Il Governo, come nessun altro prima d’ora, ha reso surreale la discussione che precede la formazione di quella che un tempo veniva chiamata legge finanziaria ed ora legge di stabilità. Si è discusso di misure lanciate come slogan; si fanno intravvedere scenari da Paese del bengodi, ma sempre nelle nebbie della polemica con i Governi precedenti; si affascinano quote notevoli di popolazione con proclami che probabilmente ne accontenteranno soltanto una fettina. Per questo, anche dopo la presentazione del Documento programmatico di Bilancio inviato a Bruxelles, è meglio sospendere ogni giudizio definitivo a quando la legge di stabilità approderà in Parlamento e da questo approvata. Infatti, gli stessi ministri si stanno sbracciando nel dire che nel corso della discussione alle Camere potrebbe cambiare.
Non vale, invece, sospendere una riflessione su due elementi qualitativi e preponderanti della impostazione della politica economica del Governo, dando per scontato che prioritario è sanare il conflitto con l’Europa sul rispetto delle regole, sia pure attenuate dalle deroghe e dai compromessi che sempre ci sono stati in questi anni. Un conflitto che ovviamente non è unicamente interno alla compatibilità di misure per l’Italia rispetto a quelle di altri Paesi dell’Unione, ma si allarga alla visione del futuro dell’aggregazione europea e conseguentemente dell’euro. Se l’esasperazione continuerà, ogni previsione – anche la più catastrofica – ha cittadinanza.
Ma, pur facendoci guidare dall’ottimismo, appare clamoroso che il “cambiamento” che dovrebbe distinguere questo Esecutivo dai precedenti, è infarcito di passato. Sarà che l’auto proclamazione “cambista” non fosse così chiara nelle piattaforme elettorali; sarà che nel “contratto” legastellato non si andasse oltre i titoli, è sempre più evidente che man mano si delineava la volontà del governo, questa acquistava sempre più i connotati di un “si stava meglio, quando si stava peggio”. Il “nuovo” è stato trovato scartabellando in soffitta su molte questioni.
Spicca su tutti la riscoperta dello Stato imprenditore. Come si risolvono i problemi del dissesto delle infrastrutture, a partire dal ponte Morandi? Ci pensa lo Stato, altro che bando europeo e che vinca il migliore. Come si esce dall’emergenza Alitalia? Mettendo in campo il MEF e le Ferrovie dello Stato, la cui competenza in fatto di trasporto aereo è nota. Come si fa crescere l’occupazione? Con una riunione di poche ore a Palazzo Chigi di tutte le aziende a partecipazione pubblica, che ovviamente, non hanno avuto difficoltà a dichiarare che faranno gli investimenti che hanno già previsto da tempo e che, se passerà il pensionamento a quota 100, certamente assumeranno (ma nessuno si è impegnato ad assumere 1 in più dei pensionandi).
Grande rilancio dell’impegno diretto dello Stato in economia, dunque. Ma non credo che gli economisti che più lo auspicano, come Mariana Mazzuccato, Joseph Stiglitz o Emanuele Felice, si sentano interpretati da una linea di questo genere. Salvataggi aziendali, risanamenti d’emergenza, proseguimento di servizi e produzioni già programmati non fanno una politica industriale 4.0, né una novità di “cambiamento”. Ogni confronto con l’IRI o l’ENI – i due emblemi della esperienza dello Stato imprenditore italiano – è fuori luogo. L’IRI del dopoguerra fu, innanzitutto, la testa pensante della industrializzazione di un’Italia ancora rurale, mezzo distrutta dai combattimenti, povera e poco acculturata. L’ENI fu il cuneo vincente posto tra un Paese
che si stava avviando verso il benessere e il dominio delle famose “ 7 sorelle” in campo energetico. Lo Stato entrava alla grande in territorio industriale e produttivo, per far nascere imprese nuove, in settori strategici, con una visione internazionale di cooperazione.
Non c’è traccia di tutto ciò nell’impostazione del Governo legastellato. Anzi, pare (e sottolineo pare, perché le idee son molto mobili) che verrà smantellata la normativa per Industria 4.0, si pnsa di far passare come intervento strutturale un condono a tutto campo, la flat tax riguarderà unicamente le partite IVA, si ritornerà alla CIGS e alla mobilità in deroga. Cioè ad un armamentario ripescato dal passato o limitato alla ricerca di consenso spicciolo. Di progetti, risorse e tempi di realizzazione proiettati nel futuro pare che non se ne senta l’esigenza. Anche sulle questioni ambientali, pare che l’attenzione si stia riposando e per un momento lungo. Lo Stato imprenditore torna di moda, ma per fare…. vintage.
L’altro aspetto che qualifica gli intendimenti del Governo in carica è la ferma volontà di potenziare il welfare in chiave assistenziale. E fin qui, nulla questio. La povertà interessa quasi 6 milioni di persone e metterle in condizioni non di uscire da quell’inferno in cui sono precipitate – come roboantemente è stato sostenuto da membri di spicco del Governo – ma più realisticamente di non lasciarli nella loro solitudine e irrilevanza, è un’encomiabile opzione. Il Reddito di Inclusione (Rei), introdotto dal Governo Gentiloni, si muove in questo senso e non vi è chi non chieda la sua continuazione, semmai allargando la platea dei beneficiari.
Il punto in discussione è che si vuole finanziare il reddito di cittadinanza (assorbirà o no il Rei?) facendo debito. Non è la stessa cosa, se il debito serve per gli investimenti. Questi formano ricchezza. L’assistenza, al meglio, fa crescere i consumi (parte dei quali riguardano prodotti provenienti dall’estero). Ma i keynesiani delle università di tutto il mondo spiegano (a quelli che le frequentano) che la redistribuzione della ricchezza passa per il lavoro. Ricordate il paradosso di Keynes? Meglio far aprire e chiudere buche nei campi e sui monti che lasciare le persone sussidiate e senza far niente. Se si vuole redistribuire, bisogna far allargare la torta oppure togliere una fetta a chi ne ha più di una. Se questo “chi” dal Governo viene individuato non tra chi grandi ricchezze ma è un compratore nostrano o straniero di debito italiano, questo vuole essere remunerato in rapporto alla fiducia che ha nei confronti dello Stato italiano. E’ da supporre che ne avrebbe molta e non preoccupata se l’indebitamento fosse per investimenti, ne ha molto meno e in modo allarmante se il suo prestito finisce in consumi. Tra Maynard Keynes e Paolo Cirino Pomicino (padre riconosciuto della corsa del debito italiano iniziato negli anni 80/90 del secolo scorso), questo Governo pende più dalla parte del secondo, con tutte le conseguenze del caso.
Queste due impostazioni sanno di “deja vu”, ma riproporle ora impressiona lo stesso. Mi auguro di essere smentito dalla lettura della legge di stabilità che sarà varata dal Governo e poi deliberata dal Parlamento. Meglio aver interpretato male sia le opinioni e le parole spese che essere confermato dai fatti. Di certo, l’Italia che già non sta al passo degli altri Paesi europei quanto a crescita – sia del PIL che del BES – sta attraversando un sentiero strettissimo. Qualsiasi Governo dovrebbe puntare al meglio e al possibile, non al desiderabile se le condizioni di salute del Paese che rappresenta sono precarie. Detto in altri termini, per farsi venire idee nuove, meglio non frequentare troppo le soffitte.