Bella ciao e la Marsigliese impazzano nelle piazze francesi, mentre l’aplomb britannico ha portato i laburisti a festeggiare il trionfo con una frugale colazione per mettersi subito al lavoro. Durante l’estate, la sinistra italiana dovrà fare gli straordinari: un corso sulla Senna e una full immersion a Londra. Davvero è il caso di dire che per gli italiani gli esami non finiscono mai. Anche perché non si capisce neppure chi debba esattamente sostenere l’esame.
Insieme con la grande mobilitazione antifascista che ha portato la sinistra d’Oltralpe a respingere l’attacco lepenista – con un’alleanza che ha bene sfruttato il sistema elettorale a due turni, fermando clamorosamente la marea nera, senza però riuscire a dare forma a una reale alternativa di governo –, dalla Manica ci viene un messaggio diverso nel contenuto ma simile nel metodo: giocare sui meccanismi elettorali. Da Parigi e da Londra, prima ancora che una lezione di politica, viene una grande applicazione di tecnica del voto, attraverso cui si ribalta la furbizia con cui la destra, in passato, aveva giocato sulle contraddizioni della sinistra. Del resto, non solo tutte le componenti di sinistra si sono ritrovate in una desistenza solidale, ma anche il centro macroniano e una larga parte dei conservatori ex gollisti si sono turati il naso e hanno votato per il candidato anti-lepenista, foss’anche un melenchoniano, così come gli elettori più radicali hanno concentrato il loro voto sui candidati moderati che sarebbero stati considerati il nemico solo qualche mese fa. Dunque, non soltanto tecnicismo elettorale ma anche una grande dimostrazione di maturità politica di fronte all’emergenza che rischiava di portare gli eredi del più tetro oltranzismo reazionario al vertice del Paese.
L’unione che ha fermato l’armata di Le Pen ha trovato il linguaggio per contendere il voto popolare e periferico alle suggestioni nazional-populiste, confermando la propria forza di attrazione verso i ceti metropolitani e intellettuali. Certo, però, non ha una proposta di governo, anche perché non si è veramente posta il problema di un programma coerente e di un’intesa di fondo sui contenuti.
I dati assoluti fanno intendere i limiti delle due vittorie. Il trionfo laburista, in Gran Bretagna, è il frutto di un’illusione ottica indotta dal prisma del maggioritario puro. Con poco più di tre punti in percentuale di differenza – risultanti dallo spostamento di un elettorato di confine, che altalena fra i due partiti in base a emozioni nazionali, e soprattutto grazie al richiamo del candidato territoriale, e che questa volta ha voluto bocciare gli impacci fantozziani di un ceto politico arrogante e profittatore come quello che ha gestito il Regno Unito durante quattordici anni di dominio incontrastato –, più che di uno sfondamento della sinistra, dovremmo parlare di un sorpasso in discesa. Infatti i laburisti hanno vinto perdendo meno voti di quanti ne abbiamo lasciati sul campo i conservatori rispetto alle precedenti elezioni. Contare su una leadership che non accentua i contrasti e non si espone su temi sensibili, come fisco e politica estera, aiuta ad accentuare il travaso degli elettori più critici e volubili. Questo spiega il perché, con un vento favorevole per le mille gaffe dei conservatori, la leadership di Starmer sia risultata più ricettiva di quella precedente di Corbyn, nonostante, in valore assoluto, il Labour guidato da quest’ultimo avesse preso più voti e meglio distribuiti. Non deve sfuggirci, peraltro, che – qualora non si fosse presentato il partito sovranista di Farage, che ha raccolto il 14%, arrivando terzo, e scavalcando una forza storica come quella dei liberali – la massa dei voti della destra inglese avrebbe forse prevalso ancora, nonostante il disastroso bilancio politico.
A questo punto, la lezione da trarre per gli scolaretti italiani sembra una sola: al netto dei giochi di prestigio dei diversi sistemi elettorali, il dato che appare indelebile, alla luce delle confortanti affermazioni di francesi e inglesi, e della performance del Pd alle ultime europee e amministrative, è che la sinistra deve ritrovare la sua capacità di sfondare le paratie che la isolano da ceti sociali e bacini elettorali indispensabili per proporsi come forza di governo e di trasformazione. L’alternanza elettorale, in cui si sfrutta la spinta ascensionale della crisi dell’avversario, logora solo chi ce l’ha, potremmo dire parafrasando Andreotti: cioè non basta stare in questa altalena, in cui combinando astensionismo e irrequietezza di ceti sociali insoddisfatti, si prende l’ascensore a condizione, comunque, di non cambiare niente. In Francia emerge con chiarezza che, a fare la differenza, accanto a una sinistra di governo, è una forte area radicale capace di contendere al plebeismo sovranista le casematte periferiche, proponendo una via alternativa al neoperonismo della destra estrema. E da ciò che emerge parallelamente, in Inghilterra e in Francia, appare evidente che gran parte dello spostamento dei consensi sia solo marginalmente indotto dalle proposte politiche del vertice dei partiti.
Starmer ha ben giocato sulla sua origine proletaria, interrompendo la sequela di leader laburisti oxfordiani, e ha pure proposto una compagine di governo robusta, con due donne di ferro in ruoli chiave come Rachel Reeves all’economia, e la rossa Angela Rayner vicepremier – ma certo non ha dato il senso del cambiamento del vento. Ha piuttosto fatto capire che governerà meglio le vele per una navigazione più equa e armonica del Paese. Tony Blair, del resto, gli ha già sussurrato all’orecchio, con un lungo fondo sul “Times”, la ricetta a cui attenersi: regolare l’immigrazione, registrare la sanità, più tecnologia. Insomma, amministrare meglio. Ma, lungo questa “neo-terza via”, si trova sempre chi raccoglie l’insoddisfazione diffusa e la collega a una sobillazione sociale, come sembra deciso a fare Farage, il capo del partito della Brexit, che, nonostante il fiasco dell’uscita dall’Europa, ha trovato, nelle pieghe del rancore sociale combinato con le mille frustrazioni irrisolte, un consenso non ordinario, tale da candidarlo ad alternativa reazionaria alle inconcludenze conservatici.
La geografia del voto francese parla invece di un popolo portato al voto dall’indignazione antifascista, che oggi però deve capire quale Paese vuole e valutare con chi governarlo. Macron ha giocato una partita rischiosa, e si può dire che l’abbia vinta. Ma questo centro è capace di combinare i saperi con i bisogni e i primati con l’eguaglianza?
Paradossalmente, il messaggio esplicito resta il seguente: la radicalizzazione sociale è il tema del nostro tempo, una forma di trumpismo permanente che costringe i vertici politici a guidare una mobilitazione, e non più a evocare una serena maggioranza. Paradossalmente, la sinistra si trova a essere interrogata da una domanda di cambiamento che sembra ritrovarsi più istintivamente nella competizione individualista del sovranismo, e che invece bisogna saper declinare secondo una nuova idea di politica, mediante una forma di partito che renda la rabbia partecipazione e non delega.