Quasi tutti i Governi anche in Europa stanno facendo marcia indietro rivendendo o ritardando le azioni di contrasto al cambiamento climatico, alcuni invocando la necessità di un approccio pragmatico, altri negando la relazione tra azione dell’uomo e suo impatto sul pianeta seguendo Trump nella negazione del problema.
Continuano però ad uscire dati che certificano l’accelerazione delle problematiche legate all’aumento delle temperature soprattutto per l’Italia. Recentissima la pubblicazione dell’“L’indice del clima 2025″, l’annuale classifica dei capoluoghi italiani con il miglior clima elaborata dal Sole 24 che rileva come dal 2010 le temperature siano già salite 2,4 gradi nelle città del Nord Italia e gli eventi estremi sono molto aumentati.
Praticamente in contemporanea viene la conferma dal rapporto MED 2050, lanciato nel 2019 con il supporto dell’Onu su richiesta dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, per identificare i rischi per l’area e fornire le conoscenze per gestire la transizione. Esso ha mostrato la nostra fragilità, il Mediterraneo è il mare più inquinato ed è dopo l’Artico la regione del mondo che si sta scaldando più velocemente.
La situazione è aggravata dal fatto che nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo si concentra il 60% della popolazione povera d’acqua. Nell’elaborare scenari al 2050 il rapporto Med 2050 ha sviluppato diverse ipotesi e motivi di crisi in prospettiva, selezionando tra le molte alternative sei traiettorie. Le prime tre, che potremmo definire non cooperative, attraverso rinvii in nome del pragmatismo porterebbero al declino dell’area nel suo complesso, alimentato dal ripiegamento di ciascun paese sui supposti interessi nazionali. Inevitabilmente crescerebbe la probabilità di conflitti tra paesi sempre più poveri di ecosistemi e risorse naturali.
Rinviare ed annacquare gli obiettivi a medio termine non è però quello che la maggioranza delle persone vuole. L’89% della popolazione mondiale chiede politiche per il clima (in Italia il 92%), anche se non tutti sarebbero disposti a pagare per le politiche necessarie. Un’indagine condotta da “Nature Climate Change” ha domandato se gli intervistati sarebbero disposti a contribuire ai costi delle politiche con l’1% del proprio reddito: il 68,5% (in Italia quasi il 65%) degli intervistati ha risposto di sì.
La stessa indagine peraltro ha fatto emergere anche la sistematica sottovalutazione della volontà di agire dei cittadini, con uno scarto di 25 punti tra le dichiarazioni fatte e quello che ciascun intervistato ritiene che farebbero gli altri. La sottovalutazione nasce forse dal fatto che i Governi e gli esperti interessati a mantenere lo status quo tendono a tenere conto più dei cosiddetti costi e rischi della transizione nel breve che dei costi del non fare e dei benefici nel più lungo termine.
Ne è un esempio l’attribuzione frettolosa di certa stampa alle rinnovabili della responsabilità del blackout in Spagna, trascurando che il problema sta nella adeguatezza e gestione della rete, nonostante l’evento (raro) abbia avuto dei precedenti noti in sistemi dove non c’erano ancora le rinnovabili non programmabili. Pensando di essere in minoranza, non emerge la disponibilità delle popolazioni a cooperare per mitigare l’impatto del cambiamento climatico. Forse è necessario alzare la voce per farsi sentire!
*da InPiù 06/05/2025