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Il popolo e gli dei. Un libro sulla grande crisi

“La sovranità si è spostata verso i gironi opachi e incontrollati della grande finanza internazionale, quella che orienta, giorno per giorno, secondo dopo secondo, il nuovo dominus: il mercato. Vista con lo sguardo del cittadino essa diventa lontana, inafferrabile, apolide: il popolo e gli dei non sono mai stati più lontani.

Se la sovranità, con i suoi nuovi dei, slitta sempre più verso l’alto, dove va il popolo? In teoria è lrnella nube del mugugno e della rabbia, si trasforma da comunità di cittadini a esercito di sudditi”.

Questa è la chiave di lettura del libro, scritto a quattro mani, da Giuseppe De Rita, presidente del Censis, e dal giornalista Antonio Galdo per i tipi della Laterza. Il titolo da l’idea del paradigma basilare del libro “Il popolo e gli dei. Così la grande crisi ha separato gli italiani” (pagg. 104. € 14,00).

Che è poi la proiezione su scala nazionale della più grande frattura “sismica”, la “faglia” planetaria prodotta dalla “iperglobalizzazione”, tra la “superelité” del potere finanziario globale e il resto del mondo (ivi compresa anche la politica degli Stati sovrani).

Dove i primi sono sempre più ricchi e i secondi sempre più poveri.

L’Italia, come il resto del mondo occidentale, non sfugge alla “logica” diabolica che la grande crisi ha prodotto in questi ultimi anni. 

Se è vero che nella nostra Costituzione, come nel resto del Costituzionalismo moderno e contemporaneo, la sovranità appartiene al popolo, in questi ultimi anni in realtà, come detto all’inizio, si è assistito ad un grande furto di sovranità. Ovvero il potere reale si è spostato verso entità sempre più astratte (il Mercato) ma, in realtà, molto reali. 

Così gli “Dei”, le elitè tecnocratiche -politiche, si collocano sempre più lontane dal popolo. Un popolo italiano, definito dagli autori con grande realismo e perfino crudeltà analitica, come popolo della sabbia: “fragile per definizione, esposto ai rischi prodotti dal potere cieco dei mercati, dal furto della sovranità, dalla crisi della rappresentanza”. Queste sono le tre grandi crisi che attraversano la società italiana.  Gli “Dei”, o la “casta” secondo altri, godono di ogni tipo di privilegio mentre il distante si perde nei mille rivoli della crisi (dalla disoccupazione, alla perdita di garanzie sociali ed economiche): “il vento soffia sul popolo della sabbia, crea dune e avvallamenti, scatena tempeste”. Tempeste che sfociano nel ribellismo sterile dell’antipolitica. Una crisi di rappresentanza che tocca tutti gli istituti della partecipazione, dai partiti alle istituzioni europee (vissute come burocrazia tecnocratica). 

E’ la mancanza di un ideale, di un progetto, di un sogno condiviso ovvero di quella “chimica sociale” che produce una società solidale. 

Secondo l’analisi dei due autori, le responsabilità di questo processo che ha separato in modo quasi  definitivo la società civile da coloro che sono chiamati ad amministrarla vanno divise equamente tra le due parti in causa. Il “popolo”, infatti, negli anni della Crisi non ha saputo porsi come entità collettiva capace di pretendere il rispetto dei propri diritti, preferendo frammentare le sue richieste in un pulviscolo di lamentele senza scopo e accontentandosi di sparare a zero, in modo generalizzante e qualunquista, sulla classe politica in toto, mentre “gli dei” hanno approfittato della situazione per consolidare il proprio potere e gestire al meglio i propri affari, disinteressandosi totalmente dei loro doveri nei confronti della collettività. Il risultato di questo processo è un Paese che esce dalle maglie della crisi come irrimediabilmente frammentato, un Paese in cui ogni individuo rimane chiuso nel suo piccolo guscio, nel tentativo di tutelare se stesso e in cui l’idea stessa di società diventa sempre più labile, sempre più difficile da afferrare. 

La soluzione di questa frattura, difficile per gli autori, passa per una nuova stagione di protagonismo di partecipazione politica. Solo con una nuova statualità si può ripristinare il comune destino degli italiani. 

(dalla Rivista Arel n° 3/2013)

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