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Cipolletta: Più Stato in azienda? Necessità ma comanda il mercato*

«Un sostegno temporaneo, con ingresso in minoranza nel capitale, può aiutare le imprese che si sono indebitate per la pandemia e patrimonializzare»,

Il nuovo presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, sin dalle prime uscite ha messo in guardia le imprese dallo statalismo e dal rischio di vivere nell’ economia del Debito. Da economista e presidente di Assonime, Innocenzo Cipolletta, condivide questa posizione? 

«Quando si verificano crisi come questa è inevitabile il ritorno dello Stato. Nel 2008 negli Stati Uniti la mano pubblica è entrata nelle industrie dell’ auto che rischiavano di chiudere e qualcosa del genere è avvenuto poi un po’ in tutto il mondo con le banche bisognose di salvataggio. Il rischio è che queste operazioni si rivelino a termine e finalizzate solo a rimediare ai guasti dell’ emergenza. È sensato quindi che Confindustria si preoccupi, perché gran parte delle imprese italiane dipenderanno giocoforza dai finanziamenti statali e dovranno accettare quantomeno dei vincoli alla loro azione, come possono essere il blocco dei licenziamenti e dei dividendi. Ma è un rischio da correre per superare la crisi». 

Una drastica discontinuità. Obbliga le imprese a riformulare modus operandi e obiettivi di medio periodo. 

«È così e da uomo di mercato dico che non credo si possa tornare indietro, verso una sorta di liberismo generalizzato. L’approccio alla globalizzazione, che pure ci ha garantito grossi vantaggi nella crescita del Pil mondiale, è destinato a cambiare. L’ interruzione forzosa delle filiere globali è il segnale che bisognerà cambiare direzione e non solo in chiave operativa. La novità è anche in termini di filosofia della competitività: abbiamo pensato per anni che per raggiungere l’efficienza fosse necessario abbassare i costi di produzione e la via che ci è parsa più facile è stata ridurre tasse e prestazioni sociali. Tagliare la spesa, per dirla in breve» 

Tutti i Paesi hanno seguito questa strada? 

«Tutti, più o meno, è stato un mantra generale. Tagliando la spesa abbiamo depresso la domanda interna e compresso servizi necessari come la sanità. Il sistema di mercato a cui abbiamo sottoposto la sanità non considerava  l’eventualità di un’ emergenza, quindi la necessità di avere strutture ridondanti nei momenti normali. Certe spese non sono sprechi, ma investimenti che serviranno a combattere le emergenze. Se investissimo nei treni con lo stesso principio applicato alla sanità, non dovremmo prevedere corse tra le 10 e le 17». 

Ma in Italia la spesa pubblica ha continuato la corsa. L’ austerità è rimasta in garage, per economisti come Veronica De Romanis. 

«In Italia non è calata la spesa a causa del servizio al debito e del pagamento delle pensioni, ma si è tagliato altrove. Ad esempio, si è ridotto drasticamente il numero dei dipendenti pubblici, a cominciare dalla sanità. È chiaro che dalla crisi pandemica usciremo modificando questi orientamenti e ci troveremo a fare i conti con un ritorno dello Stato. Una battaglia liberale sarà far sì che questa scelta non gonfi le vele dei sovranisti di destra e che la sinistra statalista non usi il nuovo orientamento per azzerare la funzione del mercato. 

A parte tentare di neutralizzare le posizioni estreme, cosa devono fare i liberali per qualificare un nuovo patto pubblico-privato? 

«Migliorare la qualità dell’ azione dello Stato. D’ altro canto quando Bruxelles rilegittima gli aiuti di Stato ed elimina i vincoli della finanza pubblica, è tutta l’ Europa comunitaria che è costretta a riflettere, non solo la Confindustria italiana. L’ importante è non spaventarsi, ma migliorare la qualità dei servizi collettivi, difendere gli spazi del mercato e dell’ iniziativa privata. 

Lo storico Giuseppe Berta sull’ Economia ha obiettato che lo Stato italiano non ha competenze né uomini per affrontare le sfide di oggi. 

«Rispondo con una battuta: meno male, perché se lo Stato oltre all’ effetto-pendolo per la pandemia avesse anche le competenze interne rischieremmo sì il socialismo reale! Infatti sento da molte parti crescere il desiderio d’ impostare una nuova politica industriale e di italianità. Penso all’ estensione del golden power o agli avvisi del Copasir sul rischio che gli stranieri comprino le nostre banche e le società di gestione del risparmio». 

Insisto: da dove passa allora un rapporto virtuoso tra iniziativa privata e mano pubblica nelle condizioni date? 

«Passa dallo Stato. In questo caso le competenze ci sono e abbiamo anche modelli stranieri facili da ricopiare. Penso anche a un sostegno temporaneo alla ricapitalizzazione delle imprese, con un ingresso in minoranza nel capitale delle aziende che si sono dovute indebitare a causa della pandemia e che hanno bisogno di es patrimonializzate. Tutto ciò deve avvenire senza entrare nella gestione e dando garanzie di trasparenza. Lo dico perché lo Stato non ha la visione di business degli imprenditori, come al contrario questi ultimi sanno poco della macchina legislativa e amministrativa e devono star lontani dalla politica. Sono entità e culture separate e parallele». La nuova consigliera del premier Conte, l’ economista Mar Mazzucato, sostiene lo Stato imprenditore. Un termine che lei considererà un ossimoro, penso. «Lo Stato non ha l’ intelligenza di scegliere i settori nei quali investire. Può fare altro, può orientare le scelte delle imprese spostando la domanda in alcune direzioni. Se decido che gli italiani devono sottoporsi a un check up ogni anno, è evidente che vado nella direzione di favorire la nascita di laboratori ben attrezzati e funzionali. In questo modo lo Stato influenza e fa crescere il mercato». Sempre sull’ Economia il banchiere Marco Mazzucchelli ha proposto la creazione di un fondo sovrano italiano, per favorire la nascita di soggetti industriali leader nei settori più promettenti. Che ne pensa? «Non credo esista un fondo sovrano che operi così. Spesso noi sospettiamo che un fondo arabo si muova per conquistare Occidente o che un fondo cinese voglia rubare know how, ma la verità è che si muovono anche loro solo per fare profitti. Un fondo sovrano che facesse politica industriale perderebbe soldi nel breve perché dovrebbe scontare il fallimento di questo o quel progetto. L’ Iri era un fondo sovrano durante la Ricostruzione, ma con la prima crisi del petrolio finì per assorbire le perdite di tutte le sue imprese e scrisse la sua fine». In questo mare della discontinuità cambierà anche il ruolo di Cassa Depositi e Prestiti? «Non credo. La Cdp è partecipata dalle fondazioni, ha uno statuto vincolante e pertanto si muove nella frontiera tra pubblico e privato. È utile per un intervento dello Stato in alcune imprese, ma con un’ ottica di rendimento. Non può vestire i panni del capitalista paziente oltre una certa misura. È un buono strumento ma deve per prima cosa produrre un rendimento agli azionisti. Come Assonime invece abbiamo proposto la creazione di un fondo dello Stato che entri nelle imprese in minoranza sostituendo debito con equity. Deve durare 5-6 anni e può uscire quando l’ impresa ha recuperato capacità operativa e slancio. Così libera spazi agli investimenti. Fra poco ci sarà un’ ondata di automazione, le imprese devono essere pronte a investire nella trasformazione digitale, chi si attarda è perduto. Più Stato vuol dire più influenza pubblica su Eni, Enel e Leonardo? « La loro filosofia è quella di spa quotate, la loro governance deve continuare come è adesso e lo Stato azionista deve rispettare le regole di mercato. Non le vincolerei a obiettivi pubblici contrasto o solo difformi dalle loro esigenze di business».

 

*da Corriere della sera, 04/05/2020

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