Le origini della crisi nell’area dell’euro
Fino a qualche anno fa la politica monetaria era considerata una disciplina da manuale, quasi una tecnica per coscienziosi esperti di applicazioni computazionali. Nel periodo della cosiddetta “Grande moderazione”, cioè fra la metà degli anni ’80 e l’inizio della crisi finanziaria globale, l’inflazione era stata ricondotta sotto controllo. La volatilità macroeconomica era molto contenuta e tutti i banchieri centrali ne traevano gran vanto. Qualcuno presagiva, per la politica monetaria, un futuro di gentile e onorevole oblio. Non è più così.
L’esperienza dei primi cinque anni successivi alla crisi mostra che tutte le Banche centrali hanno adattato le proprie politiche monetarie lungo strade prima inesplorate: certezze sono state abbandonate, un nuovo paradigma non è ancora stato formulato, si vorrebbe uscire dall’emergenza per tornare alla normalità dove le regole sono quelle di una disciplina consolidata da una lunga storia, ma non si è certi di quale sarà la realtà che emergerà nel lungo periodo. Inoltre, anche se il disegno preciso delle politiche monetarie è sempre stato influenzato dal rispettivo contesto istituzionale e storico – si pensi ai diversi “mandati” delle Banche centrali – le diverse forme che la crisi assumeva nelle varie parti del mondo rafforzavano questa corrispondenza tra le loro specifiche realtà istituzionali e finanziarie e le politiche monetarie che vi venivano perseguite.
Nell’area dell’euro, la straordinaria affermazione della moneta unica nascondeva per anni i rischi che venivano accumulandosi. I governi dei paesi membri si sentivano liberati dai vincoli preesistenti: con l’eccezione della Germania e di pochi altri paesi, procrastinavano le riforme strutturali che avrebbero potuto adeguare la competitività di strutture economiche obsolete alle sfide di una globalizzazione incalzante; scardinavano i limiti introdotti dal Patto di stabilità e crescita e, minando la loro stessa credibilità quali partner di un’Unione monetaria.
Tale Unione, già negli anni precedenti alla crisi, iniziava a dividersi tra paesi con saldi commerciali positivi e bilanci pubblici in ordine, e paesi con deficit sull’estero e deficit di bilancio crescenti, finanziati con flussi di credito privato sempre più provenienti dal primo gruppo di paesi e utilizzati non per fare investimenti che accrescessero la competitività, ma per finanziare spese improduttive o bolle immobiliari. Nessuno aveva immaginato che l’Unione monetaria potesse divenire un’unione divisa tra creditori permanenti e debitori permanenti dove i primi avrebbero prestato per sempre ai secondi denaro e credibilità.
Un profondo mutamento del governo dell’Unione si rendeva necessario, con nuove regole, in cui la solidarietà richiesta a gran voce trovasse una contropartita nella cessione di poteri nazionali. Ma anche questo veniva posposto e la sua urgenza veniva minimizzata di fronte alle esigenze di una sovranità nazionale in realtà indebolita dalla globalizzazione e dai crescenti livelli del debito pubblico.
La crisi finanziaria mondiale, innalzando drammaticamente e rapidamente la percezione che i mercati avevano del rischio, ha risvegliato brutalmente tutti gli attori da questa lunga, compiaciuta amnesia.
I deficit sull’estero, quelli di bilancio e i livelli del debito pubblico dei paesi del secondo gruppo divenivano rapidamente insostenibili, non più finanziati dall’estero e in particolare dal resto dell’Unione il cui governo appariva ormai in tutta la sua insufficienza.
Questa breve disamina delle origini della crisi nell’area dell’euro mostra come la risposta della politica economica non può che essere composita: la politica monetaria svolge in essa un ruolo importante ma assolutamente non esclusivo.
La crisi e la politica monetaria della Bce
In una fase iniziale, epicentro della crisi fu la liquidità, una quantità economica che la teoria aveva da molti anni trascurato, tanto improbabile appariva la sua mancanza. All’indomani del collasso di Lehman Brothers, i mercati monetari smisero di funzionare. La liquidità necessaria alle banche per rifinanziare gli attivi in scadenza era divenuta improvvisamente molto scarsa.
In generale, le banche si indebitano a breve o brevissimo termine nei confronti di risparmiatori con forte preferenza per disponibilità finanziarie immediate: per la “liquidità”. Quando improvvisamente i risparmiatori si rifiutano di rinnovare i propri depositi presso le banche, queste cercano di interrompere il credito che danno all’economia. Se ciò non è possibile a causa delle lunghe scadenze, per evitare l’insolvenza le banche cercano di liquidare per prime quelle attività nel proprio portafoglio che sono trattate sul mercato a prezzi di scambio noti e verificabili. Ma il disimpegno finanziario immediato da parte di molte istituzioni finanziarie non può avvenire simultaneamente, se non in condizioni di grande sofferenza finanziaria generalizzata e, per le banche, al costo di pesanti perdite in conto capitale.
I prezzi delle attività cadono rapidamente. Si riduce il capitale bancario. Si prosciugano i mercati interbancari. L’economia smarrisce il meccanismo indispensabile per la creazione del reddito e l’allocazione delle risorse: l’intermediazione del risparmio.
In una seconda fase, a partire dal 2011, fu la mancanza di credito agli emittenti sovrani più vulnerabili che assunse un ruolo centrale nella crisi. Ad essa, i governi dell’area dell’euro risposero con azioni che, pur individualmente efficaci, rivelavano l’insostenibilità politica di un’Unione nella quale i paesi che pagano e quelli che ricevono sono sempre gli stessi: nell’area dell’euro, il debito sovrano non è più privo di rischio, ma dipende dal sovrano e dalla qualità delle sue politiche. Questo processo, di per sé auspicabile, rivoluzionava la struttura del rischio su cui per anni si era fondato il funzionamento dei mercati finanziari europei e, in assenza di un governo complessivo dell’Unione e della sua politica economica, si rifletteva in un’abnorme crescita dei premi al rischio che raggiungevano dimensioni sistemiche: non più fondate sul merito di credito di debitori pur fragili per le ragioni prima esposte, ma spiegabili solo con il manifestarsi di aspettative sulla fine dell’euro che si autoalimentavano.
Premi al rischio e misure non convenzionali
Ma cosa sono i premi per il rischio? La remunerazione richiesta su un contratto finanziario a lunga scadenza deve essere almeno uguale a quella che si potrebbe avere su un contratto a breve termine che viene continuamente rinnovato fino a quella scadenza. Gli investitori a lungo termine richiedono un rendimento che stabilisca come minimo l’equivalenza finanziaria fra le due strategie. Ma, in generale, l’equivalenza non è sufficiente. Il creditore pretende un compenso aggiuntivo per i rischi che corre nel non essere rimborsato rapidamente. Questi rischi sono di varia natura; a ciascuno di essi i mercati attribuiscono un prezzo: un premio al rischio. Il puro rischio di differimento temporale della disponibilità del capitale è remunerato da un premio per il rischio a termine. Il rischio che il creditore si trovi costretto a una liquidazione anticipata dell’investimento finanziario a scadenza protratta in condizioni di mercato penalizzanti è remunerato da un premio per il rischio di liquidità. Infine, al rischio che il debitore non faccia fronte ai propri obblighi di rimborso alla scadenza nei termini previsti dal contratto corrisponde un premio per il rischio di credito.
In condizioni di profonda crisi finanziaria, tutti i premi al rischio aumentano – come ho detto – in misura abnorme, perché si esaurisce la disponibilità o la capacità degli operatori di mercato nel sostenerli.
Le misure straordinarie adottate dalle Banche centrali dei maggiori paesi nei cinque anni dall’inizio della crisi finanziaria possono essere distinte sulla base del tipo di premio al rischio che hanno inteso correggere. Ad esempio, i programmi di acquisto di titoli pubblici su larga scala – quantitative easing – messi in atto dalla Federal reserve statunitense agiscono sul premio per il rischio a termine. Il loro obiettivo primario è riassorbire la quantità di rischio a termine detenuta dall’economia nel suo complesso e dunque comprimerne il prezzo, il premio corrispondente.
In un primo tempo la Bce ha adottato misure straordinarie orientate principalmente a ridimensionare il premio finanziario legato al rischio di liquidità. Agli albori della crisi, all’indomani del fallimento di Lehman Brothers nel 2008, il rischio di liquidità sul mercato interbancario minacciava alle fondamenta la struttura stessa del sistema dei pagamenti. Il rischio catastrofico si manifestò in un’abnorme rivalutazione del premio di liquidità sul credito tra operatori finanziari. In quelle condizioni, la Bce si sostituì al mercato interbancario che aveva interrotto il proprio credito a breve e brevissimo termine alle banche. Da allora la Bce ha mutato il proprio strumento di assegnazione della liquidità alle banche, adottando un sistema di credito illimitato a tasso di interesse fisso (ossia Frfa, fixed rate full allotment). In tal modo la Bce ha permesso alle banche di rifinanziare le proprie attività con il proprio credito piuttosto che attraverso svendite di attività sul mercato. L’insolvenza di istituzioni bancarie solide e solvibili è stata evitata.
Per dare assicurazione alle banche che l’accesso alla liquidità della Banca centrale si sarebbe prolungato su un orizzonte coerente con le loro esigenze di rifinanziamento di medio periodo, abbiamo esteso la durata del nostro credito: dai tre mesi standard di prima della crisi, a sei mesi dopo il cataclisma di Lehman Brothers, a un anno nella metà del 2009 e, infine, a tre anni alla fine del 2011.
Dalla seconda metà del 2011, abbiamo assistito all’emergere di una nuova fonte di stress: quello che fu definito il rischio di “ridenominazione” derivante dall’eventualità dell’uscita dall’euro di un qualche paese o addirittura dal collasso della moneta unica. A questa eventualità si associava una particolare forma di premio al rischio di credito che nulla aveva a che fare con la valutazione del merito di solvibilità del debitore, ma che era invece dovuto ad attese immotivate di cedimento sistemico dell’area dell’euro. La Bce ha così lanciato il programma Omt (cioè le Outright Monetary Transactions, ovvero Operazioni Monetarie Definitive ) un’iniziativa di politica monetaria orientata all’eliminazione del premio finanziario dovuto a tale specifico rischio sistemico.
L’Omt consiste nella possibilità da parte della Bce di acquisti sul mercato secondario di titoli di debito pubblico, con una durata residua fino a tre anni, nella misura necessaria per eliminare il rischio di “ridenominazione” (cioè, quello legato alle aspettative sulla fine dell’euro) dai mercati finanziari. I governi emittenti che ne chiedono l’attivazione sottoscrivono con le autorità europee e, possibilmente, con il Fondo monetario internazionale, un programma di risanamento delle debolezze macroeconomiche e strutturali, Questa è condizione necessaria ma non sufficiente perchè la decisione, pienamente discrezionale, di avviare, continuare o sospendere l’Omt spetta alla Bce. Inoltre la liquidità creata con tali acquisti verrà riassorbita dalla Bce.
La condizionalità collegata al programma sottoscritto dai governi con le autorità europee è un elemento cruciale per poter preservare l’indipendenza della politica monetaria. È importante per dare alla Bce adeguata assicurazione che gli interventi a sostegno dei prezzi dei titoli del debitore sovrano non si tramutino in un sussidio finanziario a politiche nazionali insostenibili nel medio termine. Per fare un parallelo: così come il credito fornito alle controparti bancarie nelle operazioni di liquidità non può essere né deve essere interpretato come un’iniezione di capitale a banche in difficoltà, allo stesso modo, nel comprimere il premio per il “rischio di ridenominazione”, la Bce non può né intende fornire un sostegno finanziario ai governi che ripristini condizioni di solvibilità ove queste non siano già verificate ex ante.
In entrambi i casi, le politiche straordinarie della Bce trovavano il loro fondamento nella necessità di ripristinare il funzionamento dei canali di trasmissione della politica monetaria, attraverso la iduzione del premio di liquidità prima, riduzione del premio per il rischio di ridenominazione in seguito.
La diversità delle condizioni finanziarie nell’area dell’euro
Attraverso le due fasi della crisi – quella bancaria e quella del debito sovrano – il nostro sistema di provvista di liquidità si è aggiustato elasticamente per rispondere alla domanda di sostegno espressa dalle banche più intensamente sottoposte alla pressione dei mercati. Dapprima, tale domanda era diffusa in gran parte dell’area dell’euro. Nel 2008 e 2009 le banche individualmente più esposte a settori e attività in sofferenza subivano un ostracismo di mercato, che non dipendeva da dove fossero domiciliate. Poi, nella seconda fase della crisi, gli ostacoli all’approvvigionamento di liquidità si sono andati concentrando territorialmente. Il settore bancario e il mercato finanziario dell’area dell’euro si sono via via fratturati lungo confini nazionali. Questi confini separano settori bancari che, indipendentemente dalla qualità intrinseca dei loro intermediari, sono considerati robusti, perché lo stato dove essi risiedono è in grado di far fronte a una crisi bancaria, da quelli considerati fragili, dove i mercati ritengono che tale capacità non vi sia. Questi stessi confini separano quindi i paesi competitivi e con bilanci sani da quelli contraddistinti da fragilità di bilancio e incapacità di crescita.
Le misure decise della Bce (Frfa, Ltro, Omt, valutazione e scelta del collaterale, guida sulla permanenza del Frfa) hanno contribuito al superamento di gran parte della frammentazione che aveva caratterizzato la provvista del sistema bancario fino alla metà del 2012. Oggi la dispersione nel tasso di crescita dei depositi bancari nei vari paesi dell’area è tornata ai livelli del 2007.
Il progresso sul fronte del credito è molto più lento. Nel primo gruppo di paesi si osservano in generale condizioni di accesso al credito per imprese e famiglie normali o permissive. Nel secondo gruppo si osserva la permanenza, sia pure con intensità decrescente in alcuni paesi, di un restringimento del credito con tassi sui prestiti bancari al dettaglio molto più alti di quelli praticati dalle banche che risiedono nei paesi del primo gruppo e con condizioni collaterali richieste per la concessione dei fidi più esigenti.
L’indagine sull’accesso al credito delle piccole e medie imprese (Pmi) nell’area dell’euro appena pubblicata dalla Bce fotografa bene lo stato difficile di questo settore così vitale per l’economia dell’area. Fra i motivi di preoccupazione più rilevanti citati dalle Pmi intervistate, l’accesso al credito è secondo solo alla difficoltà nel trovare clienti per i propri prodotti. L’esistenza di ostacoli al finanziamento (legati, cioè, al rifiuto di concessione di credito) persiste ed è uno dei maggiori fattori di eterogeneità fra i paesi dell’area, anche se non si limita ai soli paesi sotto stress. Accanto a Grecia, Irlanda e Spagna, infatti, tali ostacoli sono segnalati in misura importante da Pmi operanti nei Paesi Bassi (circa il 45 per cento delle imprese rilevate). Un risultato, questo, che riflette la considerevole eterogeneità delle condizioni di prestito, come anche emerge dalla più recente indagine sul credito bancario.
Questa frammentazione è tanto più gravosa in un’economia, come quella dell’area dell’euro, dove l’intermediazione finanziaria è fondata sulle banche per 3/4 almeno dei finanziamenti alle imprese . Ed è tanto più penalizzante per quelle imprese, spesso di piccole e medie dimensioni, che dipendono in misura più rilevante dal sistema bancario. Ciò è particolarmente grave se si pensa che tale comparto dà lavoro a circa 2/3 dei lavoratori nell’area dell’euro.
Le ragioni per cui le banche non prestano sono: mancanza di provvista, investimenti alternativi, mancanza di capitale, avversione al rischio. La Bce ha fatto moltissimo sui primi due fronti assicurando liquidità e riducendo il premio al rischio di ridenominazione sui titoli di stato. Non può sussidiare i governi comprando titoli di stato. Non può sussidiare gli azionisti delle banche, evitando la pulizia dei loro bilanci con le necessarie ricapitalizzazioni. Poco può fare direttamente per ridurre l’avversione al rischio che frena i prestiti bancari.
In altri sistemi finanziari è il mercato dei capitali che convoglia gran parte del credito all’economia: le attività finanziarie sono scambiate in base a prezzi noti e verificabili e spesso sono oggetto di rating: la Banca centrale che volesse provare a ridurre un premio del rischio su queste attività non incontra grandi difficoltà operative nel farlo. Nell’area dell’euro lo spazio del mercato dei capitali è molto più ridotto: la Banca centrale che volesse intervenire dovrebbe acquistare dal sistema bancario i prestiti che esso fa all’economia, prestiti per cui non esiste un mercato se non in dimensioni moltolimitate. Un compito complesso, anche senza considerare il contesto istituzionale con diciassette paesi in cui questo intervento dovrebbe aver luogo.
Ma anche su questo fronte la Bce ha attivato una serie di misure. Da tempo alle banche è permesso offrire come collaterale per i finanziamenti che esse contraggono dalla Bce i prestiti ai loro clienti. Né dobbiamo sottovalutare l’efficacia della politica monetaria tradizionale, quando le condizioni generali cambiano: com’è noto, nella sua ultima riunione, il Consiglio direttivo della Bce ha portato il tasso di interesse allo 0,50 per cento, minimo storico, dopo otto mesi in cui questo era rimasto invariato allo 0,75 per cento. Ciò per l’estendersi della debolezza macroeconomica a regioni dell’area dell’euro nelle quali la trasmissione della politica monetaria non era mai stata in discussione, ma anche per l’apparire di alcuni lievi segni di riduzione della frammentazione sul fronte del credito in alcuni dei paesi sotto stress nell’area. La politica monetaria continuerà a essere accomodante. Abbiamo confermato che la disponibilità di liquidità in misura illimitata a tasso fisso continuerà almeno fino a metà del 2014. Poi abbiamo una facility sui depositi, per cui le banche possono ridepositare il denaro presso la Bce. Il Consiglio dei governatori ha deciso per la prima volta di guardare in maniera aperta alla possibilità di ridurre i tassi di interesse sulla facility dei depositi, al di sotto dello zero, cioè in territorio negativo. Ci sono molte complicazioni, ci sono molte conseguenze di cui tenere conto, e il Consiglio dei governatori ha deciso di studiare queste conseguenze in modo da essere pronto ad agire se fosse necessario. Inoltre guarderemo a tutti i dati che arrivano sull’economia dell’area dell’euro nelle prossime settimane e se necessario siamo pronti ad agire ulteriormente. Ancora, sulla frammentazione, mi si permetta di ricordare alcuni dati lievemente incoraggianti sul fronte dei prestiti. La situazione continua a essere tesa, ma il grado di tensione sembra diminuire in alcuni paesi – per quanto riguarda la disponibilità dei mutui e in generale gli ostacoli ai finanziamenti che le imprese incontrano, quindi il loro costo, l’ammontare che spesso non viene dato integralmente: bene, su tutti questi fronti, pur restando la situazione tesa, sembra ci sia un minore grado di restrizione in alcuni paesi, tra cui l’Italia.
A tale proposito, efficaci potrebbero essere anche interventi nazionali, peraltro già collaudati in alcuni paesi, con la partecipazione di governi, banche pubbliche e agenzie di sviluppo. La Bce ha avviato con la Bei e con la Commissione europea iniziative mirate a ridurre la frammentazione del credito nell’area dell’euro. Non va dimenticato lo straordinario progresso su questo fronte che è stato compiuto dal Consiglio europeo con l’unificazione dei sistemi di vigilanza nazionali in un meccanismo europeo la cui gestione è stata affidata alla Bce e con la creazione di un Meccanismo europeo per la risoluzione delle banche. Sono queste le iniziative più efficaci per interrompere quell’identificazione tra banca e debito sovrano che è alla base dell’attuale frammentazione.
Ma non dimentichiamo che oggi la crescita è più debole in alcuni paesi che in altri, non solo perché il credito è scarso; era più debole anche prima della crisi, nonostante una crescita spesso tumultuosa della spesa pubblica, perché non si erano volute affrontare fragilità strutturali, di cui oggi, dopo la crisi, sentiamo tutto il peso.
Riforme strutturali per ricominciare a crescere e per una società più solidale
Le riforme mirano a sciogliere i nodi che imbrigliano la capacità competitiva e soffocano la crescita. Un’efficace promozione e tutela della concorrenza, un adeguato grado di flessibilità del mercato del lavoro che sia ben distribuito tra generazioni, una burocrazia pubblica che non sia di ostacolo alla crescita, un capitale umano adatto alle sfide poste dalla competizione globale, un ambiente migliore sono fronti su cui, malgrado progressi recenti, non poco resta ancora da fare, sia pure in misura diversa nei singoli paesi.
Le politiche di bilancio devono essere mantenute su sentieri sostenibili, al di là delle oscillazioni cicliche. Senza questo presupposto non vi è crescita duratura possibile. Specialmente per i paesi con livelli di debito pubblico strutturalmente alti, quindi non temporaneamente elevati a causa della crisi attuale, ciò significa non tornare indietro dagli obiettivi già raggiunti. Non si dimentichi che, in un contesto istituzionale in cui la solvibilità degli stati sovrani non è più un fatto acquisito e la governance dell’Unione è ancora incompleta, la mancanza di credibilità della finanza pubblica di un paese sitraduce rapidamente in separazione delle banche di quel paese dal resto del mercato finanziario dell’euro e in mancanza di credito per il settore privato di quel paese: è l’esperienza che stiamo vivendo.
Occorre però mitigare gli effetti inevitabilmente recessivi del consolidamento di bilancio con una sua composizione che privilegi le riduzioni di spesa pubblica corrente e quelle delle tasse, specialmente in un contesto come quello europeo dove la tassazione è già elevata in qualunque confronto internazionale.
E’ indubbio che una crescita duratura sia condizione essenziale per ridurre la disoccupazione, in particolare quella giovanile. In alcuni paesi europei questa ha raggiunto livelli che incrinano la fiducia in dignitose prospettive di vita e che rischiano di innescare forme di protesta estreme e distruttive.
La crescita del prodotto è stata una condizione essenziale per l’affermazione del modello sociale europeo. Lo straordinario sviluppo economico nella cosiddetta “Golden Age” – cioè nei trent’anni che sono seguiti alla Seconda guerra mondiale – ha consentito un forte miglioramento delle condizioni di benessere materiale di larga parte della popolazione in Europa.
Allo stesso tempo, questo benessere ha rafforzato il processo di crescita. Sono state poste allora le basi in Europa dei moderni sistemi di welfare, volti alla protezione degli individui dal rischio che la disoccupazione, la malattia o la vecchiaia si tramutassero in una caduta dei loro standard di vita. E’ anche grazie a questi strumenti che la crisi finanziaria e la recessione non hanno avuto gli effetti socialmente devastanti della Grande Depressione.
Molti anni fa Rudi Dornbusch diceva, esagerando, che gli Europei erano così ricchi che potevano permettersi di pagare chiunque perché non lavorasse. Non è più così, ma non vogliamo perdere la solidarietà che ispirò quel modello in tempi tanto diversi. Per questo oggi dobbiamo adeguare quel modello ai mutamenti richiesti dalle dinamiche demografiche e dal nuovo contesto competitivo globale. Occorre farlo per diminuire la disoccupazione giovanile, per aumentare i consumi, per preservare l’essenza stessa del welfare.
Un’altra dimensione della sostenibilità della crescita, nel contesto europeo, su cui voglio attirare la vostra attenzione oggi è quella della distribuzione del reddito.
Da quasi vent’anni, è in atto una tendenza alla concentrazione dei redditi delle famiglie in Europa che penalizza i più deboli, come testimoniano le statistiche pubblicate dall’Eurostat. Una più equa partecipazione ai frutti della produzione della ricchezza nazionale contribuisce a diffondere la cultura del risparmio e, dunque, della compartecipazione. Sentirsi parte integrante della nazione e cointeressati alle sue sorti economiche aumenta la coesione sociale e incentiva comportamenti economici individuali che conducono, nell’aggregato, al successo economico della collettività. Vi sono vari strumenti che i governi possono utilizzare per perseguire questo obiettivo ma prima di tutto la coesione sociale va ricercata rimuovendo le barriere che limitano le opportunità degli individui di perseguire i loro progetti, che ne fanno dipendere i percorsi di vita dalle origini familiari.
Nell’eliminazione delle posizioni di rendita, le riforme strutturali assumono un significato più ampio di quello di mero strumento per la crescita. Stimolando l’inclusione di tutti gli individui nel processo produttivo, fanno sì che il perseguimento di una più equa ripartizione dei redditi non sia solo compito dell’azione redistributiva pubblica. In questo senso, le riforme mirano a coniugare le potenzialità individuali con la crescita dell’economia.
Tuttavia, in una prospettiva che non può essere lontana, le virtù nazionali – pur indispensabili per rafforzare la solidarietà fra gli stati membri lungo il cammino – sono condizione necessaria ma non sufficiente a rendere l’Europa un traguardo sentito come proprio da tutti i suoi cittadini. Saranno necessarie, anche riforme che riducano ulteriormente le barriere tra i singoli stati membri, in particolare quelle allo sviluppo di un singolo mercato europeo del lavoro e che affermino un criterio di solidarietà condiviso, come è stato proposto di recente nel cosiddetto Rapporto dei quattro presidenti. Costruire con passione e con rigore un futuro comune in cui le condizioni per la crescitasiano più favorevoli, in cui i cittadini sentano valorizzate pienamente le proprie capacità, in cui il benessere individuale sia coniugato con quello collettivo. Per raggiungere questo obiettivo siamo tutti impegnati oggi, ciascuno nell’ambito del proprio mandato.