Competere è stato uno dei verbi più pervasivi e tossici del Novecento, portato della cultura del capitalismo neoliberista, capace di torcere – fino a capovolgerlo – il significato etimologico della parola, che da “andare insieme”, “convergere”, nel linguaggio comune e nell’immaginario collettivo, si è trasformato in una sorta di concorrere per superare l’altro del quale si diventa rivali. La competizione, tuttavia, malgrado possa dare un positivo impulso all’innovazione sociale, politica ed economica, a causa dell’aggressività crescente del capitalismo prima nella sua versione “turbo” degli anni novanta, quindi, più recentemente, con l’avvento del digitale e delle piattaforme, nella versione “della sorveglianza”, continua a mostrare il peggiore volto di sé, diventando un fattore distruttivo della relazione tra le persone.
Ne hanno fatto le spese gli esseri umani meno attrezzati e protetti, visto l’esponenziale lievitare delle disuguaglianze, a fronte peraltro dell’aumento delle opportunità e della ricchezza sul pianeta. Ne ha risentito pesantemente l’ecosistema, particolarmente in quella parte di mondo beffardamente tagliata fuori dal cosiddetto sviluppo, a causa dell’impennata sconsiderata dei consumi individuali e degli standard di benessere in Occidente. Ne paga uno scotto tragico la pace, a fronte di un’escalation di guerre a diverse latitudini, locali e sovranazionali, secondo una declinazione, sullo scacchiere geopolitico mondiale, del potere come dominio, volto ad allargare da parte di alcuni paesi le proprie aree di egemonia culturale, politica ed economica.
Ma è un’epoca che tende a chiudersi, non foss’altro che per l’irreversibilità del cambiamento climatico: nell’arco di pochi decenni, infatti, è molto alto il rischio di estinzione della specie umana. Un sistema, guidato dall’economia e dalla finanza, è fallito, e le forme di vita che abbiamo conosciuto vanno ripensate radicalmente. Come? Tornando all’originario. Sostituendo il verbo “competere” con un altro: “cooperare”.
Si tratta di riscoprire una verità fisiologica, perché come ci dicono le neuroscienze, in particolare con la scoperta dei neuroni specchio, nasciamo cooperativi e intersoggettivi e grazie all’empatia di cui siamo dotati riusciamo a metterci nei panni dell’altro. Non è possibile dunque concepire sè stessi, e diventare esseri umani, se non nella relazione con l’altro. Come ricordano Vittorio Gallese e Ugo Morelli, “sono proprio la relazione e l’intersoggettività a fondare i processi di individuazione mediante i quali ognuno di noi diviene quello che è (..). Da tanti “io” che pensavamo di essere ci accorgiamo di derivare dai “noi” di cui siamo parte [V. Gallese, U. Morelli, Cosa significa esseri umani?, Raffaello Cortina Editore, 2024]
Ripartire da questi assunti vuol dire cambiare ottica sulla nostra esistenza soggettiva e collettiva, immaginando che ogni attività dell’uomo può attivare un processo di umanizzazione solo se vissuta nella relazione con l’altro e con l’ambiente. Tra queste attività emerge il lavoro che per eccellenza rappresenta uno spazio noicentrico, ma che paradossalmente è diventato il teatro della competizione e della crisi del legame sociale.
A ciò ha contributo il linguaggio economicista e neoliberista, che ha prodotto nel tempo una serie di riduzionismi, diminuendo il lavoro a occupazione, impiego, adattabilità, flessibilità, meritocrazia, quando non a merce. La crisi del lavoro sta innanzitutto nel modo di raccontarlo.
La buona notizia di questo periodo è che soprattutto le giovani generazioni tendono a mettere in discussione le culture del lavoro del Novecento, rigettando ogni visione ideologica, mostrando una particolare selettività nei confronti di offerte che non contemplano relazioni positive, trasparenza dell’ingaggio professionale, in merito a orari e competenze, organizzazioni accoglienti, qualità della vita e possibilità di conciliazione con altri spazi esistenziali. Come direbbe Alfred Adler: come esseri umani viviamo nel regno dei significati.
La notizia cattiva è relativa alle situazioni nelle quali i giovani non trovano condizioni di lavoro soddisfacenti e sono costretti a emigrare all’estero verso approdi più interessanti, sottraendo cultura, energie, competenze, conoscenze al nostro paese e alle imprese stesse.
Il lavoro non è un destino ma un luogo educativo, di crescita personale e relazionale, di espressione e realizzazione di sé, di ricerca del riconoscimento dell’altro attorno a un’opera: non è l’uomo che fa il lavoro, ci ricorda il filosofo Carlo Sini, ma è il lavoro che fa gli esseri umani.
Proprio in questa prospettiva i nostri padri costituenti hanno inteso fondare sul lavoro la Repubblica, intendendolo come condizione ed esito del legame sociale. A rileggere contestualmente l’art.1 e l’art. 2 della nostra Carta costituzionale, si comprende tutta la portata antropologica e politica conferita al lavoro, immaginato come fattore di crescita individuale e riconoscimento reciproco nella dimensione relazionale delle organizzazioni e formazioni sociali, e possibilità di partecipazione cooperativa nella costruzione della casa comune. In questa chiave, la rappresentanza collettiva del lavoro non può essere pensata come “fabbrica di diritti”, ma come esito virtuoso della relazione e dell’obbligazione (reciproca) verso l’altro, assumendo quale compito primario la cura della sensibilità del noi e la custodia dello spazio noicentrico, condizione decisiva per la rappresentatività.
La relazione è l’infrastruttura sociale della rappresentanza collettiva, che non può che prendere le mosse tuttavia dal riconoscimento delle soggettività plurali, senza fare parti uguali tra disuguali. Tenere insieme le differenze soggettive in un progetto di rappresentanza collettiva è la sfida principale per il sindacato del XXI secolo, che accanto e insieme all’attività contrattuale deve imbastire e far vivere una conversazione educativa che rimandi costantemente al senso e ai significati condivisi della vita organizzativa evocando, pur nella legittimazione delle differenze, una comunità di destino, come la chiamerebbe Edgar Morin.
Il rischio di un exit verso la vertenzialità individuale e senza sindacato esiste, se è vero come avvertono alcuni che il diritto del lavoro si sta reindirizzando sul terreno civilistico; ciò impoverirebbe l’azione politica del sindacato, la trasformazione partecipata dei contesti organizzativi e la democrazia economica. Per queste importanti ragioni, se si vuole dare efficacia all’attività contrattuale bisogna curare l’ascolto delle persone, mettendosi nei loro panni, e sviluppare un lavoro “interno” di negoziazione tra le differenti soggettività e culture del lavoro, componendole nella prospettiva del bene vicendevole e rendendo generativo il conflitto intergenerazionale emergente.
La richiesta di benessere e di qualità di vita e lavoro di cui sono portatrici le giovani generazioni rappresenta una grande opportunità ed un’energia simbolica importante per trasfigurare positivamente le organizzazioni riconoscendole come sistemi viventi. Ciò tuttavia richiede di arricchire i codici di comunicazione per far maturare quella corresponsabilità necessaria per gestire insieme la trasformazione sociale. Ma ciò non può che essere l’esito di un processo educativo e dell’attivazione dei diversi codici affettivi di cui siamo portatori capace di accrescere la “sintonizzazione emotiva” tra le persone: codice materno (accoglienza, cura, affettività), codice paterno (spinta all’autonomia, responsabilità, rispetto delle regole), codice fraterno (accettazione della differenza, condivisione).
E’ il tempo del sindacato educatore, capace di portare buoni frutti contrattuali anche aiutando le persone che rappresenta a “tirare fuori” il meglio di sé, a comprendere la complessità delle questioni e a disporsi alla cooperazione con gli altri, come condizione per un benessere sociale, oltre che economico, sostenibile e duraturo. La relazione ha un valore in sé, ma oggi nel mondo della rappresentanza collettiva ha anche un forte significato politico.
“L’amore è l’emozione che fonda il sociale”, scriveva Humberto Maturana, fondatore con Francisco Varela della Scuola di Santiago di Scienze cognitive, e che consente agli esseri umani di riscoprire la loro condizione originaria, che è quella del cooperare. Ma ciò è possibile solo prendendo parte a quella “danza emozionale” che si crea nell’incontro dei corpi, delle differenze, che trova nutrimento nel conflitto e nella negoziazione, se si vuole trasformare un’ordinaria vita organizzativa, in un’esperienza di con-senso, di senso condiviso. Abbiamo un’unica possibilità: praticare quell’atletica affettiva – come la definiva, prescrivendola ai suoi attori in teatro, il drammaturgo Antonin Artaud – che allude e rinvia a un rigoroso e impegnativo “lavoro su sé stessi”, ossia all’educazione sentimentale, perché, come avrebbe detto Luigi Pagliarani, “in materia di amare siamo semi-analfabeti”.
*Responsabile nazionale della formazione della FIM CISL