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Cifre preoccupanti. Una scuola specchio di questioni irrisolte

In venti anni, si sono iscritti alla scuola quasi un milione di ragazzi e ragazze in meno. A settembre dello scorso anno, il dimagrimento è stato di 134.000 circa. Per l’anno scolastico prossimo ci potrebbero essere 5.667 cattedre di troppo. E le previsioni sono che il trend in discesa continui sempre di più. Lo dice il Ministero dell’istruzione e del Merito, come pomposamente lo ha denominato il Ministro Valditara.

La denatalità picchia duro sulla demografia nazionale. E poco conta che sia un mal comune con la maggior parte dei Paesi europei, anche se peggio di noi stanno soltanto Portogallo e Spagna. Soltanto 4 Paesi registrano un aumento delle nascite: Irlanda, Francia, Regno Unito e Svezia. Gli altri 23 tutti con il segno negativo. Aggrava la situazione il fatto che si è passati dal fare soltanto un figlio – per cui non può più essere esercitata l’esperienza della fraternità in famiglia e diventati adulti si estingue la figura dello zio o della zia – a non farne proprio. Infatti, dal 2008 ad oggi i primogeniti sono diminuiti del 34,4%, i secondogeniti del 36,3% e i successivi del 26,5%.

A fronte di questo scenario pauperistico, le belle parole si sprecano, ma passano come acqua fresca sulle coppie più o meno giovani che in questi ultimi trent’anni, non hanno smesso di far calare con regolarità l’indice di natalità. E’ un errore incolpare i protagonisti e in più sarebbe predica inutile. Questa discesa ha camminato di pari passo con un andazzo politico distonico, parlando bene (raramente) e razzolando male (frequentemente). Una strategia per l’inversione della tendenza, non è stata mai impostata correttamente e decisamente. Ci sono stati provvedimenti anche significativi (aumento dei congedi parentali, più asili nido, ecc.) ma senza una correlazione con altri interventi, pur individuati anche se non risolutivi, spesso ridotti a pura testimonianza per carenza di strutture e di finanziamenti adeguati.

Eppure le conseguenze sono prevedibili. Innanzitutto, sul futuro del sistema produttivo italiano. Un Paese che invecchia sempre più rapidamente, non è attrattivo per gli investimenti. E’ ormai un dato acclarato da molte indagini. Gli investitori si rivolgono a Paesi che danno più garanzie di potenzialità di lavoratori giovani. Lo abbiamo sperimentato in questi due anni di buona congiuntura. L’occupazione stabile è cresciuta soprattutto nelle fasce d’età più anziane, sia per mancanza di professionalità formate dal sistema scolastico e universitario corrispondenti alle esigenze delle produzioni in corso, sia per assenza di disponibilità di giovani da assumere, comunque. In tempi in cui c’è una forte innovazione di prodotti e di tecnologie si rischia di rimanere fuori mercato.

In secondo luogo, sulle prospettive di sostenibilità del welfare. Chi ha più bisogno di sanità funzionante, di assistenza decente, di vivibilità delle città sono le fasce più vecchie della popolazione. Ma se si restringe l’area dei finanziatori dell’intervento pubblico, per contrazione dei contribuenti tradizionali (il welfare è sostenuto dai redditi da lavoro e dai pensionati, oltre che dal debito pubblico), è evidente che lo Stato sociale può diventare un ricordo del passato. Già ora la situazione è pesante, con preoccupanti scivolate verso un ridimensionamento del concetto di universalità nella sua fruizione. Più difficile sarà in futuro cercare di dare un nuovo equilibrio al welfare, se non si interviene ora per allora, con grande consapevolezza.

Le soluzioni sono terribilmente difficili. Ma la politica dei rinvii è il peggior modo per rassicurare. Innanzitutto, c’è un problema di reddito delle famiglie, adeguato agli stili di vita mediamente affermati. Non si può pensare che si facciano figli per cadere in una situazione di povertà. Il sistema fiscale italiano non si attiene a questa banale osservazione e gli assegni familiari sono troppo miseri per essere compensativi delle spese di una famiglia che si collochi nella media europea. A fianco ad una revisione dei sostegni fiscali, anche la contrattazione nazionale e quella aziendale potrebbero mettere più attenzione al fenomeno della denatalità. Ricordo che uno dei motivi del successo di Blair alle sue prime elezioni inglesi fu la proposta di contribuire con una somma da parte dello Stato pari a quella accantonata dalle famiglie per gli studi dei figli. Nella contrattazione del welfare aziendale potrebbe entrare un concetto di questo genere, come potrebbe essere rilanciato il “sabbatico” come possibilità di avere lunghi periodi di assenza dal lavoro, remunerati.

C’è inoltre, un problema di servizi offerti alle famiglie. Non ripeto la solita litania degli interventi pubblici per alleviare il peso della gestione familiare. Sono tutti stranoti e sarebbero tutti necessari. Ma risulterebbero più facilitati e moltiplicati se si facesse perno anche sul volontariato degli anziani. Ci sono ormai molte esperienze collaudate nel territorio, finalizzate a dare una mano nella collaborazione con le famiglie, che potrebbero essere portate a sistema e diffuse, oltre che sostenute con poche ma ben utilizzate risorse pubbliche. Una maggior cooperazione privato-pubblica potrebbe rappresentare un incentivo a guardare al futuro con maggiore serenità da parte delle giovani coppie.

Però, nel breve periodo soltanto l’immigrazione può consentirci di colmare i vuoti generazionali e affrontare con minore affanno le questioni prima accennate. Se ne facciano una ragione i cantori dei respingimenti. Ne abbiamo bisogno, se vogliamo tenere il passo con i tempi. Non è solo colpa loro se creano disordine, se squilibrano quartieri e costumi. Siamo noi che non organizziamo l’accoglienza e l’inserimento come esigenza strutturale nelle nostre comunità. Si può chiedere di adeguarsi di più e meglio alle nostre abitudini e comportamenti se li mettiamo in condizioni di poterlo fare. Conoscere le nostre regole di vita e la nostra lingua è pretesa sacrosanta ma dobbiamo organizzarla con razionalità. Si sprecano miliardi per deportare piccoli gruppi di migranti in Albania e si tagliano i finanziamenti per l’insegnamento dell’italiano. Si riempiono le carceri di disperati, ma non si fa niente per eliminare il lavoro nero e sottopagato di questi poveracci. Tutte le ricerche dicono la stessa cosa: sono necessari per creare ricchezza. Prendiamone atto e mettiamo in campo un sistema più ordinato e programmato di arrivi.

Infine, cerchiamo di salvare la scuola. Non solo dagli abbandoni, dalla dispersione scolastica ma dal rischio di non essere più in buona salute in fatto di educazione. Commentando in una bella intervista su la Lettura del 23 marzo scorso il suo libro “Conoscenza o barbarie, Storia e futuro dell’educazione, ed. Fazi” conclude: “siamo ad un bivio. Dovremmo triplicare gli investimenti e insistere con l’idea delle quote per riservare posti nelle migliori scuole ad allievi che arrivano dalle periferie. La riproduzione sociale è uno scandalo: in Francia il figlio di uno studente di una università d’élite ha 80 volte più probabilità di frequentare la stessa università di élite rispetto ad un altro. Siamo ancora in tempo per salvarci….la particolarità della partita è che siamo nell’intervallo dopo il primo tempo, stiamo perdendo 3 a 0 e l’avversario siamo noi stessi”. Però non possiamo fare come l’Italia contro la Germania, che rimonta ma non vince.   

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