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Conoscenza, Coraggio, Umiltà

Policymaking, responsabilità e incertezza
Fra poche settimane si concluderà il mio mandato di Presidente della Banca centrale europea. È una occasione per sollevare lo sguardo dalle incombenze quotidiane, per riflettere sull’esperienza fatta nella speranza che le lezioni apprese possano essere utili per altri.

Parlerò poco di politica monetaria o della professione del central banking: preferisco concentrarmi sulla natura delle responsabilità del policy maker. Ho avuto il privilegio di ricevere nelle varie posizioni che ho occupato un mandato da politici designati dalla volontà dei cittadini. Qui in Italia, al Tesoro e alla Banca d’Italia; in Europa, alla BCE e al Comitato economico e finanziario europeo; a livello globale al Financial Stability Board.

Ho avuto la fortuna di lavorare con banchieri centrali, funzionari dello Stato e politici di eccezionale valore, persone da cui ho appreso molto e a cui mi lega un debito di gratitudine. Spero che almeno alcune delle lezioni apprese da loro possano servire alla prossima generazione di servitori dello Stato.

Molti studenti di questa e di altre università vestiranno nel corso della propria vita i panni del servitore pubblico: il futuro della società dipende dal sentire il bene pubblico da parte dei giovani migliori e dall’impegno che profondono nel raggiungerlo.

Vorrei oggi condividere con voi quelle che mi paiono caratteristiche frequenti nelle decisioni che consideriamo “buone”: la conoscenza, il coraggio, l’umiltà.

Naturalmente la loro presenza non garantisce che si prenda sempre la decisione giusta. I policy maker spesso decidono in condizioni di incertezza in cui i risultati raramente sono conosciuti e valutabili con sicurezza. “Quasi tutti i problemi sono estremamente complessi […] la realtà è per sua natura complessa e ambigua”, notava qualche anno fa l’ex Segretario al Tesoro degli Stati Uniti Robert Rubin.

 

La conoscenza

 

L’incertezza in cui operano i policy maker è dunque sostanziale. A maggior ragione le loro decisioni dovrebbero cercare di essere fondate sulla conoscenza degli esperti. Essa fornisce le basi: per comprendere nel profondo un problema, per essere in grado di prendere decisioni ponderate, il cui merito tecnico è tenuto distinto dal merito politico, e per saperle eventualmente correggere alla luce delle nuove evidenze. Il policy maker non può appoggiarsi alla realtà empirica nello stesso modo di uno scienziato ma può utilizzare lo stesso approccio nell’analisi dell’esperienza e nel processo di verifica delle ipotesi adottate con l’obiettivo di rispondere meglio alle richieste che i cittadini rivolgono ai governi.

Oggi viviamo però in un mondo in cui la rilevanza della conoscenza per il policy making è messa in discussione. Sta scemando la fiducia nei fatti oggettivi, risultato della ricerca, riportati da fonti imparziali; aumenta invece il peso delle opinioni soggettive che paiono moltiplicarsi senza limiti, rimbalzando attraverso il globo come in una gigantesca eco.

In questo contesto è più facile per i policy maker rispecchiare semplicemente quelli che egli reputa essere gli umori della pubblica opinione, sminuendo il valore della conoscenza, assumendo prospettive di breve respiro e obbedendo più all’istinto che alla ragione. Ma solitamente ciò non serve l’interesse pubblico.

La lezione della storia è invece che le decisioni destinate ad avere un impatto duraturo e positivo sono basate su un lavoro di ricerca ben condotto, su fatti accuratamente accertati e sull’esperienza accumulata. Così è stato ad esempio per il sistema di Bretton Woods che ha stabilizzato l’economia globale dopo la Guerra, assistendone lo sviluppo per decenni e creando le istituzioni finanziarie senza le quali non potremmo oggi cercare di governare le conseguenze della globalizzazione. Quel sistema non sarebbe mai nato senza la incessante ricerca empirica condotta durante la guerra da un grande economista: Ragnar Nurske e senza l’esperienza e la visione di John Maynard Keynes.

La competenza fondata sulla conoscenza è essenziale per capire la complessità, nel nostro caso, delle dinamiche economiche e sociali, per quantificare i rischi associati a determinate situazioni e per valutare di conseguenza l’effettiva necessità di una certa azione; per stimare i trade off e gli effetti distributivi di un intervento, individuando coloro che ne beneficiano e coloro che ne vengono danneggiati.

Credo ciò sia importante in ogni ambito di policy. Un esempio particolarmente significativo è costituito dal cambiamento climatico. È solo grazie al lavoro degli studiosi del clima che possiamo comprendere gli scenari che ci aspettano, i feedback potenziali fra i vari ecosistemi, quantificando i rischi estremi e i costi dell’inazione – come ha mostrato brillantemente l’economista Martin Weitzman – e prevedendo le regioni e i settori produttivi maggiormente esposti come ad esempio l’agricoltura che in Italia e in molti altri Paesi verrà investita da eventi metereologici sempre più difficili da gestire.

Come per la crisi ecologica, la crisi dell’area dell’euro ha rivelato l’esistenza di molteplici circoli viziosi precedentemente non ben compresi, ad esempio quello fra debiti sovrani, banche e imprese. La crisi ha inoltre messo in discussione ciò che sapevamo su alcune relazioni di fondo nell’economia, come quella fra disoccupazione e inflazione. La ricerca e l’analisi accurata dei dati dell’economia dell’eurozona, il lavoro degli economisti e degli statistici sono da decenni il pilastro su cui poggiano le valutazioni della BCE. In più occasioni queste attività hanno avuto un’importanza cruciale nel contestualizzare correttamente il problema e nel fornire le coordinate per una risposta efficace.

Un esempio in questo senso è l’inedito insieme di misure disegnato nel 2014-15, con l’introduzione di tassi di interesse negativi e l’acquisto di titoli pubblici, per scongiurare l’incipiente deriva verso la deflazione. Allora molti policy maker, me incluso, si interrogavano su come queste misure potessero funzionare nell’area dell’euro. I tassi di interesse non erano mai stati sospinti nella zona negativa in una grande economia; non conoscevamo gli effetti degli acquisti di titoli pubblici in un’economia basata sulle banche come l’area dell’euro. Entravamo in terra incognita, dove per definizione gli effetti delle nostre azioni non potevano essere previsti con certezza.

Le decisioni furono tuttavia guidate dai riscontri di cui disponevamo e da una valutazione complessiva dei rischi e delle opzioni utilizzabili per rispondervi. L’evidenza era allora univoca: senza ricorrere a misure non convenzionali la BCE non sarebbe stata in grado di adempiere al suo mandato di tutelare la stabilità dei prezzi. Le analisi suggerivano che il limite effettivo dei tassi di interesse era inferiore a quanto precedentemente ritenuto e che gli acquisti di titoli pubblici potevano avere un impatto rilevante tramite le banche perché ne avrebbero ridotto i costi di finanziamento e le avrebbero incentivate a far credito all’economia reale piuttosto che al settore pubblico.

Le più recenti stime lo hanno confermato. Esse mostrano che le misure introdotte hanno avuto un impatto sostanziale, contribuendo per 2,6 punti percentuali alla crescita del PIL nell’area dell’euro fra il 2015 e il 2018 e per 1,3 punti percentuali all’inflazione. Almeno un quinto dell’impatto complessivo sulla crescita nell’anno di picco, il 2017, è attribuibile ai tassi negativi, mentre gli acquisti di titoli contribuiscono per la maggior parte della quota restante.

Nelle nostre valutazioni tenevamo conto anche dei possibili effetti collaterali. Tutte le politiche monetarie ne producono, anche in tempi normali, incidendo su alcune categorie più che su altre. Ma come banca centrale dell’intera area la BCE deve valutare il quadro complessivo e verificare se i benefici netti delle misure intraprese superano i costi potenziali. I dati suggerivano – e continuano a suggerire – che così in effetti era, una conclusione condivisa da tutta la comunità del central banking, come mostra un recente rapporto della Banca dei regolamenti internazionali[6]. Tuttavia, come sempre per il policy making basato sull’evidenza empirica, le conclusioni che si raggiungono devono essere aggiornate e riviste, quando necessario.

È in quest’ottica che la BCE ha recentemente corretto il tiro, in materia di tassi negativi, introducendo un sistema a due livelli per la remunerazione delle riserve in eccesso. In altre circostanze, sempre un’accurata analisi fattuale ha mostrato come la preoccupazione di un peggioramento della diseguaglianza a seguito delle politiche non convenzionali fosse infondata, rafforzando la determinazione della BCE a proseguire nella stessa direzione.

Questo non significa che gli esperti – inclusi quelli della BCE – possano contare su una conoscenza perfetta. Le teorie non spiegano necessariamente tutto e le previsioni che ne discendono possono rivelarsi errate. La crisi ha mostrato che l’opinione prevalente nella professione sbagliava nel ritenere che i mercati finanziari potessero autoregolarsi. In effetti, lo ha spiegato Robert Shiller, non solo gli agenti operanti sul mercato ma anche gli esperti possono cadere vittima di “epidemie narrative” con effetti negativi sull’economia.

Contrastare questi fenomeni non significa rifiutare il valore della conoscenza. Gli esperti devono continuamente mettere in discussione le loro ipotesi, riesaminare le evidenze, e saper ascoltare la voce di chi non è d’accordo. Per i policy maker i dissensi sono come uno specchio con cui osservare le proprie azioni e costituiscono uno strumento con cui spezzare la forza delle narrative dominanti. Ciò è essenziale per l’avanzamento della conoscenza e rappresenta il fondamento del progresso scientifico.

Nulla può sostituire per chi deve prendere decisioni il ruolo di un’analisi rigorosa, accompagnata dell’esperienza.

 

Il coraggio

 

La conoscenza non è però tutto. Una volta stabilito nella misura del possibile come stanno i fatti arriva il momento della decisione. Anche nel caso della politica economica, le azioni hanno sempre effetti collaterali e conseguenze indesiderate. Vi sono situazioni in cui anche le migliori analisi non danno quella certezza che rende una decisione facile: la tentazione di non decidere è frequente. È in questo momento che il policy maker deve far leva sul coraggio.

Anche il non agire rappresenta infatti una decisione. Quando l’inazione compromette il mandato affidato al policy maker dai legislatori, decidere di non agire significa fallire. In molti casi i policy maker devono agire consapevoli che le conseguenze delle loro decisioni sono incerte , ma convinti che l’inazione porterebbe a conseguenze peggiori e al tradimento del loro mandato.

Spesso, durante la crisi dell’ultimo decennio la necessità di prendere decisioni anche cruciali si è scontrata con il timore che non tutte le possibili complicazioni fossero state considerate, con l’opposizione da parte di interessi costituiti, con i dubbi sulla legittimità ad agire.

L’inazione trova la sua radice nella convinzione che l’esistente non abbia bisogno di modifiche, anche quando tutta l’evidenza e l’analisi indicano la necessità di agire. Questo autocompiacimento acritico si avvale delle giustificazioni più diverse e generalmente non verificate nella realtà. La costituzione del Meccanismo europeo di stabilità (ESM), il varo della vigilanza bancaria europea, la creazione del Fondo di risoluzione unico sono stati tutti ostacolati adducendo problemi di azzardo morale che sarebbero discesi dalla riallocazione a livello europeo di alcune responsabilità nazionali. In retrospettiva, ai governi dell’area dell’euro non è mancato il coraggio; hanno saputo compiere i passi giusti nei momenti cruciali. L’unione monetaria è ora più forte e gran parte delle paventate complicazioni si sono rivelate infondate.

Il punto importante, in questa sede non è che queste decisioni si siano rivelate appropriate ex post; conta invece che, quando la necessità di agire è stata documentata e motivata è stato trovato il coraggio di decidere, senza esitazioni, per il bene dell’Unione economica e monetaria.

Il secondo ostacolo incontrato dai riformatori è l’opposizione da parte degli interessi costituiti. Fu infatti immediatamente chiaro che alcuni governi avrebbero dovuto varare un programma di riforme strutturali per migliorare le prospettive di crescita e ridurre la disoccupazione. Le riforme strutturali non possono beneficiare tutti: accanto ai vincitori ci sono i perdenti che si oppongono alla loro realizzazione.

Eppure quei governi hanno saputo distinguere gli interessi costituiti dall’interesse pubblico, guardando alla larga maggioranza che si sarebbe giovata delle riforme. I risultati positivi sono oggi sotto gli occhi di tutti. Con riferimento specifico al mercato del lavoro, l’evidenza mostra chiaramente come le riforme realizzate dopo la crisi abbiano ridotto sia la componente strutturale della disoccupazione che quella ciclica. Esse hanno inoltre accresciuto la reattività dell’occupazione alla crescita, contribuendo per questa via all’aumento di 11 milioni di occupati registrato nell’area dell’euro dalla metà del 2013, quando si avviò la ripresa[9].

Il terzo ostacolo sono i dubbi sulla legittimità ad agire. Anche la BCE ha incontrato quest’ostacolo con riferimento a molte delle sue misure non convenzionali, non da ultimo le operazioni monetarie definitive (OMT) introdotte nell’estate del 2012. Alcuni vi si opposero con decisione, perché a loro parere il compito di stabilizzare l’area dell’euro spettava ai politici, non alla banca centrale che così facendo avrebbe invaso il campo della politica fiscale.

Da un lato, vi era il timore che l’impegno ad acquistare illimitatamente titoli pubblici avrebbe potuto rendere incerto il confine fra la politica monetaria e le altre politiche. Ma in questo caso si trattava più di una questione di disegno che di principio. Era necessario mettere in campo garanzie e limiti che contenessero i rischi, obiettivo che realizzammo, fra l’altro, con la condizione che fosse attivato simultaneamente un programma da parte del Fondo europeo di stabilità (ESM) in grado di garantire l’attuazione di politiche di bilancio adeguate per poter accedere all’OMT. La Corte di giustizia europea confermò che il disegno delle operazioni era pienamente conforme al mandato della BCE.

D’altro canto emergeva il rischio concreto che se non avessimo agito con decisione l’area dell’euro sarebbe stata investita da una catastrofica destabilizzazione, con profondi effetti deflattivi. Nel luglio del 2012 gli spread dei titoli pubblici a 10 anni rispetto all’equivalente titolo tedesco erano pari rispettivamente a 500 punti base in Italia e a 600 in Spagna; valori ancora più elevati si registravano per la Grecia, il Portogallo e l’Irlanda. Il costo di protezione dalla deflazione era cresciuto da 184 punti base nel gennaio del 2012 a 276 in luglio.

Il coraggio necessario per agire venne dalla convinzione che i rischi incombenti sarebbero stati assai maggiori se non avessimo fatto nulla. Saremmo in questo caso semplicemente venuti meno al nostro mandato e avremmo potenzialmente messo a rischio l’integrità della moneta che avevamo il compito di preservare. Ciò rendeva inevitabile la decisione presa; era l’unica possibile per un policy maker responsabile.

Le operazioni monetarie definitive OMT non sono state mai attivate ma l’effetto del nostro impegno a fare tutto ciò che fosse necessario per preservare l’euro fu potente, equivalente a quello di un programma di acquisto di titoli su larga scala. Gli spread nei paesi esposti caddero in media di 400 punti base nei successivi due anni. L’impatto macroeconomico dell’annuncio del programma fu di entità analoga a quella di altri programmi di acquisto di attività finanziarie che vennero attuati in altri Paesi. Ricerche condotte nella BCE mostrano che gli effetti sul PIL e sui prezzi sono stati sostanzialmente in linea con quelli prodotti dall’espansione monetaria (QE) attuata negli Stati Uniti e nel Regno Unito.

 

L’umiltà

 

Essa discende dalla consapevolezza che il potere e la responsabilità del servitore pubblico non sono illimitati ma derivano dal mandato conferito che guida le sue decisioni e pone limiti alla sua azione. I funzionari pubblici, le banche centrali in particolare, ricevono un mandato politico, nel senso che esso è il frutto di un processo politico. I membri del Comitato esecutivo della BCE sono nominati dal Consiglio degli Stati – il Consiglio europeo – e sugli stessi esprimono un parere i rappresentanti dei cittadini: il Parlamento europeo. Sono vincolati da un obiettivo, la stabilità dei prezzi, che in Europa ha valore costituzionale – è iscritto nel Trattato. Altrove è definito dalla legge, ma scaturisce sempre da un processo democratico. Essi devono dunque rispondere ai parlamenti della loro azione.

Un mandato politico è essenziale affinché l’indipendenza della banca centrale sia compatibile con la democrazia. Le banche centrali sono potenti e indipendenti ma non sono elette dai cittadini: è un assetto accettabile solo se esse agiscono sulla base di un mandato chiaramente definito dato da coloro che sono eletti e a cui devono pubblicamente rispondere. Il Presidente della BCE viene ascoltato almeno ogni tre mesi dal Parlamento europeo, e nel mio caso ciò ha comportato quaranta audizioni in otto anni; inoltre sono stato convocato dalle commissioni parlamentari in diversi Paesi per spiegare le nostre azioni e per rispondere alle loro domande.

La natura politica del nostro mandato ha alcune implicazioni essenziali: non abbiamo la libertà di decidere se dobbiamo fare ciò che è necessario fare per assolvere il nostro mandato. È nostro dovere farlo. Rassegnarsi a venirvi meno non è un’opzione accettabile se abbiamo gli strumenti per adempiere alle nostre responsabilità. Al contempo, il mandato implica l’obbligo permanente di agire rigorosamente nei limiti della legge. Nessun policy maker responsabile può mai concepire di agire ultra vires.

Tutta l’azione della BCE durante la crisi è stata guidata da questo principio. Un esempio particolarmente significativo è la situazione che dovemmo affrontare in Grecia alla metà del 2015.

Fronteggiavamo allora due posizioni diametralmente opposte. La prima sosteneva che la BCE avrebbe dovuto interrompere i finanziamenti alla Grecia; ciò avrebbe determinato il collasso completo dell’economia greca e la probabile uscita del Paese dall’euro. La seconda riteneva che dovessimo in ogni caso fornire liquidità illimitata e incondizionata al governo e all’economia della Grecia. Nel primo caso la BCE avrebbe innescato un processo eminentemente politico di enorme portata con possibili ricadute sul mandato stesso della BCE, una decisione comunque di competenza delle autorità politiche, espressione della volontà dei cittadini. Nel secondo, avremmo potenzialmente avviato un finanziamento monetario o sostenuto banche senza adeguato collaterale, violando così il Trattato.

Seguimmo un sentiero che rispondeva ai doveri del mandato, rimanendo rigorosamente entro i limiti della legge. Il sostegno dato alla Grecia fu sostanziale: al suo picco, la somma dei prestiti erogati dalla BCE e dalla Banca di Grecia alle banche del Paese raggiunse 127 miliardi, corrispondenti al 71% del PIL. Ma i finanziamenti non furono mai né incondizionati né illimitati. L’aderenza a un programma di risanamento concordato con l’Eurogruppo garantiva la qualità del collaterale, i titoli di Stato dati dalle banche greche come garanzia per il loro finanziamento. Inoltre varie clausole evitavano qualsiasi finanziamento monetario del bilancio pubblico. La BCE si mantenne così entro i limiti del suo mandato.

In ultima analisi la nostra scelta si è rivelata giusta, sia per la Grecia che per l’Europa, anche se il prezzo per i cittadini greci è stato alto. Grazie alla solidarietà dell’Europa, al coraggio e all’impegno dei successivi governi greci si è trovato un percorso per uscire dalla crisi.

Siamo sempre stati consapevoli della entità e dei limiti dei nostri obblighi legali. Per questo non ci hanno preoccupato i ricorsi contro alcune nostre decisioni presentati alla Corte di giustizia europea. Anzi, ne siamo stati lieti perché ciò ha consentito alla più alta autorità giuridica europea di confermare la piena legittimità delle nostre azioni e di chiarire quali ne fossero i limiti. La Corte non soltanto affermò che gli acquisti di attività sono uno strumento legittimo di politica monetaria nell’area dell’euro, ma rilevò anche l’ampia discrezionalità della BCE nel ricorrere a tutti i suoi strumenti secondo necessità e in maniera proporzionata per conseguire il suo obiettivo. Ho descritto la nostra posizione con l’imperativo di “fare tutto ciò che dobbiamo entro il nostro mandato e per adempiere al nostro mandato”.

Ma il riconoscimento dell’estensione e dei limiti del nostro mandato comporta l’obbligo di parlare chiaramente quando necessario e di spiegare le opzioni disponibili. Oggi ciò è necessario.

Descrissi una volta l’indipendenza della banca centrale come indipendenza nell’interdipendenza. Intendevo con ciò sottolineare che il contesto istituzionale nel quale operiamo influenza la velocità con la quale raggiungiamo il nostro obiettivo e l’entità degli effetti collaterali delle nostre azioni. È doveroso esprimere con chiarezza quando altre politiche potrebbero rendere il nostro compito più agevole e rapido.

L’indipendenza della banca centrale non è un fine in se stesso. Il suo scopo risiede nel garantire la credibilità della banca centrale nel perseguimento della stabilità dei prezzi e nello scongiurare che la politica monetaria sia succube della politica fiscale; essa assicura così una “dominanza monetaria”. L’indipendenza della banca centrale non impedisce perciò un dialogo con il governo quando è evidente che esso consentirebbe un più rapido ritorno alla stabilità dei prezzi. Pone soltanto dei limiti ai suoi eventuali effetti. In particolare un coordinamento delle politiche, quando necessario, deve contribuire alla stabilità monetaria e non può ostacolarla.

Per questa ragione sin dal 2014 abbiamo rivolto sempre maggiore attenzione al mix di politica macroeconomica nell’area dell’euro, vale a dire alla combinazione dei contributi forniti dalle politiche monetaria e fiscale al sostegno dell’economia. Dove la politica fiscale ha svolto un ruolo più rilevante dopo la crisi, il ritorno alla stabilità dei prezzi è stato più rapido. Negli Stati Uniti, ad esempio, dal 2009 al 2018 il disavanzo primario strutturale è stato in media pari al 3,6% del PIL potenziale, nell’area dell’euro si è registrato un avanzo pari allo 0,5%. È una delle ragioni per cui i tassi di interesse hanno potuto risalire più velocemente negli Stati Uniti, mentre nell’area dell’euro sono bassi o negativi da lungo tempo. Una politica fiscale più attiva nell’area dell’euro permetterebbe quindi di modificare più celermente quelle politiche dei cui effetti negativi su alcune categorie di cittadini e di intermediari siamo ben consapevoli.

È sempre avendo in mente “indipendenza nell’interdipendenza” che, durante il mio mandato, la BCE ha continuamente auspicato il varo di ulteriori riforme istituzionali nell’area dell’euro. Abbiamo accolto con favore i progressi realizzati ed esortato governi e parlamenti a proseguire il loro impegno in questa direzione. Lo abbiamo fatto perché siamo convinti che solo in questo modo la nostra unione monetaria potrà divenire più robusta e essere più capace di rispondere alle attese che ne hanno motivato la creazione.

 

 

 

 

Conclusioni

Come ho detto nell’introduzione, mi auguro che molti studenti di questa università decidano un giorno di mettere le loro capacità al servizio pubblico. Se deciderete di farlo, non dubito che incontrerete ostacoli notevoli, come succede a tutti i policy maker. Ci saranno errori e ritirate perché il mondo è complesso. Spero però che vi possa essere di conforto il fatto che nella storia le decisioni fondate sulla conoscenza, sul coraggio e sull’umiltà hanno sempre dimostrato la loro qualità.

La creazione dell’Unione europea, l’introduzione dell’euro e l’attività della BCE hanno incontrato molti ostacoli e dovuto fronteggiare molte critiche. Hanno dimostrato nondimeno il loro valore; oggi sono coloro che dubitavano a essere messi in discussione.

Ciò riflette lo sviluppo normale delle unioni monetarie, che è lento, non lineare, accidentato. Gli Stati Uniti, ad esempio, non ebbero una banca centrale per più di 130 anni dopo la loro fondazione; il bilancio federale ha assunto un vero ruolo solo negli anni Trenta dello scorso secolo. Oggi pochi penserebbero di ritornare indietro.

È essenziale per lo sviluppo di un’unione monetaria che i suoi cittadini credano nell’unione e la assumano comunque, anche criticamente, come riferimento piuttosto che considerare tutti i problemi guardando all’orizzonte del loro punto di vista particolare. Mi sembra che le ultime elezioni per il Parlamento europeo, forse le prime incentrate su temi prevalentemente europei, lo abbiano confermato. Anche chi mirava a rallentare l’integrazione europea non ha contestato la legittimità delle istituzioni dell’Unione, pur criticandole anche duramente. I parlamentari eletti sono risultati in maggioranza a favore dell’Europa.

Per questa ragione sono ottimista sul futuro dell’Europa. Penso che col tempo essere parte dell’UE e dell’Unione monetaria sia diventato normale per gran parte dei cittadini. L’euro è più popolare che mai; il sostegno all’UE tocca i valori più alti registrati dall’inizio della crisi. Nei dibattiti sul futuro dell’Europa si discute sempre meno se la sua esistenza abbia senso e assai di più sulla via migliore per avanzare. Su queste basi la nostra Unione può durare e prosperare.

 

* testo integrale dell’intervento di Mario Draghi, presidente della Bce, in occasione del conferimento della Laura honoris causa in Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Settembre 2019

 

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