma che cosa abbiamo capito di papa Leone sulla base di quel che lui ha realmente detto? C’è una parola che resta impressa nel rileggere i suoi primi discorsi: apertura. Prevost parla della «sfida dell’apertura» nell’annuncio del Vangelo, intesa come postura essenziale di una Chiesa che sceglie di «sapere costruire i ponti, sapere ascoltare per non giudicare, non chiudere le porte, pensando che noi abbiamo tutta la verità e nessun altro può dirci niente». Lo ha detto con chiarezza proprio quando si è insediato sulla sua Cathedra romana. Una direzione che raccoglie l’eredità di Francesco, e che rilancia l’annuncio del Vangelo, con voce del tutto propria.
Nel solco del Concilio Vaticano II – al quale Leone XIV ha ribadito la sua piena adesione – e sulle tracce dell’Evangelii gaudium di Bergoglio, Prevost mostra un volto ecclesiale che non fa dell’identità uno scudo contro il cambiamento, ma «una bussola valida per tutti» per orientarsi nel mondo. Un mondo che, come ha ricordato, è attraversato da una «policrisi», in cui convergono guerre, disuguaglianze, crisi ambientali, emergenze migratorie, innovazioni tecnologiche disorientanti. Un tempo difficile, che chiede alla Chiesa di sapersi mettere in ascolto, di discernere, di stare «accanto».
La telefonata di Putin – alla quale Leone ha risposto con il ringraziamento al patriarca russo, la valorizzazione del lavoro del cardinale Zuppi, e la chiara richiesta del dialogo e di un segno di pace – si riconnette alla paziente tessitura dei rapporti operata da Francesco sin dal suo incontro con l’ambasciatore russo e i contatti col patriarcato, e in particolare con il metropolita Anthony, capo del Dipartimento per le relazioni ecclesiastiche esterne di Kirill.
Uno dei suoi passaggi più forti, e forse anche più spiazzanti riguarda il rapporto con la verità. Leone XIV è stato netto parlando della Dottrina sociale della Chiesa: «Non vuole alzare la bandiera del possesso della verità, né in merito all’analisi dei problemi, né nella loro risoluzione. In tali questioni è più importante saper avvicinarsi, che dare una risposta affrettata sul perché una cosa è successa o su come superarla. L’obiettivo è imparare ad affrontare i problemi, che sono sempre diversi, perché ogni generazione è nuova, con nuove sfide, nuovi sogni, nuove domande». Non si tratta di relativismo, ovviamente, ma di un atteggiamento umile e maturo.
La verità cristiana, per Leone XIV, non ha nulla a che vedere con l’«indottrinamento» che «è immorale, impedisce il giudizio critico, attenta alla sacra libertà della propria coscienza – anche se erronea – e si chiude a nuove riflessioni perché rifiuta il movimento, il cambiamento o l’evoluzione delle idee di fronte a nuovi problemi». Queste parole leonine fanno riconoscere la direzione del passo felpato e deciso del suo pontificato.
Francesco ha combattuto l’introversione ecclesiale, e Leone – citandolo – lo ha ribadito: «La Chiesa è costitutivamente estroversa», e «l’autoreferenzialità spegne il fuoco dello spirito missionario». Anzi, con una espressione davvero fulminante, Prevost ha aggiunto: «Il popolo di Dio è più numeroso di quello che vediamo. Non definiamone i confini». È un messaggio potente, anche per chi si sente ai margini o fuori da un’appartenenza religiosa. Leone XIV sembra dire: la Chiesa non è fatta dai «nostri piccoli gruppi, che si sentono superiori al mondo», ma è una realtà in cammino, che non perde tempo a stabilire recinti e trincee.
Fin dalla sua elezione, Leone XIV ha sottolineato che sente essere suo compito «custodire il ricco patrimonio della fede cristiana e, al contempo, gettare lo sguardo lontano, per andare incontro alle domande, alle inquietudini e alle sfide di oggi». È un equilibrio sottile tra custodia e slancio. Qui – e non nei bilanciamenti tra abbigliamenti rossi e neri, tra fasce e mozzette – che è da cercare l’armonia interiore al pontificato della quale Prevost è alla ricerca in un presente che cambia in fretta. «Ogni generazione è nuova», e se i problemi cambiano, anche le risposte devono evolvere. Per questo serve una Chiesa capace di «giudizio prudenziale», cioè concreto, contestuale. Si delinea una Chiesa che non ha l’ansia di definire tutte le questioni, ma che preferisce accompagnare le domande piuttosto che spegnerle.
Colpisce, nei primi discorsi di Leone XIV, pure la sua insistenza su una fede concreta. «Essere di Dio – ha detto – ci lega alla terra: non a un mondo ideale, ma a quello reale»: non c’è nulla di evanescente nella sua visione: è una fede incarnata, che si esprime nella prossimità, nella cura, nell’impegno. Una fede che si misura non nelle formule, ma nelle relazioni. Ai sacerdoti, ha ricordato durante un’ordinazione: «Sono persone in carne e ossa quelle che il Padre mette sul vostro cammino. A loro consacrate voi stessi, senza separarvene, senza isolarvi». È un invito a evitare ogni forma di clericalismo. Leone non nasconde le ferite della Chiesa, e vede quelle di questo nostro mondo: «Insieme ricostruiremo la credibilità di una Chiesa ferita, inviata a un’umanità ferita, dentro una creazione ferita». È un’immagine potente, che unisce la consapevolezza del limite alla speranza di un cammino possibile. In un’udienza generale Prevost ha parlato di una Chiesa «samaritana», capace di chinarsi sulle ferite dell’umanità. Bergoglio usava l’espressione della Chiesa «ospedale da campo» capace di curare. «Se vuoi aiutare qualcuno non puoi pensare di tenerti a distanza, ti devi coinvolgere, sporcare, forse contaminare», ha detto Prevost. E la possibilità aperta, senza paura, al rischio di una «contaminazione» è decisamente interessante.
«Estroversa» è pure l’aggettivo che ha scelto per definire la Chiesa. In un’epoca di polarizzazioni, di ritorni identitari e di chiusure difensive, questa parola suona come un manifesto. È un invito a non aver paura, a uscire, a rischiare, a mettersi in gioco. Perché, come Leone XIV ha ricordato, «la gioia di Dio» – Evangelii gaudium – «realmente cambia la storia e ci avvicina gli uni agli altri».
Il ritratto di Leone XIV è appena abbozzato: prenderà forma nelle sue scelte, col passare del tempo, col suo discernimento, assimilando la sua accettazione del ministero petrino. Tuttavia, è chiaro che non si è presentato alla Chiesa e al mondo come un «condottiero solitario», ma piuttosto incarnando la figura di una Chiesa che vuole essere «fermento per un mondo riconciliato».
*da La Repubblica, 05/06/2025
**Teologo gesuita, Sotto Segretario del Dicastero per la cultura e l’educazione