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Da consumatore a produttore

Da un bel po’ di giorni, gli italiani sono alle prese con la quadratura dei conti casalinghi o di impresa. L’inflazione li ha presi in contropiede, per la velocità di erosione del potere d’acquisto dei loro redditi e per le conseguenze in termini di tenuta delle produzioni, di erogazione dei servizi privati e pubblici, di garanzia dei livelli occupazionali. Il Governo, salito a Palazzo Chigi sull’onda di promesse vendute come riscuotibili “pronto cassa”, ne scende per andare in Parlamento a presentare una legge di bilancio, quasi tutta finanziata in deficit e sostanzialmente dedicata soltanto ad alleviare, senza risolverle, le aspettative di aiuto che crescono su questo fronte.

Tutti convengono che è un’inflazione importata dai Paesi fornitori di combustibili degradabili, innescata anche dalla guerra che la Russia ha inflitto all’Ucraina. Si vuol far credere che se finisse la guerra, riprenderebbero le forniture tradizionali e il prezzo del gas e del petrolio calerebbe. E con esso, fine dell’inflazione.. Si vuol far credere che sia una faccenda congiunturale e che, una volta eliminata la miccia, l’incendio si plachi. Purtroppo è più un auspicio che una certezza. Ci sono buone ragioni per temere che così potrebbe anche non andare. Ma una è già scritta.

LA Cop27 si è conclusa con un risultato modesto rispetto alle urgenze ambientali. E’ risultato evidente che i Paesi ad abbondanza di combustibili fossili non rinnovabili hanno fatto valere la loro riluttanza a procedere a tappe forzate verso la loro sostituzione. Gli impegni formali di lungo periodo sono stati ribaditi, ma quello sulla riduzione graduale dell’uso dei combustibili fossili è rimasto nella penna dei delegati riuniti a Sharm el Sheikh. Anche i prezzi di questi combustibili potrebbero essere destinati a rimanere alti, se il “cartello”  si consolidasse.

In altri termini, i consumatori italiani di energia non possono dare credito all’idea di un’inflazione di breve periodo. Devono darsi da fare. Da consumatori destinati a sperare che lo Stato metta bonus per mitigare i prezzi energetici per tutto il tempo necessario, devono diventare produttori di energia pulita. Già sta succedendo, ma molto individualmente. E quindi lentamente. Occorre un salto di mentalità cooperativa, prima ancora che operativa. Bisogna produrre direttamente in dimensione di quartiere nelle medie e grandi città, di interi comuni nelle realtà di piccole dimensioni, di aggregazioni ancora più omogenee, come prevede il progetto della CEI di mobilitare le parrocchie. Insomma, occorre un minimo di partecipazione dei cittadini, che decidono di creare Comunità Energetiche Rinnovabili (CER).

In questo caso, non si tratta di “dare”, ma di “avere”. Avere energia domestica e per attività presenti nell’ambito territoriale considerato, a costo zero. Avere la proprietà degli impianti, anch’essi praticamente a costo zero (il PNRR ha una prima dotazione di 2,2 miliardi di euro al riguardo). Avere un ritorno economico, qualora la produzione superi il consumo e l’esubero venga venduto a terzi. Ma soprattutto, avere la certezza che non solo si bada al proprio tornaconto, ma al benessere dell’ecosistema.

Certo, bisogna “dare” da parte dei cittadini la volontà di fare. Non è una richiesta da niente. Faciliterebbe la messa in moto di questa volontà collettiva una cornice legislativa che finora è incompleta. La legge che recepisce una direttiva europea (datata 2002, meno male che l’Europa c’è!) è stata varata nel 2020. Si attendono i decreti attuativi e il nuovo Governo ha promesso che li varerà al più presto. Inoltre, occorrerebbe un’azione promotrice da parte dei comuni, in modo che la notizia si diffonda e la consapevolezza si consolidi. Infine, non sarebbe superflua una regia nazionale, per ora assegnata al GSE, ma necessariamente più autorevole, che favorisca un raccordo tra domanda e offerta dei materiali e dei mezzi per una rapida attivazione delle CER. 

Ma anche se tutto questo funzionasse a pennello, occorrerebbe che l’assunzione di responsabilità individuale per un progetto comunitario sia espressa come un’esigenza ineludibile. C’è motivo per essere ottimisti. Non è una scommessa, il senso di comunità non è assente negli italiani. Ne abbiamo avuto prova durante la pandemia. Di fronte a quell’evento drammatico, dalle istituzioni, alle imprese, ai lavoratori, agli studenti, agli anziani c’è stato un moto di corresponsabilità e di serietà. Quello spirito non è stato intaccato dalle contestazioni no vax, anzi è stato esaltato e a maggior ragione non andrebbe disperso. Semmai va assunto come paradigma per districarci nel grande disagio della democrazia che abbiamo conosciuto, contribuito a consolidarsi, ma anche in qualche modo a logorare. 

La questione energetica e la connessa questione ambientale sono l’occasione per dare una risposta concreta anche a quel disagio. Un altro banco di prova della vitalità di una popolazione che non si limita ad una delega verso l’alto o peggio di ripulsa a darla, disertando il seggio elettorale. Ma che sceglie di affrontare in via diretta un tema così complesso ma anche devastante come l’emergenza climatica, andando oltre le manifestazioni di dissenso e verso un futuro con qualche certezza in più.  

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