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Correggere la rotta non è poi così difficile

Davvero vogliamo camminare allegramente verso la fame?

Sembrerebbe di sì, leggendo i dati pubblicati dal WWF il 16 ottobre 2021 nella Giornata Mondiale dell’Alimentazione; con questi dati si possono mettere in relazione gli eventi atmosferici e climatici con le quantità delle produzioni agricole e zootecniche. Leggiamo:

  1. il settore agricolo/zootecnico contribuisce per il 37% all’emissione del gas serra (oltre al suo fondamentale contributo all’inquinamento dei territori e delle falde);
  2. nel 2020 abbiamo avuto il +65% in nubifragi, alluvioni, trombe d’aria, grandinate, ondate di calore, ecc.; 
  3. sempre nel 2020 è stato stimato il -95% nella produzione di miele, -80% nella produzione di olio (in alcune regioni del centro nord), -27% (media nazionale) nelle produzioni frutticole, -10% nella produzione del riso, -70% per le nocciole nel Lazio, -25% per il vino in   Toscana, -20% in Lombardia, -18% in Umbria e Abbruzzo, -15% in Emilia Romagna/Sardegna/Molise; a questo lungo elenco di segni meno fanno eccezione Sicilia e Campania che hanno aumentato le produzioni. La raccolta e stoccaggio dei pomodori -20% per il caldo che ha anticipato e concentrato la produzione. 

Il risultato che balza agli occhi è che il settore agricolo-zootecnico usa soldi e lavoro per produrre, oltre alle derrate alimentari, più di un terzo dell’inquinamento atmosferico che si affianca a quelli direttamente immessi sui territori e con lo smaltimento dei rifiuti. Il risultato è che con il nostro modello insostenibile, il settore, per realizzare la sua vocazione (produrre energia alimentare), contribuisce in modo significativo ai cambiamenti climatici, mina con l’inquinamento la salute di tutti e del pianeta, perde quote produttive quantitativamente significative. 

È legittima una domanda: com’è possibile che sia lo stesso sistema di produzione agricolo-zootecnica a impegnarsi così alacremente per danneggiarsi? I dati però sono chiari: i danni ecologici che il sistema contribuisce a produrre si ripercuotono direttamente sui valori quantitativi e qualitativi delle sue produzioni. 

Partendo dalla sua compartecipazione all’inquinamento e ai cambiamenti climatici, e snocciolando le ripercussioni abbiamo: costi di produzione in crescente aumento per la necessità d’uso sia degli accessori salva-produzione, sia dei prodotti chimici altamente inquinanti per l’atmosfera e per gli ecosistemi, scarsa qualità energetica e organolettica degli alimenti, costi al consumo sempre più alti per far quadrare i bilanci aziendali colpiti dalle perdite quantitative, ecc. L’elenco dei danni è lungo e facilmente intuibile sia per la stretta correlazione tra territorio e agricoltura-zootecnia, sia per il valore sistemico ed ecosistemico che lega gli ambienti e gli equilibri naturali ai suoi luoghi di esercizio. Credo, per parafrasare, che in agricoltura e zootecnia si stia innescando una vera diseconomia circolare, capace di incidere negativamente sugli ecosistemi, sulla nostra salute e su quella del pianeta, sulla qualità delle derrate, sui consumi di energia, acqua ecc.; come se non bastasse, aumenta gli sprechi e i residui non riutilizzando nulla in termini di ritorno energetico e di uso delle biomasse di scarto.

Sembra proprio che stiano segando il ramo sul quale sono seduti. Se a questo aggiungiamo gli sprechi alimentari dei consumatori e i relativi costi di smaltimento, non dobbiamo neanche concorrere al guinness dei primati negativi: è stato già vinto.

Anche le città e le industrie inquinano, ma almeno chi partecipa a produrre e gestire i sistemi inquinanti (traffico, riscaldamento, impermeabilizzazione del suolo ecc.) guadagna tanto che solo i cittadini ci rimettono per tempo, salute e costi. Ma qui, oltre a noi poveri cittadini consumatori, ci rimettono gli stessi imprenditori (che comunque chiedono indennizzi per le calamità naturali).

È chiaro che le valutazioni vanno fatte sempre in termini sistemici; quando si parla di inquinamento, vale sempre l’adagio per cui il battito d’ala di una farfalla modifica gli equilibri generali. Quello che risulta incredibile è che dei tre sistemi inquinanti che sono città, manifattura, agricoltura-zootecnia, quest’ultima ha modi di produzione per i quali il suo contributo ai cambiamenti climatici e all’inquinamento del territorio ne diminuisce il valore (energetico, organolettico, salutare) e le quantità produttive.

Masochismo puro o esaltazione della diseconomia circolare?

Va rilevato che tutto questo è avvenuto in pochi decenni. Fino agli anni ‘40/’50 in tutta Europa (per gli USA qualche decennio prima) l’agricoltura era ancora considerata il presidio del territorio

Non ho nostalgia del bel tempo antico, dove analfabetismo, fatica ecc. facevano da padroni. Oggi viviamo in una forbice: da un lato la partecipazione attiva ai cambiamenti climatici e all’inquinamento, dall’altra basta andare nella piana di Rosarno o di Latina o… per renderci conto che ci sono settori in cui sfruttamento e fatica la fanno ancora da padroni. 

Nella prima lama della forbice hanno i posti d’onore l’agricoltura industriale che produce i deserti verdi (usa trattori e mezzi che aborrono la biodiversità e trovano convenienze solo nel lavoro di grandi estensioni monoculturali) e i grandi allevamenti intensivi che producono, con tecnologie sofisticate di assistenza alla produzione e all’alimentazione, sofferenze animali, consumi di energia e di acqua enormi, scarsa qualità energetica e organolettica. 

È chiaro che i cambiamenti implicano sia la necessità di cambiare modi e rapporti di produzione sia quella di sostituire o riconvertire chi fino ad oggi ha interpretato la cultura dello sviluppo insostenibile ed è abituato a trarne ottimi profitti. Gli attuali padroni degli anticrittogamici dovrebbero o lasciare la mano (!) o convincersi a cambiare modi e rapporti di produzione. È ovvio che le resistenze siano forti e indirizzate a mantenere la status quo. Ogni sistema politico, come il nostro, che vede diminuire il valore del voto popolare, ha lobby sempre più presenti e condizionanti. Tutti sappiamo che quando si scende sotto il 50% dei suffragi, la diminuita partecipazione popolare lascia il posto alle lobby e ai voti d’interesse.

Che fare?

Alcune soluzioni ci sono, e si potrebbero realizzare se legassimo in un’unica politica attiva tre valori: rilancio della spesa pubblica, economia sistemica e circolare, sviluppo locale e partecipazione.

Oggi questo legame è possibile sia per la disponibilità di risorse per gli investimenti, sia se correliamo l’agricoltura con la cultura, le risorse e le tecnologie per le quali e con le quali si possa produrre energia tout court: per essere espliciti, il settore agricolo-zootecnico deve diventate un produttore sia di energia alimentare sia di energia “gas e luce” nata dal riciclo delle innumerevoli biomasse di scarto di cui dispone.

Andiamo per ordine.

Una parte della spesa pubblica può essere indirizzata allo sviluppo locale per finanziare cultura, progetti, corsi di formazione indirizzati a costruire processi produttivi in campo agricolo-zootecnico capaci di produrre Energia tout court. Le campagne ci sono (soprattutto quelle abbandonate, sottoutilizzate, demaniali o facilmente raggruppabili con le cooperative di comunità), i giovani che vogliono lasciare la città rappresentano ormai una domanda reale, le università, i dipartimenti, il CNR, l’ENEA ecc. hanno montagne di progetti finora relegati al solo esercizio culturale e che possono immediatamente essere immessi in un costruendo circuito produttivo fondato sulla sostenibilità dello sviluppo, sui valori sistemici dell’economia circolare, lo sviluppo locale e la partecipazione sociale.

Ma la spesa pubblica potrebbe fare molto di più. Se tutte le strutture pubbliche, in primis quelle sanitarie, rifornissero le loro mense con i prodotti certificati di questa nuova agricoltura potremmo creare Cultura, Occupazione, Salute.

In questi processi le campagne e i loro abitanti diventano autosufficienti sul piano energetico; negli ospedali, nelle case di cura, nelle RSA finalmente si potrebbero adottare diete alimentari idonee non solo alla salvaguardia della salute ma coadiuvanti le cure.

Se questo vale per la sanità, a maggior ragione può valere per le mense scolastiche. Anzi, per queste ultime può valere due volte, sia per l’utilizzo delle derrate per le mense, sia come percorso produttivo da studiare e sul quale costruire cultura e formazione per la sostenibilità dello sviluppo.

Inoltre potrebbero essere promosse imprese virtuose, cooperative di comunità o start up che studino, elaborino, sperimentino e producano con i dettati dell’agricoltura sostenibile gestite con la partecipazione dei numerosi immigrati, colti o braccianti che siano. Con il loro lavoro e le loro produzioni potrebbero stringere un patto di comunità e solidarietà con le mense della Caritas, di Sant’Egidio ecc. dando un contributo fondamentale all’etica e alla cultura della cooperazione interculturale dello sviluppo.

L’elenco può essere infinito e lo testimoniano le tesi di dottorato e di laurea che fanno delle Università italiane e dei nostri Centri di Ricerca delle eccellenze capaci di formare professionisti ricercati in tutti i Paesi a forte grado di sviluppo e di retribuzione. Non ci vuole molto a creare obiettivi corredati da progetti, bisogna solo decidere che una parte della spesa pubblica venga indirizzata a riconvertire un settore che si trasformi da emblema dello sviluppo insostenibile a quello dello sviluppo sostenibile.

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