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Da internet a splinternet, la rete fatta in pezzi

Implosa l’URSS e caduto il Muro, il mondo s’amalgamava a colpi di finanza globale, produttività informatica, narrazione hollywoodiana e strapotenza americana che tutte insieme avvolgevano il mondo interconnesso dall’Internet Una e Universale che è stato il volto angelico del mondo unipolare, messo a punto, col supporto di Pentagono e fondi d’avventura, da un pugno di nerd, precoci miliardari.

Ora quell’Internet da Imagine (la canzone universalista di John Lennon) sta evolvendo in Splinternet (splinter sta per “fatto a pezzi”) disegnata – quanto a tecnica, procedure e contenuti –  secondo confini geopolitici, come scrivono Erik Lambert e Giacomo Mazzone su Key4biz. Non si tratterà mai, comunque, di ghetti in tutto e per tutto separati.

I poteri sulla Rete

Di sicuro, sotto l’aspetto tecnico ogni provincia di Splinternet vorrà fabbricarsi le sue macchine e i suoi chip per rendersi immune da sanzioni, ma restando comunque interoperabile con i sistemi altrui perché la connessione universale è divenuta irrinunciabile. Nelle procedure invece occorrerà trovare compromessi e garanzie se non perfetti almeno perfettibili. Si pensi ad un aspetto “innocente” come quello degli “indirizzi” dai quali e verso i quali comunicano gli utenti della Rete, una sorta di elenco del telefono con la lista dei “domini” preceduti dalla @ che terminano in .it, .uk, .ru, .com, .org e così via. Tengono aggiornate queste liste trecento impiegati di ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), società di Los Angeles che di fatto con un solo cenno potrebbe espellere interi Paesi dalla Rete o provocargli comunque disagi gravi negli affari. 

Non per nulla, allo scoppio della guerra, l’Ucraina ha chiesto che la Russia fosse espulsa da ICANN come stava avvenendo in campo finanziario con lo SWIFT, ma la risposta è stata negativa perché, cominciando con l’espellere chicchessia, sarebbe precipitata la stessa ragion d’essere di Internet. Per non dire che i primi a soffrire l’esclusione sarebbero stati proprio i russi più attenti alle fonti della Rete. Tuttavia, ICANN risiede a Los Angeles, paga le tasse in USA e potrebbe essere forzata da un qualche Presidente che volesse sventolare in tempo di elezioni un uso sanzionatorio della Rete. Più solida sarebbe dunque la Rete se queste delicatissime funzioni fossero trasferite in Paesi e mani neutri.

 

Quanto al rilascio degli account, finora le piattaforme hanno largheggiato accettando alla rinfusa persone e robot, volti dichiarati, uso di pseudonimi e, soprattutto, identità non rintracciabili. Quindi delle due l’una: o s’arriva a un accordo universale per stroncare l’abuso della Rete, o avremo per sempre una Rete invasa dalle formule più subdole e aggressive di propaganda politica e di marketing e tale da offrire i migliori pretesti alle censure.

Quanto alla censura, che nelle piattaforme social ha il nome di “moderazione”, sia pure con dolore, è giocoforza ammettere che il free speech integrale è impraticabile perché la diffusività fulminea e l’iterazione ossessiva della Rete trasformano le parole da espressione d’opinioni, comunque rispettabili, in fonti immediate di disastri, come col complottismo no vax che dà una mano al virus o le ubbie suprematiste che armano gli svampiti delle stragi. Purtroppo, tuttavia, censura chiama censura, le lobby moralistiche si mobilitano, e ciascun Paese, censurando questo o quello, mostrerà di sé il volto più sciocco e prepotente col pretesto degli account anonimi e delle cyber guerre. 

Splinternet e giurisdizioni

Il tema meno risaputo, ma denso di sostanza, riguarda la giurisdizione sui dati generati aprendo un account, scaricando un’app, ricercando ed acquistando, spostandosi di luogo, chiedendo una ricetta, cercando un lavoro o una vacanza. I dati, si sa, sono la base della pubblicità mirata, la fonte dei miliardi dei Big Tech, e riposano nei server di Google, Meta, Twitter, Baidu, TikTok, Uber, Airbnb, Amazon, Spotify che, per quanto multinazionali (nel senso che servono clienti in ogni dove), rispondono alla giurisdizione dello Stato in cui risiedono. Detto in parole semplici devono consegnare i dati a Polizia, Servizi Segreti e Magistratura, per reprimere reati o condurre azioni di spionaggio militare ed industriale. 

In più, per quanto ne sappiamo, quei dati hanno un mercato, come s’è visto nel caso di Cambridge Analytica che non sappiamo quanto sia punta di iceberg o innocuo frammento di ghiacciolo. Cose che capitano, si potrebbe dire e in fondo tollerabili. Ma non è tollerabile la gigantesca asimmetria che ciò comporta fra il potere reale dei Paesi con Big Tech e quelli che ne sono invece privi. Ovvero ed essenzialmente, fra gli Usa e tutto il resto.

La faglia USA Europa

Da questo punto di vista, la faglia di contrasto più rilevante corre fra gli USA (con il seguito anglosassone, loro compagno di vittorie nelle guerre) e l’Unione Europea che si va aggregando, sia pur zoppicando e lentamente, attorno alle ambizioni dei francesi e agli interessi dei tedeschi. Diversi sono rispetto agli USA gli interessi del blocco europeo perché l’America pensa a una sua rinsaldata egemonia per tenere alla distanza chi emergendo postula un Nuovo Ordine del Mondo. 

L’Europa ha invece molto da guadagnare nell’aiutare in nuovi ad emergere. Non per nulla alle prese con la guerra in Ucraina la compattezza occidentale è parsa  una forzatura unitaria in contropiede. e restando a Internet, è significativo che l’Alta Corte di Giustizia europea abbia cassato per due volte di fila il privacy shield con cui, come fosse una faccenda tra amiconi, la Bruxelles dei lustri scorsi, lasciava scorrere liberamente i dati degli europei nei server e nella giurisdizione USA, senza contrappesi equivalenti dal nostro lato dell’atlantico. L’Ue si aspetta che gli Usa cambino le regole che permettono alla National Security Agency di accedere ai flussi di dati “in transito” attraverso gli Usa; questi ovviamente non se ne danno per inteso e intanto Austria e Olanda diffidano alcuni servizi nazionali dall’usare la piattaforma Google per non esporsi allo spionaggio. 

Siamo, in sostanza, ai materassi, e intanto leggiamo sul New York Times che sta arrivando un atto esecutivo del Presidente che sottrae i dati americani ai “rivals”. Che per “rivals” si intendano i cinesi è scontato. Ma con l’aria che tira non è da escludere che gli USA parlino alla Cina perché anche l’Europa capisca quel che deve. Le opposte truppe, intanto, sono sulle linee di partenza: Gli USA hanno la cavalleria delle Big Tech che pervade, sostiene e spia le imprese dell’Europa; l’unica Big Tech europea è Spotify, ma con quell’utenza c’è poco da spiare. In compenso la UE modera ed ingessa le Big Tech con pesanti norme di Privacy (GDPR, General Data Protection Regulation) e col recente Digital Market Act volto a imporre mercati digitali equi e contendibili, come a dire che per Amazon la pacchia è bell’e che finita. Aggiungi il contenzioso sulla data localization, la localizzazione dei dati nazionali in server contenuti nei confini, e capisci il sospetto di Google, Meta, Microsoft e Amazon che l’Europa li voglia costringere a ristrutturare i loro investimenti tecnici per aumentarne i costi e renderli più vulnerabili alla concorrenza di qualche locale campioncino. 

Certo che se non è vera è ben pensata e rende chiaro perché i fan della “Rete Unica e Apertissima” accentrata in California definiscano gli europei, letto tale e quale nel documento di un think tank, “utili idioti”, se non addirittura l’avanguardia delle torme di autocrati eurasiatici bramosi di mettere sotto chiave i loro popoli. Non sarà Una, non sarà Fair, ma questa Splinternet si prospetta assai interessante da narrare.

* da DOMANI 8 giugno 2022

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