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Come riformare le regole europee

Le regole fiscali europee vigenti prima dell’esplosione del Covid erano state pensate nella temperie culturale degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, quando si dava poco credito all’efficacia della politica fiscale sul livello dell’attività economica e dell’occupazione, e si riteneva che a tutto potesse provvedere la politica monetaria. Da tempo sappiamo che così non è. La politica fiscale, soprattutto quando i tassi di interesse sono vicini allo zero (se non sotto) e l’economia è depressa, diviene strumento necessario e molto potente per innescare la ripresa e renderla stabile e sostenibile nel tempo. 

Le vigenti (ancorché sospese) regole fiscali europee, – nonostante le varie riforme del primo decennio del nuovo secolo e ancora del 2011-12 – guardavano solo a un tipo di esternalità: quella dovuta all’eccesso di debito e/o deficit di uno o più paesi, che mette a rischio la stabilità finanziaria e genera pressioni a favore della monetizzazione del debito da parte della BCE oppure a favore di trasferimenti tra gli stati per salvarne uno o alcuni dal default. Quelle regole, inoltre, avevano ben noti difetti tecnici che le rendevano pro-cicliche, nonostante le intenzioni contrarie

Dopo i disastri economici provocati dalla pandemia da COVID-19, la lezione per il futuro della UEM è che non solo occorre correggere le regole fiscali per evitare le loro conseguenze indesiderate, ma devono essere accompagnate anche da un sistema di salvaguardia dell’integrità della UEM quando essa viene colpita da shock sistemici. Qualsiasi riforma delle regole fiscali europee deve tenere conto delle mutate circostanze. Qui di seguito le indicazioni contenute in un nostro recente paper per Friedrich Ebert Stiftung.

1) I tassi di interesse sono molto più bassi di quanto fossero negli anni ’90, quando le vecchie regole vennero definite, tanto che la spesa per interessi nell’Eurozona rappresenta una quota del Pil molto più piccola che negli anni ’90, nonostante il debito sia significativamente più alto. Ciò significa che la soglia di sostenibilità del debito si è alzata e, con elevata probabilità rimarrà più alta per lungo tempo, considerando la permanenza di un eccesso di risparmio a livello mondiale che tende a comprimere i tassi reali.

2) Dopo il Covid il debito di tutti i paesi della UEM è ampiamente cresciuto rispetto al PIL, motivo per cui il traguardo del 60% previsto nel vecchio PSC è del tutto fuori della portata di molti paesi (del Sud, ma anche di Francia, Belgio e Austria), se non a costo di una compressione prolungata della domanda capace di far precipitare nuovamente il continente nella recessione (Francová, O., Hitaj, E. et al., “EU fiscal rules: Reform considera­tions”, ESM Discussion Paper n. 17, 2021). I surplus primari necessari a soddisfare la regola “del ventesimo” prevista dal Fiscal Compact del 2012 sarebbero straordinariamente alti. Per esempio, un paese che avesse raggiunto un rapporto debito/Pil del 160% (in eccesso di 100 punti sulla soglia del 60%) per rispettare la regola “del ventesimo” dovrebbe ridurre il rapporto debito/Pil del 5% nel primo anno e in misura via via decrescente negli anni successivi. Comunque, il rapporto debito /Pil sarebbe ancora vicino al 75% nel 2060.

3) Il rapporto debito/Pil è, appunto, un rapporto; la sua variazione nel tempo è data dalla variazione del numeratore meno la variazione del denominatore. Quindi una recessione fa aumentare il rapporto anche se non dovesse aumentare il numeratore (cioè il debito). Pretendere che il rapporto scenda sempre e comunque per un lungo periodo di tempo è quindi contrario ad ogni logica. Vero che il vecchio PSC prevedeva la sospensione delle regole in caso di shock aggregati molto ampi (come la crisi finanziaria del 2008 o il Covid), ma l’impatto macroeconomico nel tempo può essere profondamente asimmetrico (come negli anni 2011-2014) e questo rende fragile e praticamente inapplicabile una regola uniforme e tarata su un rapporto in cui la variazione del denominatore ha una elevata varianza tra i paesi membri.

5) Il fatto che i tassi di interesse sono da tempo vicini a zero significa che l’efficacia della politica monetaria convenzionale si è ridotta un po’ in tutto il mondo e che, perciò non ci si può fare troppo affidamento per far fronte ad ampi shock negativi, anche di natura simmetrica. Un maggior uso della politica fiscale a fini di stabilizzazione e le connesse esternalità macroeconomiche devono essere attentamente considerate. In seguito alla pandemia è divenuto evidente che la sostenibilità economica futura dei paesi europei, a partire dalla transizione energetica, è legata a uno straordinario (ma tutt’altro che temporaneo) sforzo sostenuto dal bilancio pubblico. Fino al 2026 c’è il NGEU, e dopo?

A) Dal coordinamento “orizzontale” al coordinamento “verticale”.

Dovrebbe ormai essere chiaro come non sia più possibile delegare interamente la politica fiscale ai singoli stati membri, vincolati da un insieme di regole che ignorano le esternalità macroeconomiche (Blanchard, O., Leandro, A., Zettelmeyer, J., “Redesigning EU fiscal rules: from rules to standards”, Economic Policy, 2021; Buti, M., Messori, M., “Euro Area Policy Mix: Form Horizontal to Vertical Coordination”, CEPR Policy Insight, n. 113, 2021). 

L’epoca dei (soli) compiti a casa è finita. Le politiche di bilancio dei singoli stati devono essere controllate più efficacemente e nello stesso tempo coordinate e armonizzate per mantenere un’equilibrata fiscal stance dell’Eurozona, in modo da minimizzare gli spillover negativi delle singole politiche di bilancio nazionali sugli altri paesi partner. Bisogna anche avere ben chiaro che esiste un trade-off tra rigore e rigidità delle politiche di bilancio dei singoli paesi, da un lato, ed esistenza, dall’altro, di un adeguato bilancio“federale” per far fronte agli episodi recessivi che possono colpire simmetricamente l’Unione o asimmetricamente questo o quel paese membro. 

Se NGEU e, in particolare, SURE (lo strumento di finanziamento comune degli ammortizzatori sociali per esigenze cicliche) divenissero strumenti comunitari permanenti, i vincoli ai bilanci nazionali potrebbero divenire subito più accettabili politicamente e più controllabili, poiché una parte rilevante del “lavoro” di stabilizzazione macroeconomica verrebbe affidata al bilancio comune, finanziato perlopiù da risorse proprie. Se a questo punto non si può o non si vuole arrivare, bisogna accettare che le “regole” siano molto flessibili e sottoposte a una continua ricontrattazione politica.

 

B) Valutazioni tecniche e responsabilità politica

Occorre abbandonare la pericolosa illusione di sopprimere la discrezionalità propria degli organi politici con algoritmi automatici. Ogni volta che le valutazioni tecniche sulle condizioni della finanza pubblica dei vari paesi membri, e della UEM nel suo complesso, vengono tradotte in decisioni politiche la responsabilità dovrebbe essere assegnata a istituzioni politicamente responsabili. Nella UEM l’esercizio della responsabilità politica passa dai governi dei paesi membri, i quali tuttavia devono accettare una condivisione di sovranità con un organo sovraordinato in grado di garantire gli interessi collettivi dell’Unione. A nostro giudizio tale organo non può che essere la Commissione. Questa deve certo avvalersi di strutture tecniche indipendenti, come lo European Fiscal Board (EFB) e gli stessi Istituti di bilancio nazionali per svolgere le analisi tecniche e formulare le linee guida per l’implementazione degli standard, ma non può delegare scelte eminentemente politiche.

C) Dal bilancio annuale alla sostenibilità del debito

Concordiamo interamente con il suggerimento di Blanchard et al. (2021) di concentrare l’attenzione sulla sostenibilità del debito pubblico, eliminando il riferimento a numeri fissi e validi per tutti i paesi membri indifferentemente e, soprattutto, liberando l’analisi della sostenibilità dal peso di variabili non osservabili, le cui stime vengano riviste in continuazione (e retrospettivamente) come il PIL potenziale e l’output gap. Per ciascun paese membro dovrebbe essere condotta periodicamente una analisi di sostenibilità, volta a stabilire se il debito sia sostenibile con elevata probabilità, tenendo conto delle specificità di ciascun paese con riferimento alla crescita, alla dinamica della popolazione, all’evoluzione dei tassi di interesse (e quindi della spesa complessiva per il servizio del debito), ma anche alle politiche di bilancio in atto e a quelle previste per il futuro. Questo tipo di analisi non è semplice e perciò dovrebbe essere affidata a un rafforzato EFB, in collaborazione con le istituzioni nazionali. Se l’analisi di sostenibilità del debito dovesse mostrare che il debito può divenire insostenibile con elevata probabilità, la Commissione (su proposta dell’EFB) dovrebbe concordare con il singolo paese interessato un percorso pluriennale di riduzione del deficit “che bilanci i rischi per la sostenibilità del debito con i costi di aggiustamento in termini di produzione” (Blanchard et al., 2021, p. 21), con l’esplicito obiettivo di evitare per quel paese e per l’intera UEM una crisi di debito.

D) Controllo della spesa primaria e salvaguardia degli investimenti pubblici

Lo EFB, già nel 2019, aveva suggerito che, in caso una riduzione del debito si rendesse necessaria, si potrebbe ricorrere a un tetto sull’evoluzione della spesa primaria, preservando una quota predefinita di spesa per investimenti (golden rule). La transizione energetica richiede investimenti enormi e prolungati nel tempo: non è pensabile realizzarli e contemporaneamente mantenere rilevanti avanzi primari in tutti i paesi, a cominciare dalla Germania. È stato notato inoltre che, dopo la pandemia, la resilienza e la ripresa si fondano sulla ricostituzione e l’accrescimento del capitale (specialmente di quello umano e sociale). 

Tutto ciò richiede che vengano aumentate – per un certo periodo, almeno – anche spese che oggi i sistemi di contabilità classificano come spese correnti ma che, a guardare bene, sono vere e proprie spese di investimento. Si pensi alla spesa sanitaria e a quella per istruzione. La contabilità nazionale è una convenzione. Non sarebbe irragionevole che la riforma delle regole fiscali europee e l’introduzione della golden rule si accompagnasse a una modifica (almeno in via sperimentale) della classificazione di alcune spese cruciali, in modo da poterne garantire per alcuni anni l’aumento necessario al riparo dai tagli di bilancio. Chiaro che non si tratta di permettere deficit per tutta la spesa sanitaria e tutta la spesa per istruzione, ma solo per una quota della sua crescita post-pandemica.

Le linee di riforma che suggeriamo soddisfano i requisiti di semplicità e osservabilità delle variabili rilevanti e lasciano spazio a politiche di stabilizzazione quando necessarie e nella misura in cui non siano svolte dalla capacità fiscale comune.

*da Etica ed Economia n 164

 

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