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Ci siamo persi la classe dirigente

Ora che si sono attenuate, o spente, le polemiche sul ruolo delle grandi società di consulenza nella redazione della parte italiana dell’European Recovery plan, si può e si deve tornare con calma sui problemi, seri e irrisolti, che stanno sotto tali polemiche. E lo si deve fare sperabilmente fuori dalle miserie circolate in merito: le denunce indignate dei possibili gravi conflitti d’interesse e le maldestre risposte sul superamento o meno della dovuta soglia contrattuale (quando tutti conoscono le collaborazioni, talvolta milionarie, fra poteri pubblici e grandi società di servizi professionali).

L’argomento non può scadere in polemiche di parte , anzi merita un approccio che tenga conto del delicatissimo rapporto che si crea fra la dimensione tecnica e la dimensione politica in ogni testo di programmazione di lungo termine, che per necessità ha bisogno di due diverse competenze: da un lato, il padroneggiamento culturale dei fenomeni e dei processi economici che si vogliono risolvere nel presente e guidare nel futuro; dall’altro lato, la capacità di incardinare tale cultura socio-economica in una dinamica squisitamente politica, attenta cioè al consenso collettivo e agli strumenti amministrativi disponibili.

Se queste due facce non si combinano – e addirittura talvolta si delegittimano – allora scattano le accuse reciproche, quando molti tecnici considerano  “palle al piede” le mediazioni politiche e amministrative e tanti politico – burocrati considerano fuori dal mondo tecnici pur universalmente stimati in un inutile contrasto fra migliori e peggiori (o presunti tali) che alimenta solo il qualunquismo.

Non è stato sempre così. Anzi, ricordando le nostre vicende passate, si può prendere atto che per decenni tutta l’azione di governo vedeva unite in alcune strutture di vertice, spesso in poche persone, la capacità di esercitare insieme la dimensione tecnica e la dimensione politica delle varie misure da mettere in campo. Sappiamo tutti quale peso abbia avuto Nitti sulla politica economica dell’ 800 (con la pratica generale dell’economia mista), prima e dopo la sua esperienza di premier; ma ancora di più conosciamo il ruolo fondante avuto da Beneduce durante il fascismo sull’assetto bancario e finanziario del Paese; sappiamo tutti quanto peso hanno avuto gli eredi di Beneduce (Saraceno , Giordani , Menichella, Mattioli, ecc.) nell’impegnativo rilancio post-bellico (l’Erp , o Enterprise resource planning, di allora) , con lo sviluppo delle partecipazioni statali e la creazione della Cassa per il Mezzogiorno; e ricordiamo tutti che i primi tentativi di pianificazione degli anni 50-60 (Piano Vanoni, Rapporto Saraceno, Piano Giolitti, Rapporto Ruffolo, ecc. ) sono stati figli di quella cultura tecnico-politica via via accumulata . Una cultura che trovava casa e sviluppo in alcuni grandi uffici studi, vere e proprie “cantere” del lavoro tecnico-politico del pianificare, come I’ufficio studi dell’lri ( con Saraceno che guidava Marsan, Giovannetti, Grassini, Livi, ecc.), I’ufficio studi dell’Eni (con Ruffolo che coordinava Sylos Labini, Fua, Pirani, Carabba ecc .) I’ufficio studi della Banca d’ ltalia sotto Menichella e Baffi (con Fazio, Savona, Ciocca, Barattieri, ecc.) Nonché quell’atipico ufficio studi che fu la Svimez (con Molinari , Sebregondi, Napoleoni, Annesi, Novacco, Graziosi, Baratta, ecc .)

Tutti coloro, quorum ego, che hanno lavorato in quelle diverse “cantere” sanno di aver svolto un lavoro squisitamente tecnico-politico (da centauro, è stato detto), dove il rispetto per l’autonomia e il primato della politica non era inferiore al rispetto per la propria professionalità.

Certo, alcuni dei più “centauri” fra noi (penso ad Amato, ad Andreatta e a Prodi) fecero scelte personali di diretta responsability politica; ma anche loro si sono sempre sentiti mediatori fra tecnica e politica, non puri sacerdoti della loro alta professionalità, sempre lontani da quella declamata incompatibilità fra tecnici e politici che avremmo visto in funzione negli anni successivi.

Qualcuno si sorprenderà dei tanti nomi elencati, ma è una cosa voluta perché ogni testo, specie programmatico, deve avere il nome e il cognome di chi scrivendolo ci mette la faccia. E si capisce quanto ci si ritrovi spiazzati oggi rispetto all’assoluto anonimato che regge ogni documento di improbabile pianificazione.

Passi per i piani industriali delle aziende, dove l’obiettivo è molto specifico e verificabile con gli esiti del mercato: ma l’anonimato non è accettabile per i piani di sviluppo complessivo del sistema. 

Qui si conoscono testi preparatori intermedi  (se non di sintesi) di fatto scritti “al ciclostile”, partendo da bozze preparate da singole amministrazioni, che fanno poi la ronda fra uffici centrale periferici ( con qualche sosta nelle società di consulenza); senza però nessuna firma di una persona o di un gruppo che certifichino la garanzia della necessaria osmosi fra cultura alta e umile esercizio di scrittura (ricordo che Claudio Napoleoni faceva spesso colazione con Mattioli e Sraffa ma poi nel pomeriggio scriveva capitoli del Rapporto Saraceno).

Nel panorama attuale, i programmi li scrivono quindi gli amministrativi, senza l’aiuto delle ‘’cantere’’ e spesso senza neppure una complessa linea politica da seguire. I grandi uffici studi di una volta non esistono più. Giulio Sapelli ha citato, con un voluto tono di disprezzo , un grande imprenditore che negli anni 2000 ha deciso di chiudere I’ufficio studi e la scuola di management sentenziando che ‘’mi costano troppo, preferisco fare un contratto con un’azienda di consulenza’’. E’ la stessa decisione silenziosamente presa dallo Stato: quei pochi uffici studi o centri di ricerca esistenti sono stati chiusi (addirittura – e lo ricordo con nostalgia – I’Istituto di studi sulla congiuntura di Miconi e Cipolletta) ed e arrivata l’onda del ricorso alle società di consulenza volutamente e istituzionalmente anonime (non si capisce mai chi vi sia dietro ogni documento). Sono potenti organizzativamente e finanziariamente; hanno un consolidato metodo di lavoro; possono mettere a disposizione folli plotoni di giovani ben preparati; gestiscono pertinenti prodotti di medio livello; ma di fatto non ci mettono la faccia e fanno circolare testi non imputabili a nessuno, quindi silenziosamente irresponsabili. In fondo, fanno un servizio, anche di livello, ma non hanno – anzi, non vogliono avere – una propria cultura, una propria intenzionalità, una propria idea della realtà e delle modality di governarla.

Se ripercorriamo il percorso dell’attuale nostro Erp , troviamo l’effetto della debolezza del lavoro di mediazione tecnico-politica che invece aveva sostenuto I’Erp degli anni 50; e paradossalmente avvertiamo un’assoluta assenza della politica . Sulla urgenza di consegnare presto a Bruxelles il nostro Piano, singoli dipartimenti dei ministeri sono stati impegnati a scrivere un’ipotesi di intervento. L’insieme di quelle ipotesi, senza alcuna sintesi intermedia, è stata trasferita a Palazzo Chigi; da qui il voluminoso incartamento, magari tramite una società a partecipazione statale e finito sui tavoli delle società di consulenza; e queste hanno rimesso in bella quel che avevano ricevuto, dopo di che il tutto è stato restituito ai primi estensori del testo, affinchè scrivano un programma più stringato e operativo. Un andare e venire probabilmente con poco valore aggiunto, nella speranza che alla fine della ronda ci siano al vertice teste pensanti capaci di fare una sintesi di alto potere contrattuale presso I’ Unione europea. ll che però non copre il vuoto del tessuto intermedio di elaborazione che sta sotto il via vai dei documenti di lavoro, né il vuoto di adeguate formule di attuazione e rendicontazione degli interventi.

La riflessione che precede potrà apparire a molti un getto di autobiografica nostalgia per un mondo ormai scomparso e di cui pochi sono i sopravvissuti. Ma lo si prenda anche come uno stimolo a rivedere una situazione chiaramente di inerzia culturale , oltre che di povertà programmatica. E quindi, in positivo, come un invito a reagire.

La prima strada da seguire per una non rinviabile reazione è quella di rinsanguare il dibattito politico sul significato profondo dell’attuale Piano di Recovery.

Non è un puro rinvio di sigle ricordare che l’attuale Erp ha la stessa sigla di quell’ Erp che fra il 45 e il 55 andò sotto tanti nomi, tanti padri (il punto IV di Truman , il Piano Marshall, la Banca Mondiale del presidente Edge) e rappresentò una pietra angolare della nostra ricostruzione post-bellica , ma anche una esplicita pietra di scandalo politico. Tutti i leader politici di allora (De Gasperi, Nenni, Togliatti, per primi) si sentirono impegnati a capire, decifrare, accettare o negare quello che c’era dietro quel programma di aiuti; e anche i politici

di caratura tecnica si gettarono nella mischa, da Rodolfo Morandi e Ugo La Malfa ad Amendola, fino a molto settoriali Vanoni e Antonio Segni. Tutti impegnati ad avviare ogni momento della pianificazione economica del dopoguerra. Erano evidenti le linee di contrasto politico di allora (la scelta occidentale, la scelta neocapitalistica, la scelta di un pesante intervento dello Stato, la liberalizzazione degli scambi commerciali, ecc.), ma il dibattito sull’ Erp di allora fu accompagnato da un forte calore politico.

Non c’è chi non veda l’abissale differenza con la situazione attuale. Sull’ Erp di oggi ci si dilunga su mirabolanti obiettivi innovativi (la digitalizzazione e la transizione ecologica)  o ci si perde su questioni di bottega (quanti soldi sui singoli settori e come spenderli) ma nei verbali parlamentari e nei quotidiani non c’è una sola riga in cui si possa registrare un dibattito sulla dimensione politica egli obiettivi del piano . Sull’argomento è caduto un governo e ne è nato un altro, ma nell’assoluto silenzio della classe politica e dell’opinione qualificata. Per cui i documenti di pianificazione in corso d’opera rischiano di contenere elenchi di improbabili progetti di innovazione o banali agglomerati di intenzioni e di proposte, scritti da dirigenti ministeriali e da società di consulenza, in una dinamica di rimpallo e di eco destinata, a ogni passaggio, alla inevitabile perdita di vigore.

Serve allora un dibattito squisitamente politico. Non si può evitarlo perchè comunque entro aprile dobbiamo presentare a Bruxelles almeno una bozza di piano. Per l’Europa, I’ attuale ERP è una sfida complessa (di competizione verso Est e verso Ovest, di rafforzamento strutturale interno, di eccellenza dei propri campioni imprenditoriali , di traino dei Paesi più fragili ) ed è necessario che I’Italia non arrivi a Bruxelles senza aver svolto un dibattito interno su tali sfide comuni, sul modo in cui le interpretiamo nel trattare il nostro sviluppo.

Arrivare a Bruxelles con la semplice idea di indire bandi per presentare centinaia di progetti, senza una sintesi politico-programmatica, potrebbe portare al pericolo di marginalizzione di chi andrà a contrattare la nostra parte dell’ Erp.

Ma si può svolgere il necessario dibattito politico senza un adeguato supporto tecnico? Negli anni tra il 45 e il 60, leader politici poterono contare su una ricca elaborazione culturale : con vicinanze addirittura personali, con collegamenti stretti con le varie strutture collaterali tecnico-politiche; con I’ utilizzo degli uffici studi e delle “cantere” sopra citate;  con la presenza socio-politica dei vertici delle partecipazioni statali e della Cassa per il Mezzogiorno .

Quei fili di raccordo fra la dimensione politica e la dimensione tecnica non ci sono più ed è improbabile che siano ricostruibili oggi, in una cultura collettiva diventata più povera. Ma qualcosa bisognerà pur tentare, magari sfruttando il vincolo europeo secondo cui non si finanziano interventi se non legati a riforme strutturali significative. E la riforma strutturale più significativa può e deve essere fatta nel governo della cosa pubblica: riguarda gli assetti tecnico-politici di vertice. Una riforma che si focalizzi sul rafforzamento dei soggetti primi del dibattito politico: specialmente dei partiti, che dovrebbero ritornare a essere soggetti di cultura politica e tecnica (con i loro centri di ricerca, con le loro riviste, con le antenne di collaborazioni esterne, ecc.) e specialmente dei luoghi di governo (gabinetti ministeriali e commissioni parlamentari) , che dovrebbero poter contare su nuclei di persone ad alta qualificazione tecnico-politica. Nel rapporto a due fra dimensione tecnica e dimensione politica resta decisivo il ruolo dei dirigenti apicali delle diverse amministrazioni, cui si dovrebbero poter garantire occasioni collegiali di informazione e formazione di stampo manageriale, con un’adeguata conoscenza e con un adeguato padroneggiamento dei processi reali del sistema economico e sociale, in vista di un forte lavoro di raccordo fra volontà politica, intenzioni programmatiche e gestione della macchina pubblica.  Si comprende facilmente che un impegno di questo tipo non è di facile attuazione: non esiste più quel contesto culturale e politico degli anni 50 che spingeva tutti a discutere e mediare. Converrà non indulgere al passato “prendere le armi ” nella più difficile situazione attuale, rimettendo lentamente a posto i fondamentali del rapporto fra dimensione tecnica e dimensione politica.

 

*da Corriere della sera Economia 26/04/2021

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