L’emergenza COVID-19 ha completamente alterato la vita dell’infanzia e dell’adolescenza: l’ “io resto a casa” prolungato nel tempo ha costretto a rimodulare i tempi e gli spazi di vita stravolgendo la socializzazione ma anche la scuola, ripensata solo in termini di didattica a distanza, che ha molti limiti e ‘perde’ tanti studenti sprovvisti di tecnologia adeguata.
COVID-19 potrebbe essere l’occasione invece per ripensare il nostro modello di scuola, che è figlio di una costruzione storica. La scuola come noi la conosciamo si è configurata, all’interno dei sistemi scolastici sorti in Europa dalla seconda metà del Settecento, mediante un metodo d’insegnamento simultaneo che permetteva a tutti di imparare collettivamente dalla voce di un unico maestro. L’aula scolastica era costituita da file di banchi posti di fronte alla cattedra e da una lavagna nera su cui comparivano lettere e numeri da imparare e trascrivere sui quaderni. Tale modello si è realizzato in prevalenza al chiuso, strappando volutamente i bambini dalla strada per trasformarli in scolari di una Nazione. L’obiettivo era l’alfabetizzazione ‘rapida’ del popolo ma anche il suo disciplinamento sociale, meglio realizzabile in un ambiente controllato, visibile a ogni istante, quindi meglio indoor!
Pregi e limiti non mancavano: organizzazione chiara, funzione docente precisa, spazi definiti, tempi scanditi, controllo dei corpi, ma anche perdita degli alunni dei ceti popolari, i tanti ‘Gianni’ di Don Milani, considerati lenti, incapaci di restare nelle scuole, come bene indicava un maestro elementare dei primi del Novecento, Francesco Fratus
la fredda e arida istruzione prevale; esercizi sterili di memoria, precoci fatiche della mente che producono il tedio, la noia, l’uggia allo studio. Entrano i fanciulli a sei anni nella scuola, ed ecco che subito devono prendere la penna e chinarsi sul quaderno. E se un giorno hanno imparato una lettera dell’alfabeto, un altro giorno ne devono imparare un’altra, già fissata da criteri pedagogici antiquati; e così si continua, fino a che le povere creature si ammalano o reagiscono. Allora gli alunni vengono trattati da pigri e da insubordinati, e si rimproverano, si minacciano, si castigano. Si castigano perché sono deboli, perché sono fragili, perché sono fanciulli (Fratus, La scuola all’aperto, 1914, p. 22).
Fratus era uno dei tanti maestri che partecipava alle battaglie del rinnovamento pedagogico e scolastico del suo tempo (Montessori ad esempio) per i contenuti, metodi e organizzazione della scuola, alla ricerca di nuovi modelli e di una nuova considerazione del rapporto tra educazione e natura che, attingendo dai classici, riscopriva la necessità uscire all’aperto, esplorare la città e il territorio, la campagna e il mondo naturale, maturando in questo modo un apprendimento più autentico e un nuovo rapporto tra pari e tra alunno e docente. Non c’erano solo ragioni pedagogiche, ma anche ragioni igieniche: molti alunni poveri, gracili, pretubercolotici non avevano successo nella scuola comune, occorreva trovare soluzioni diverse. Medici, igienisti, politici, amministratori, maestri e maestre proposero allora un nuovo modo di fare scuola: non più al chiuso, ma all’aperto, outdoor. Per farlo furono trovate soluzioni nuove: padiglioni di legno o muratura, aule aperte su tre lati e coperte da tettoia, posti in spazi verdi come giardini o colline, fuori dalla città e immersi in ambienti salubri. Controllo quotidiano dell’igiene, elioterapia, ginnastica medica e naturale ‘sugli alberi’ accompagnavano nuove pratiche educative. I contenuti dei programmi didattici ufficiali erano i medesimi, ma rivisti a livello metodologico: aritmetica, scienze, lettura, scrittura, disegno, musica ecc. erano svolte all’aperto, con un apprendimento centrato sull’esperienza, dalla pratica alla teoria. L’outdoor era uno spazio in cui ripensare il modo di insegnare e apprendere: uno spazio nuovo che implicava tempi più distesi, più lenti di quelli attuali, ma a misura di bambino, nell’arco di una giornata di otto ore. In molte realtà di scuole all’aperto italiane degli anni Venti, nuove erano le forme di socializzazione e condivisione delle scoperte, non autoritario il rapporto tra studenti e docenti, democratica la gestione della scuola, forte la motivazione ad apprendere. La storia restituisce molte esperienze di felicità e gioia di queste scuole all’aperto, alcune sorte addirittura durante un’altra emergenza, quella della Grande Guerra. Ancor prima del COVID-19 molte esperienze alternative di scuola, nel bosco e all’aperto, fondate su una didattica esperienziale, sono nate all’estero e in Italia ed è presente la Rete nazionale delle scuole all’aperto che ha sede a Bologna presso la Fondazione Villa Ghigi, da anni attiva sulle tematiche dell’educazione ambientale e outdoor. Attualmente il web impazza alla ricerca di forme di apertura degli spazi educativi per i bambini e adolescenti intrappolati in casa dal COVID-19. Caute riaperture di centri estivi o spazi educativi sono possibili, ma richiedono a mio avviso prudenza, nel totale rispetto delle distanze e dell’igiene. Del resto, le immagini delle scuole di Taiwan che circolano sul web, in cui alunni con mascherina e guanti, in banchi monoposto circondati da plexiglass, che impedisce fisicamente ogni contatto umano, lasciano abbastanza perplessi. Può essere questa la nuova scuola da restituire ai nostri bambini dopo l’isolamento vissuto nei mesi di COVID-19?
Forse l’esperienza storica delle scuole all’aperto dai primi del Novecento può costituire un punto di partenza per una rivoluzione del concetto stesso di scuola ‘tradizionale’, come spazio ristretto di un’aula che raccoglie 25-28 alunni che spesso presenta spazi esterni inutilizzati e sconosciuti nelle loro potenzialità didattiche. La storia delle scuole all’aperto, così, ci offre la testimonianza che un’altra scuola è stata possibile e che proprio dall’emergenza si può cogliere l’opportunità di ripartire dal ‘passato’ per rilanciare lo sguardo verso un nuovo diverso futuro.
*Docente di storia dell’educazione e storia della scuola, Università di Bologna