1. Dare un senso alla storia.
Per cominciare a introdurre questa riflessione 1 proverò a prenderla molto alla larga esaminando alcuni temi di filosofia del diritto più volte tirati in ballo proprio per spiegare quanto è accaduto. Per quanto la cosa possa apparire alquanto bizzarra non c’è da stupirsi perché, come vedremo, essi sono particolarmente utili per comprendere il senso degli avvenimenti di questi mesi. Il contesto attuale, caratterizzato dai profondi cambiamenti a seguito dell’emergenza da Covid 19, viene sempre più spesso indicato come ‘stato di eccezione’ oppure ‘stato di emergenza’2(Zagrebelsky 2020; Agamben 2020). Le due espressioni non sono sinonimi, tuttavia per le questioni che affronteremo in questa sede non appare così importante disquisire sulle differenze. Qual è una ragionevole definizione di “stato di eccezione”? Si tratta di un concetto che ha una lunga storia nella filosofia politica e nel diritto costituzionale, su cui si è applicato un gran numero di studiosi dall’antichità ai nostri giorni. Nel XX secolo di solito si fa riferimento a Carl Schmitt (1888-1985), un giurista tedesco controverso per via della sua adesione al nazismo, ma della cui originalità nessuno mette in dubbio il valore. In un suo libro del 1922, di solito indicato con il titolo Teologia politica I, ripubblicato (non a caso) nel 1934 a ridosso della presa del potere di Hitler, e tradotto in Italia nel 1972 3, Schmitt ricorda come “tutti i concetti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati” (pag. 61). Per fare un esempio per tutti non c’è chi non veda, appena ci rifletta sopra, il parallelo tra la Carta Costituzionale e i comandamenti biblici, oppure tra l’autorità del Presidente della Repubblica e quella divina.
Cito ancora, da quel testo, il richiamo ad una affermazione perentoria del giovane Engels: “L’essenza dello Stato come della religione è la paura dell’umanità di fronte a sé stessa” (pag. 73), ovvero nei confronti della morte e della malattia collettiva: la pandemia, sempre per rimanere ai nostri giorni. Nello ‘stato di eccezione’, quando si teme di morire, ci si affida allo Stato allo stesso modo nel quale in passato ci si affidava all’intervento divino per far finire la peste, la carestia o la guerra. Ciò che viene invocato è il miracolo che ferma la catastrofe dell’epidemia, per poi rendere grazie a Dio attraverso adeguati atti di fede monumentali destinati a ricordare il miracolo, come nel caso della costruzione della basilica di Santa Maria della Salute a Venezia, costruita a Punta della Dogana dopo la fine della grande epidemia di peste bubbonica del 1630-31. Non a caso Carl Schmitt ricorda come “Lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia” (pag. 61)4, e ancora: “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione” (pag. 33). Cosa significa? È sovrano chi decide quando fare il miracolo, vale a dire quando usare l’ultima arma che si ha a disposizione: il potere di andare oltre i limiti costituzionali per salvare la nazione. E noi in questi mesi, per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, abbiamo vissuto dentro uno ‘stato di eccezione’.
Nonostante le molte affermazioni polemiche in senso contrario, noi non abbiamo fatto esperienza dello stato di eccezione negli anni della lotta al terrorismo, né in quelli della lotta alla mafia e neppure nelle varie emergenze dei post-terremoti. In senso tecnico, l’unica occasione è stata quella del Covid con le decisioni assunte in prima persona dal Primo ministro Giuseppe Conte. Come lo stesso Presidente del Consiglio ha dichiarato in conferenza stampa il 25 marzo, “abbiamo dovuto costruire un metodo di azione e di intervento che mai è stato sperimentato prima”5. In pochi giorni, agli inizi di marzo, il capo del governo prende la decisione di usare lo strumento del Dpcm, un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, per far fronte all’emergenza. I Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri si collocano in uno dei gradini più bassi della gerarchia delle fonti, tuttavia hanno il pregio -per così dire- di essere immediatamente esecutivi, non hanno bisogno dell’approvazione del Parlamento, non passano al vaglio del Consiglio dei Ministri, e non devono neppure essere controfirmati dal Presidente della Repubblica. Nonostante il riferimento alla pandemia proclamata dall’Organizzazione mondiale della sanità e la fragile copertura dei precedenti decreti-legge di gennaio e febbraio, nessuno prima della firma sui due Dpcm dell’8 e del 9 marzo 2020 aveva mai immaginato che nel nostro paese si potessero emanare norme del tipo di quella del comma 2 dell’art. 1 del Dpcm del 9 marzo: “Sull’intero territorio nazionale è vietata ogni forma di assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico”, oppure quella prevista dal comma 1.a dell’ art. 2 del Dpcm dell’8 marzo: “è altresì differita a data successiva al termine di efficacia del presente decreto ogni altra attività convegnistica o congressuale”. Attenzione: qui non si intende in alcun modo criticare l’operato di Conte, anzi, semmai, sottolineando l’eccezionalità degli accadimenti, suggerire la ragione del consenso crescente al capo del governo. Se, ad esempio, a metà marzo, l’allarme per l’epidemia si fosse rivelato esagerato e il Covid una forma influenzale un po’ più grave del solito, Giuseppe Conte sarebbe stato accusato di attentato alla Costituzione o di qualcosa di analogo, e la sua carriera politica finita. L’aver per primo in occidente preso misure così drastiche l’ha prima esposto alla derisione internazionale, a cominciare dagli inglesi e dagli americani, poi all’encomio generalizzato e a una qualche invidia dichiarata, come in un recente articolo di Paul Krugman sul New York Times 6. Da questo punto di vista, il consenso interno è il riflesso della percezione del pericolo e della necessità di non tergiversare con i se e con i ma sulle scelte di chi è al comando. Analogo consenso si è registrato a tutti i livelli della catena di comando, specie per i Presidenti di regione e per i sindaci 7, a conferma delle caratteristiche peculiari che si registrano quando il pericolo è vissuto dai cittadini come un pericolo ‘capitale’ (che mette a rischio il caput), ‘diretto’ (sulla propria persona), ‘immediato’ (qui e ora) 8.
Rimane tuttavia il fatto che con un Dpcm si sono sospese quasi tutte le libertà della prima parte della Costituzione: la libertà di movimento, di riunione, per non parlare del rinvio delle elezioni di assemblee legislative scadute. Come appare ovvio, i Dpcm erano la tappa finale di un percorso condiviso con le forze di governo, in parte anche con le opposizioni. Sicuramente il Presidente della Repubblica era informato e ha acconsentito a questi percorsi del tutto fuori dall’ordinario. Dobbiamo fare lo sforzo di metterci nei panni del Presidente del Consiglio in quelle ore drammatiche. L’Italia è stata la prima nazione dell’Occidente a essere coinvolta dall’emergenza; le informazioni erano contraddittorie e confuse; si trattava di una situazione senza precedenti dai quali trarre indicazioni. Proprio di questo marasma parliamo quando si evoca l’espressione ‘stato di eccezione’.
Tuttavia lo strappo costituzionale di questi mesi rende palese, anche per il solo fatto di costituire un precedente, la necessità di normare per via costituzionale lo ‘stato di eccezione’, non previsto nel nostro ordinamento per una scelta consapevole dell’Assemblea Costituente. L’unico caso di eccezionalità costituzionalmente previsto è lo ‘stato di guerra’, il cui percorso inizia dopo che “le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari” (art. 78, Cost.). La reticenza dei costituenti era motivata da quanto accaduto nel 1932-‘33 in Germania 9, ovvero dalla preoccupazione di affidare poteri troppo ampi al Presidente della Repubblica 10. L’importanza di normare gli stati di eccezione si evidenzia anche rileggendo un episodio di 35 anni fa. Nel 1986 il Colonnello Gheddafi (forse) lanciò due missili sulla Sicilia, i quali caddero in acqua senza conseguenze di sorta. In quella occasione Francesco Cossiga, allora Presidente della Repubblica, inviò un messaggio al Parlamento chiedendo che cosa si sarebbe dovuto fare se quella notte i missili fossero arrivati a destinazione causando morti e distruzioni. Nella sostanza il Presidente chiedeva se in una situazione di pericolo immediato e di drammatica emergenza, bisognasse attendere la convocazione dei due rami del parlamento e le loro deliberazioni, oppure se, alternativamente, vi fossero i margini ordinamentali per un intervento immediato di re-azione (un raid aereo fuori dai confini nazionali, in Libia ad esempio). Un secondo problema riguardava il ruolo del Presidente della Repubblica e quello del Presidente del Consiglio. Il Parlamento non rispose ma il Presidente del Consiglio dell’epoca, Giovanni Goria, incaricò una commissione di studio presieduta da Livio Paladin per sciogliere i dubbi. Due anni dopo, ai primi di giugno del 1988, la commissione Paladin consegnò la sua relazione, che indicava nel Presidente del Consiglio il vertice responsabile delle iniziative nello ‘stato di guerra’ riservando al Presidente della Repubblica una funzione di controllo garantita dalle necessarie informazioni 11. A tutt’oggi, tuttavia, le normative suggerite all’epoca per proceduralizzare i rapporti tra i due massimi vertici dello Stato non sono state completate. Il rischio che accada lo stesso con lo ‘stato di eccezione’ è molto elevato (e pericoloso) non fosse altro perché, come già detto, la presenza di un precedente così invasivo come le normazioni emergenziali al tempo del Covid può essere invocato in futuro anche in circostanze tutt’affatto diverse.
2. Il ruolo degli attori politici e sociali nello ‘stato di eccezione’
Come si è detto, l’uso estensivo della decretazione non va demonizzato, anzi è stata una scelta tanto coraggiosa quanto efficace. Ma cosa è successo davvero? Sotto la superficie della scena mediatica, il processo attraverso cui venivano emanati i Dpcm era molto più sofisticato di quanto fin qui evidenziato. Partiamo dal fatto, noto a tutti, di una sorta di esautoramento del Parlamento, anche perché sostanzialmente inabilitato a riunirsi per quasi due mesi. Le principali decisioni anti-Covid non sono passate per il Parlamento ma discusse e mediate in altre sedi, dove sedevano attori specializzati che poco o nulla avevano a che fare con la sfera dei partiti in senso stretto. Ogni Dpcm è stato preceduto -consapevolmente, a mio avviso, specie dopo alcuni iniziali sbandamenti- da anticipazioni, fughe di notizie, rumors di stampa, così da consentire ad alcuni attori collettivi di svolgere un preciso ruolo di supplenza parlamentare. Stiamo parlando: a) degli esperti di settore attraverso le commissioni create ad hoc (epidemiologiche, sanitarie, economiche, sociali, ecc.); b) poi delle associazioni di rappresentanza degli interessi; ma anche c) delle rappresentanze territoriali che trovavano i loro portavoce nei Presidenti di regione; come pure d) della società civile a cui veniva data voce da parte dei mass-media (giornali e tv, in primis) e dai social. Al termine di questo complesso percorso, di solito della durata di 10-15 giorni, e dopo un laborioso procedimento emendativo, solo e soltanto dopo veniva firmato e pubblicato il Dpcm definitivo. Sospeso il circuito standard governo/parlamento veniva attivato – difficile dire se e quanto in modo meditato – un quadruplice circuito governo/esperti sanitari, governo/interessi organizzati, governo/regioni, governo/media che si metteva in moto a partire da un prima bozza di Dpcm fatta filtrare in via informale con la precisa finalità di dare voce ai quattro circuiti consultivi ed emendativi.
In questi frangenti inediti, le associazioni sono state costrette a reinventarsi il proprio ruolo nel gioco. Torniamo a quei giorni. C’erano centinaia di migliaia di lavoratori che dovevano andare a lavorare, e che non sapevano se e come avrebbero dovuto comportarsi in azienda. Le persone di tutte le età, dopo la sottovalutazione iniziale, sono state travolte dalla paura, specie nelle zone più colpite dai focolai. A dare loro rassicurazione, assistenza, tutela sono stati i quattro soggetti appena indicati: gli esperti, il personale delle associazioni, i Presidenti di regione, i giornalisti. Non a caso tutti o a (quasi) tutti gli attori si sono rilegittimati, superando per un momento la diffidenza diffusa dall’antipolitica che sembrava inarrestabile. In una parola, la rappresentanza ha mostrato di essere ancora utile come mediazione tra le persone e il potere; se poi il circuito della rappresentanza politica perde colpi a causa di difficoltà oggettive come l’impossibilità di riunirsi da parte del Parlamento, ecco che torna buona la tanto bistrattata rappresentanza funzionale, come pure la rappresentanza territoriale federale, tanto che si potrebbe ipotizzare in una comparazione internazionale una relazione diretta tra la forza dell’associazionismo e le performance delle politiche pubbliche nella crisi pandemica.
Infine, la divisione alimentata dall’antipolitica tra le agende della gente comune e le agende delle elites (dominate dai detentori della ricchezza economica). L’agenda delle classi dirigenti, l’agenda dei ricchi, l’agenda dei potenti, da un lato, e l’agenda popolare dei perdenti della globalizzazione, dall’altro lato, si sono duramente scontrate in questa prima parte del XXI secolo: la prima in televisione nei summit europei e mondiali, l’altra nelle osterie e sui social. Una frattura che il Covid ha per il momento rimarginato e che si è per un attimo ricomposta, quasi per miracolo (Schmitt docet) intorno ad una nozione minimalista di ‘bene comune’, la sopravvivenza, al fatto di essere davvero, senza retorica, tutti nella stessa barca e tutti impegnati in un comune tentativo di salvarsi insieme. Ma se siamo tutti nella stessa barca bisogna accettare l’idea che nel mare in tempesta c’è un capo unico, indiscusso, da non mettere mai in discussione fino a quando imperversa il pericolo. Giusto o sbagliato che sia, il suo operato non si contesta pena un pericolo ancora più drammatico: l’assenza di governo quando il rischio diventa mortale. Chi durante lo ‘stato di eccezione’ non ha capito questa elementare lezione di realismo ne ha pagato l’inevitabile scotto in termini di consenso e popolarità. È quanto successo a Salvini e Renzi, che hanno perso di rilevanza politica proprio perché hanno voluto giocare a mettere in difficoltà il capitano nel pieno della tempesta, pensando in questo modo di ricavarne una qualche rendita di posizione 12.
A questo punto -come tema di riserva- si getta nella discussione l’inesperienza di Giuseppe Conte e il suo fortunoso arrivo con successiva giravolta a Palazzo Chigi. Non pare un grande argomento, ma conviene citare direttamente Platone, La Repubblica, libro VI, dove mette in guardia dai dilettanti accecati dall’ambizione del potere quando mettono in discussione il capo inesperto: “guai alla situazione in cui un nocchiero piuttosto duro d’orecchio e pure corto di vista e con altrettante scarse conoscenze di cose navali è attorniato da marinai che si altercano tra loro per il governo della nave. Ciascuno credendosi in diritto di governarla lui medesimo. Mentre non ne ha mai appreso l’arte né può dichiarare in quale tempo e con quale maestro l’abbia appresa. E inoltre affermano che quest’arte non si può insegnare pronti anche a fare a pezzi chi la dica insegnabile, tutti sempre stretti attorno al nocchiero a pregarlo e pregano in tutti i modi affinché affidi loro la barra”. L’unico che invece ha immediatamente intuito con un’abilità straordinaria il da farsi, ovvero come recitare la parte dell’opposizione in situazioni di emergenza è stato Silvio Berlusconi, il quale ha subito offerto il suo sostegno, esplicito e implicito, al Governo, condividendo le politiche europee e svolgendo la classica funzione emendatoria-correttiva invece che cercare di mettere i bastoni tra le ruote. Ancora più esplicito è stato il discorso in parlamento il 18 marzo del leader dell’opposizione portoghese Rui Rio, il quale così si è rivolto nelle ore più tragiche al premier socialista Antonio Costa 13: “La minaccia che dobbiamo combattere esige unità, solidarietà, senso di responsabilità. Per me in questo momento il Governo non è l’espressione di un partito avversario, ma la guida dell’intera nazione che tutti abbiamo il dovere di aiutare. Non parliamo più di opposizione ma di collaborazione. Signor ministro, conti sul nostro aiuto. Le auguriamo coraggio, nervi d’acciaio, e buona fortuna, perché la sua fortuna sarà la nostra fortuna”.
Si potrebbero fare molti altri esempi tratti dalla cronaca di questi mesi o dalla storia dei secoli passati, ma pare assodato che ad essere chiamate in causa non sono solo le forze politiche ma pure il ruolo delle associazioni di rappresentanza degli interessi chiamate a svolgere una ‘opposizione cooperativa’, il che non significa rinunciare alla critica e al conflitto, ma individuare le differenti modalità di esercizio della rappresentanza compatibili con lo stato di emergenza. Questa considerazione non vale tanto e solo come ricognizione ragionata su quanto accaduto nei mesi passati, ma ancora di più come ragionamento strategico sul futuro prossimo, dato per scontato di non avere certezza alcuna su cosa succederà nel prossimo autunno-inverno. Non sapendo se stiamo attraversando la quiete prima di una nuova tempesta occorre dotarsi della capacità guardare lontanissimo, a come sarà il mondo dopo la pandemia, unita ad una mobilità tattica straordinaria per reggere al cambio dei venti (come pure delle opinioni). Compreso il diritto/dovere di mutare opinione quando nuove informazioni cambiano il quadro interpretativo fino ad allora considerato non opinabile. Sotto questo profilo le infinite critiche al governo o ai Presidenti di regione sono ingenerose, dal momento che navigando in mari incogniti l’errore -appunto, l’errare inciampando in mille sentieri interrotti- fa parte della fisiologia, non della patologia, quando si è dentro gli stati emergenziali. Non che le critiche non siano legittime e necessarie, ma esse hanno senso se finalizzate a migliorare l’azione di coordinamento politico, non a delegittimarlo.
Anche l’accusa di cedimento alla ‘politica degli interessi’ manca il bersaglio. Tanto la letteratura sul corporativismo degli anni trenta quanto quella sul neocorporativismo della seconda metà del novecento hanno chiarito come si tratti quasi sempre di una forma di governo instabile, strettamente legata al fronteggiamento di contingenze straordinarie come una guerra, una grave crisi economica, e/o di regime. Sia la variante autoritaria (di destra come di sinistra) sia la variante liberale (il corporativismo democratico) prevedono la supremazia del circuito governo/interessi organizzati e un rafforzamento del circuito governo/esperti e di quello governo/media. Semmai la novità dell’epidemia è costituita, non solo in Italia, dalla rilevanza assunta dal circuito governo/territori, una sorta di inedita sperimentazione di cosa significhi l’espressione ‘federalismo cooperativo’. Le misure governative, dopo essere passate al vaglio degli esperti e degli interessi organizzati, per essere implementate con efficacia, hanno bisogno dei mille aggiustamenti che solo chi le deve applicare può suggerire. Al di là dei toni muscolari utilizzati per comprensibili finalità di consenso, le prese di posizione dei Presidenti di regione sono risultate funzionali a migliorare l’applicabilità dei Dpcm e la loro messa in opera cooperativa da parte di regioni, province e comuni.
3. Il ruolo degli interessi organizzati: un’analisi con base i livelli territoriali
Proviamo a riflettere su quanto è accaduto ai diversi livelli territoriali, per poi ragionare sulle lezioni che se ne possono ricavare. Prima di argomentare sui livelli locali è necessario ribadire, nonostante non sia l’oggetto specifico di questo lavoro, come anche la dimensione europea si sia rilegittimata grazie al Covid, mostrando tuttavia, proprio grazie alla capacità di intervento delle istituzioni comunitarie, il ritardo nella costruzione di un livello organizzativo sovranazionale da parte di tutte le associazioni di rappresentanza di interessi, con un vuoto sempre più trasparente via via riempito dall’azione di agenzie di lobbying microsettoriale o aziendale.
3.1. Il livello aziendale/locale. In primo luogo, va sottolineata l’impressione di una vastità mai sperimentata prima di interventi aziendali, molto spesso di natura unilaterale, specie nelle aree più colpite dalla pandemia, volta a lenire il disagio dei lavoratori e delle loro famiglie. Mai come in questa occasione, infatti, l’idea di una ‘comunità aziendale’, entro la quale convivono interessi diversi ma in parte convergenti, sembra essere emersa come minimo comun denominatore dell’azione degli attori collettivi, tanto sul versante datoriale quanto su quello sindacale. Con ogni probabilità, quando avremo a disposizione dati quantitativi su quanto accaduto nella prima metà del 2020, si osserverà una correlazione abbastanza solida tra i luoghi dove in modo più grave si è manifestata l’epidemia e la numerosità degli interventi aziendali – a base contrattuale o a base unilaterale – di sostegno al reddito dei lavoratori e di prime misure per garantire la sicurezza dei lavoratori. Dalle notizie di stampa, ad esempio, risulta molto ampio, anche da parte di aziende che non avevano in essere piani di welfare aziendale, l’intervento di anticipo della cassa integrazione e, in un numero minore di casi, di integrazione salariale fino alla copertura piena della busta paga ordinaria. Ulteriori interventi a carico delle aziende – di nuovo, sia su base negoziale che su base unilaterale – si sono registrati, specie nella prima fase del Covid, nell’area della sicurezza del lavoro, anche quando non ancora espressamente previsti dalle disposizioni governative e regionali, in particolare per quanto riguarda i tamponi, la misurazione della temperatura in ingresso, la disinfestazione e l’uso di protezioni facciali, la sanificazione degli ambienti di lavoro.
Poi, a partire dal livello locale, è emersa l’incredibile capacità di risposta in forma organizzata alle domande minute degli associati, anche quando si trattava solo di una richiesta di rassicurazione o di vicinanza. Ma si pensi alle infinite richieste di chiarimenti, di assistenza nella compilazione di domande e moduli, oppure ancora alla fornitura di indicazioni in materia di ambiente e di sicurezza sul lavoro. Una qualsiasi attività artigianale o commerciale con punto vendita aveva bisogno come minimo di locandine con le istruzioni per gli acquirenti; come tutti noi possiamo ancora oggi verificare, la cartellonistica di servizio, anche nel più sperduto borgo alpino, porta il marchio della rispettiva associazione di categoria. Ma tutto questo è stato possibile perché la rappresentanza è innanzitutto un fatto organizzato, tanto nella dimensione orizzontale quanto in quella verticale. Entrambe le dimensioni sono necessarie pena ridondanze e inefficienze. L’organizzazione serve se fa ‘sistema’, come si usa dire in gergo associativo, ovvero se è in grado di massimizzare l’integrazione tra le due dimensioni. Se invece le organizzazioni sono libere repubbliche federate – in gergo, loosely coupled – esse sprecano un’infinità di risorse con risultati sub-ottimali.
Un altro tema che il Covid ha riportato al centro dell’attenzione delle associazioni di rappresentanza degli interessi è stato quello relativo alla centralità dell’associato, in particolare a livello aziendale o locale; non solo, dopo vent’anni in direzione contraria, abbiamo assistito ad un rinnovato ruolo della rappresentanza, la quale riacquisisce peso specifico rispetto ai servizi. Questi ultimi sono stati fondamentali nel ruolo di tutela e assistenza agli iscritti; tuttavia nell’emergenza è apparso evidente che senza un chiaro indirizzo politico e di rappresentanza non ci sarebbe stata alcuna capacità di coordinamento delle iniziative associative. Ne è emersa la resilienza di antiche doti tipiche di un mestiere particolarissimo, qual è quello di chi fa sindacato di interessi collettivi: la capacità di ascolto empatico, l’abilità nell’interpretare e ri-elaborare le domande della propria gente, la tecnica di traduzione degli interessi individuali in interessi collettivi. Non che i servizi non abbiano contato anche in questa occasione, ma mai l’integrazione tra servizi e rappresentanza è stata così indispensabile come nei mesi dell’emergenza di Covid.
3.2. Il livello territoriale/provinciale. La crisi delle istituzioni provinciali è palese, come pure l’insensatezza di una riforma che ha lasciato in balia del caso il destino degli enti intermedi sovracomunali, specie se si tiene conto della storica frammentazione di cui soffre il sistema delle autonomie. Va osservato come il Presidente della Provincia, nella crisi dei mesi scorsi, quasi mai abbia svolto primariamente il ruolo di coordinatore delle iniziative sul suo territorio provinciale, non fosse altro perché oberato dalle mille urgenze che gli capitavano tra capo e collo in quanto Sindaco del suo comune.
Di conseguenza, di fronte alla fragilità dell’istituto provinciale, le istituzioni centrali non hanno potuto fare altro che andare alla ricerca di un diverso interlocutore di coordinamento nelle province, alla fine trovandolo in quelle Prefetture che trent’anni fa avevano rischiato di essere abolite a furor di popolo. Come tutte le supplenze inventate sul momento, i prefetti hanno fatto quello che hanno potuto anche in ragione delle loro scarsissime competenze in materia economica. Un episodio per tutti. Una Confindustria provinciale del Nord Italia invia al Prefetto una lunga lista di eccezioni relative ai codici Ateco di aziende che avrebbero voluto rimanere aperte; il Prefetto, non sapendo che pesci pigliare, trasmette la richiesta alla Provincia chiedendo il loro parere, ma non ottiene neppure risposta. Allora pensa bene di chiedere conforto alla Camera di Commercio, la quale, tanto per non sbagliare, chiede lumi tramite mail protocollata a chi? A Confindustria, come è ovvio, chiudendo così il cerchio di quella che si potrebbe definire la ‘concertazione emergenziale italian style‘.
Il ruolo delle organizzazioni di rappresentanza di interessi è stato rilevantissimo proprio per la capacità di coordinamento tra aziende, enti locali, istituzioni provinciali (Inps, Inail, Prefetture, Aziende sanitarie, in primis). Senza il loro operato appare difficile immaginare come il sistema produttivo, in particolare al Nord, avrebbe potuto continuare a operare con (relativa) normalità, superando attraverso le procedure cooperative di tipo neocorporativo i mille ostacoli delle sanificazioni, dei vincoli posti dal distanziamento, delle norme sull’igiene e la sicurezza sul lavoro. Inoltre mai come in questa occasione si è visto in opera il circuito virtuoso tra servizi e rappresentanza, in cui i primi alimentavano la seconda attraverso un continuo flusso di informazioni sull’impatto micro delle normative nazionali e delle ordinanze regionali. Certo, si è trattato di un lavorio tutto di retrobottega, poco visibile, lontano dalle passerelle tanto dei media tradizionali quanto dei social media, ma importantissimo e di cui prima o poi andrebbe raccontata la ricchezza di esperienze prima che se ne perda la memoria.
3.3. Il livello regionale.Come è noto, il livello regionale è sempre stato quello più problematico dal punto di vista associativo. Se nelle province vi è stata una vera e propria crisi istituzionale, come si è appena visto, essa ha riguardato poco e nulla le associazioni di rappresentanza di interessi le quali, anche in presenza di merger tra associazioni provinciali, hanno comunque mantenuto una forte caratterizzazione a scala provinciale (o mandamentale). Il livello regionale delle associazioni, anche nelle esperienze migliori, ha sempre sofferto della mancanza di spazio adeguato tra il centro (nazionale) e la periferia (provinciale) tanto che nel dibattito interno alle organizzazioni datoriali e sindacali si era affermato un’opinione maggioritaria su di un loro radicale ridimensionamento. Tuttavia l’emergenza Covid è stata prima di tutto un’emergenza sanitaria che andava affrontata principalmente in termini di organizzazione dei servizi sanitari, di prevenzione del contagio e di controllo dei comportamenti della popolazione, ovvero si trattava per tutte e tre le fattispecie di funzioni in capo da decenni ai governi regionali e impossibili da regolare senza la loro (leale) cooperazione. Cosa in larga parte accaduta, al netto dell’inevitabile propaganda da parte dei Presidenti di regione e dei membri del Governo nazionale, tanto da configurare, come si è detto un interessante esperimento metodologico di cosa si debba intendere per ‘federalismo cooperativo’ post-riforma del 2001 14. Secondo le ricostruzioni giornalistiche, in questi mesi Regioni e Governo hanno litigato dalla mattina alla sera ma chiediamoci chi è andato realmente fuori dalle norme? Nessuno, tranne due tentativi – in Calabria e in Sicilia – prontamente respinti con altrettante immediate e semplici sentenze del Tar.
Non tutte le politiche pubbliche hanno avuto lo stesso impatto sulle relazioni tra centro e periferia, ad esempio meno efficace è stata la capacità di intervento in materia lavoristica, tuttavia l’impressione che si ha è che gli insegnamenti di questi mesi valgano molto di più di decenni di sentenze della Corte Costituzionale sulla leale collaborazione tra i diversi livelli di governo. Anche a questo livello, organizzazioni datoriali e sindacali sono state l’interfaccia continuo delle istituzioni regionali e l’indispensabile soggetto di coordinamento delle iniziative associative sui territori. Si pensi al lavoro negli ospedali e nelle Rsa, oppure agli interventi in materia di cassa integrazione, oppure ancora alla definizione delle ordinanze sugli Ateco: in tutti questi casi, il presidio regionale ha consentito di realizzare una miriade di accordi attuativi, seguiti da un’informazione immediata e indicazioni operative a chi interveniva nei territori 15. Di conseguenza è emerso per la prima volta una significativa rilevanza del livello regionale associativo tanto che è possibile osservare una relazione diretta tra le performance delle politiche regionali di tipo emergenziale e la maggiore strutturazione delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi in quelle regioni (Veneto, Friuli-VG, Emilia, Toscana, in primis).
3.4. Il livello nazionale.Dopo la prima fase di incertezza, anche i livelli nazionali delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi hanno funzionato bene. In almeno tre direzioni: in primo luogo il circuito governo-interessi ha migliorato in modo significativo i provvedimenti di urgenza, specie quelli riguardanti il lavoro, l’economia, la sicurezza, in secondo luogo, il flusso informativo dal centro alla periferia – e viceversa, altrettanto rilevante – ha fornito risposte immediate e corrette alle strutture regionali e territoriali, come pure, al centro, un costante flusso informativo sull’impatto dei provvedimenti; infine, il coordinamento nazionale dei servizi in ogni organizzazione di rappresentanza degli interessi ha assicurato l’applicazione omogenea delle normative in materia di lavoro e prevenzione.
Qualche tensione non è mancata, ma tutto sommato il circuito governo-interessi è stato quello meno sensibile alle sirene della ricerca del consenso e della propaganda, forse perché molto meno esposto alla pressione dei media, i quali invece hanno rischiato più volte il cortocircuito in una sorta di addiction da esperti. Non è questa la sede per una riflessione sul circuito governo-media-esperti ma va quantomeno osservato come molti incidenti di percorso abbiano alla loro base la scarsa dimestichezza di una parte della comunità scientifica, quella di norma meno coinvolta come ‘consigliere del principe’, con le regole del gioco della consulenza istituzionale e dei relativi rapporti con i media. I quali, a loro volta, in diverse circostanze hanno avuto pochi scrupoli a giocare al gatto e al topo con gli ultimi arrivati nel ring della scena pubblica.
Da questo punto di vista, i leader sindacali e datoriali hanno in comune con i politici una lunga consuetudine con il circuito mediatico e ne conoscono sia le lusinghe sia le trappole. Inoltre, siccome le decisioni alle quali concorrevano e di cui assicuravano un’ordinata attuazione, per quanto di loro competenza riguardavano materie derivate, non di immediato interesse sanitario, hanno avuto buon gioco a limitare le apparizioni pubbliche e a mantenere un profilo sotto traccia. Di qui a volte alcuni giudizi negativi 16 che sottostimano il ruolo degli interessi durante il Covid, quasi che il fatto di non promuovere i classici, retorici, spesso inconcludenti manifesti comuni tra organizzazioni datoriali e sindacali sia stato un segno di intrinseca debolezza strategica e non di una (più o meno) consapevole opzione strategica circa i loro comportamenti negli ‘stati di emergenza’.
4. Un catalogo provvisorio di antecedenti e conseguenze del ritorno dello stato
Si dirà che il giudizio proposto sui circuiti decisionali nazionali, regionali e territoriali è troppo ottimistico, tuttavia vale la pena, anche solo come ipotesi di ricerca per gli studi futuri, di non fermarsi alla superficie riflessa dai media ma provare a dare una più realistica comprensione dei meccanismi di rilegittimazione dei circuiti rappresentativi (istituzionali e associativi) che abbiamo visto all’opera in questi mesi. Il fatto che il Dpcm di fine agosto abbia riconosciuto significativi contributi economici ai servizi associativi (caf e patronati) non può essere inteso se non come il riconoscimento del lavoro, anche di supplenza, svolto in questi mesi dall’intero sistema dei cosiddetti corpi intermedi.
Per certi versi si tratta di un’occasione unica e non prevista di ripensamento dei rapporti tra associazioni di rappresentanza e istituzioni, molto simile a quanto accaduto dopo la prima guerra mondiale e dopo la crisi del 1929; tuttavia è difficile avviare questo ripensamento se non si parte da un’analisi realistica degli avvenimenti dei mesi passati. Come è stato già osservato per altre emergenze precedenti, non è detto che il circuito governo/interessi e il circuito governo-regioni mantenga il suo rilievo anche nel post-emergenza, tuttavia sembra quantomeno in difficoltà l’idea che la disintermediazione, con il corollario di democrazia del leader più democrazia diretta, sia la migliore soluzione al governo delle società contemporanee.
Ma c’è di più, perché la pandemia di questi mesi getta una luce diversa e nuova sui principali accadimenti del recente passato. Negli anni dieci del XXI secolo il mondo è stato sconvolto da quattro eventi critici inattesi, in larga parte non prevedibili secondo i canoni tradizionali di interpretazione lineare dello sviluppo economico e sociale. Ricordiamone solo i titoli: a) la crisi finanziaria del 2008-2011 a partire dal default dei prestiti subprime americani; b) il ripiegamento di stampo protezionista rispetto alla globalizzazione dei mercati di beni e servizi, in particolare dopo l’elezione di Trump nel 2016; c) la difficoltà a controllare l’espansione delle tecnologie digitali, tanto sul versante degli effetti sui posti di lavoro quanto su quello del loro impatto geo-politico; d) una pandemia di dimensioni e pericolosità del tutto imprevista e diffusasi a macchia d’olio in ogni parte del mondo.
Queste quattro crisi hanno davvero cambiato il modo con il quale guardare alla nostra epoca, in particolare perché hanno per la prima volta messo in discussione la primazia del mercato come unico regolatore delle società contemporanee. E non caso ritorna prepotente sulla scena una vecchia figura dei secoli passati, fino a qualche tempo fa considerata fuori moda: l’autorità statuale, ovvero le istituzioni, gli attori pubblici, la politica, con il necessario corollario dell’intervento pubblico nell’economia e nella società. Appare infatti evidente che il mercato è inadatto ad affrontare questo tipo di crisi, le quali necessitano, tutte, di meccanismi di coordinamento gerarchico e intenzionale, molto più direttivi rispetto a quelli espressi da attori indipendenti e non coordinati tipici dello scambio concorrenziale. Che si tratti di regolare i mercati finanziari, di riorganizzare gli scambi internazionali, di frenare/controllare alcune dimensioni preoccupanti delle tecnologie digitali, oppure infine di limitare la diffusione delle pandemie con misure straordinarie di sanità pubblica, è facile concludere che in tutti questi casi abbiamo a che fare con eventi globali impossibili da risolvere attraverso le sole forze di mercato. Torna di aiuto a questo punto un’altra suggestione di diretta derivazione schmittiana. Come è noto, uno dei temi costanti della sua riflessione riguarda il tema dell’autorità statale come kathecon, il ‘potere che trattiene’, ritarda, frena, l’avvento dell’apocalisse, “perché non si manifesti se non nel suo tempo” 17. Non si tratta di sconfiggere il nemico ma di ritardarne e frenarne l’avanzata perché solo in questo modo si raggiunge la salvezza, per quanto temporanea. Da secoli si discute sul significato di queste oscure parole di San Paolo, e anche se non sembrano esserci dubbi sul riferimento a una qualche autorità terrena, politica o religiosa in grado di trattenere il nemico interno, si tratta tuttora di un argomento controverso. Per l’ultimo Schmitt questo nemico era identificato con la ‘tecnica’. Ma è sorprendente quanto queste parole a dir poco iniziatiche del primo secolo dopo Cristo si adattino alla perfezione al ‘che fare?’ di fronte ad una pandemia. Il Covid non si sconfigge in campo aperto ma solo ritardandone la diffusione, frenando il contagio. L’obbiettivo strategico non è la sua scomparsa ma far scendere l’indice di diffusione del contagio, il famoso R inferiore a 1. Il miracolo equivale alla salvezza di quanta più gente possibile; l’unico a cui rivolgersi in un mondo nel quale ‘dio è morto’ è il potere statale attraverso la decisione sovrana di chi governa. E la decisione nello ‘stato di eccezione pandemica’ riguarda le modalità di sanità pubblica (e di ordine pubblico) in grado di assicurare la salvezza-miracolo del contenimento del virus e della sua capacità infettiva. Ecco disvelato il senso oscuro del ‘trattenere’ kateconico: come nelle arti marziali orientali, il nemico non va respinto ma ‘contenuto’ in modo fargli diminuire la sua forza virale.
Questa vera e propria strategia di rallentare gli effetti negativi degli shock economici e sociali indotti dallo sviluppo sembra essere una costante dell’azione dei governi nel XXI secolo. Si pensi al contenimento dei fallimenti bancari negli Stati Uniti dopo il 2008, oppure alle misure di rallentamento delle sperimentazioni con le biotecnologie, oppure ancora al ritorno dei dazi per limitare gli squilibri eccessivi degli scambi internazionali. Di recente, poi, Richard Baldwin ha proposto di rallentare per via politica la diffusione delle innovazioni tecnologiche in modo da diluire in tempi più lunghi l’inevitabile distruzione di posti di lavoro 18. L’idea sottostante è che la nuova fase del progresso tecnico non riesce più a rimpiazzare con nuovi posti di lavoro hi-tech i posti di lavoro che distrugge. Ma se non si può fermare il progresso scientifico si può cercare quantomeno di diluire i suoi effetti in un tempo più lungo, attenuando in questo modo la violenza dei suoi impatti sulla società. Di nuovo ritorna l’idea del kathecon, di un potere capace di rallentare la velocità del cambiamento. Per quanto in apparenza molto simile, non si tratta di corteggiare le sirene della ‘decrescita felice’ ma, invece, di accettare l’idea che situazioni eccezionali necessitano di strategie (e poteri) eccezionali.
Da un certo punto di vista si tratta di un’occasione unica e non prevista di ripensamento dei rapporti tra associazioni di rappresentanza e istituzioni, molto simile a quanto accaduto dopo la prima guerra mondiale e dopo la crisi del 1929. A livello territoriale, regionale nazionale, infatti, le associazioni di rappresentanza degli interessi hanno svolto un enorme lavoro di tutela delle proprie basi elettive, in molti casi attraverso un continuo confronto con le istituzioni provinciali, regionali e nazionali. Ogni associazione, secondo le sue tradizioni, si è trovata ad affrontare compiti di rappresentanza, tutela e servizio con una intensità mai sperimentata prima. Si tratta di un’esperienza eccezionale che dovrà prima o poi venire raccontata in tutte le sue sfaccettature in modo da dare un senso storico agli accadimenti dei mesi scorsi. Ma che obbliga anche a riflettere su come riorganizzare le strutture associative, così da rispondere in modo più adeguato e tempestivo alle crescenti domande che provengono dalle loro basi elettive. Specie se si tiene conto che la rinnovata centralità delle istituzioni pubbliche – Stato e regioni, in primis – necessita dell’apporto delle competenze e dei feed-back offerti dagli interessi organizzati, pena il rischio di ritardi, inefficienze e sprechi.
Analogo discorso può essere fatto per le relazioni centro-periferia. Come è stato notato, la conferenza Stato-Regioni ha dato grande prova di efficienza durante la pandemia, con i vertici quotidiani con il ministro Boccia in cui si decidevano le linee guida poi messe in atto dalle Asl sotto la regia degli assessorati regionali alla sanità. Una sorta di “governo parallelo” che ha sollevato perplessità poco comprensibili visto che una prassi analoga è la regola negli stati federali, in Germania ad esempio. Anche la parziale autonomia delle ordinanze regionali va nella stessa direzione. In molte questioni (non decisive) i presidenti di regione hanno avuto massima autonomia decisionale, ma, appunto, perché inserita in un processo di codecisione negoziata tra Roma e i governi regionali. Ad esempio, in Emilia e in Veneto a un certo punto si sono aperti gli stadi agli spettatori per le partite della serie A di calcio, mentre Zingaretti nel Lazio è rimasto fermo sulla linea del no, in sintonia con le indicazioni del Comitato tecnico scientifico del ministero della sanità.
Dopo le recenti elezioni regionali, Zaia e Bonaccini hanno subito riaperto il dossier autonomia.Ma cosa significa davvero autonomia? A volte si ha l’impressione di una parola d’ordine molto vaga, buona per indicare un comune orizzonte di senso, tipico della dimensione mitico-teologica della politica. Qualcosa di analogo alla ‘terra promessa’ del popolo ebraico e al ‘sol dell’avvenire’ del socialismo utopico di fine ottocento. Piuttosto, la domanda da porsi, specie dopo l’approvazione del referendum sulla riduzione dei parlamentari e la mancata riforma del bicameralismo perfetto, è se non vada trovato un modo per reimpostare in modo completamente diverso e più radicale la rivendicazione autonomista delle regioni, finora incentrata sulla richiesta di potestà legislativa sulle 23 materie concorrenti, ai sensi dell’articolo 116, terzo comma della Costituzione. La strada potrebbe essere quella di una costituzionalizzazione della Conferenza Stato-Regioni rendendo obbligatorio il metodo della codecisione tra poteri centrali e poteri regionali su un ventaglio di materie molto più ampio di quanto fin qui ipotizzato, con relative soluzioni di ripiego in caso di mancato accordo, più procedure di possibile autonomia differenziata ancora più estese una volta fissato il plafond di base.
Inoltre va assolutamente posto rimedio al vuoto istituzionale a livello sovra comunale che si è registrato nell’emergenza come conseguenza del fallimento della riforma Del Rio delle province. Come si è detto nel terzo paragrafo, si è perfino dovuto ricorrere al ruolo di supplenza dei prefetti per porre una qualche toppa al vuoto di potere e di coordinamento che avrebbe dovuto svolgere un necessario livello intermedio tra regioni e comuni. Forse, la soluzione più semplice sarebbe quella di estendere a tutte le regioni a statuto ordinario la previsione della legge costituzionale 2/1993 in materia di ordinamento degli enti locali, consentendo cioè ad ogni regione piena autonomia nella scelta del livello ottimale sovracomunale (province o circoscrizioni o unioni) e comunale (unioni o fusioni).
5. Una verifica empirica a partire dalle ultime elezioni regionali
Una verifica parziale, anche se non esaustiva, delle ipotesi di lavoro esposte nei paragrafi precedenti può venire dall’analisi dei risultati elettorali nelle recenti consultazioni per il rinnovo di sei consigli regionali 19 e per il referendum costituzionale sulla riduzione dei parlamentari.
La partecipazione al voto è stata molto più elevata delle attese, sia nelle regioni in cui si votava per entrambe le consultazioni sia nelle regioni dove si votava solo per il referendum. Per il referendum in particolare, l’affluenza in Italia 20 è stata del 53,8%, inferiore al solo referendum sulla proposta di Renzi (68,5%), identica a quella del 2006 quando si votò sulla riforma costituzionale in senso presidenzialista di Berlusconi (53,8%), quasi venti punti percentuali superiore a quella registrata nel 2001 in occasione del referendum D’Alema sulla revisione costituzionale del titolo quinto ( 34,1%). Si tratta di un dato imprevisto e inatteso – alcuni sondaggi stimavano una partecipazione molto più bassa, nell’ordine del 30-40%, circostanza che avrebbe portato più in alto i voti negativi – specie se si pensa alla preoccupazione, ancora molto elevata, per i possibili contagi, all’anomalia di una campagna elettorale condotta solo sui media, alle code e ai disagi ai seggi.
Anche il voto di stampo plebiscitario ai presidenti di regione uscenti ha sollevato stupore. Tuttavia, l’alta partecipazione popolare e i consensi fuori dalla norma ai presidenti di regione che si sono ricandidati trovano una loro spiegazione ragionevole nelle interpretazioni che abbiamo cercato di proporre nei paragrafi precedenti. Il voto di fine settembre infatti non appartiene alla normalità dei rinnovi elettorali ma alle condizioni eccezionali tipiche degli stati di emergenza. Senza questa cautela, il rischio è di scambiare lucciole per lanterne estremizzando le interpretazioni tradizionali, tipiche della sociologia elettorale e chiamando in causa il voto personale, la disintermediazione, i partiti liquidi, e così via. Invece della consueta divisività delle scelte di voto individuali abbiamo assistito ad una comunità che si ritrova per celebrare una cerimonia di fratellanza e di solidarietà. Si è trattato cioè di un rito collettivo, di una ‘festa del ringraziamento’ di fronte allo scampato pericolo e, al contempo, di una funzione propiziatoria svoltasi durante la quiete prima di una (possibile) futura tempesta.
Nel passato, in occasioni di questo genere si facevano le processioni e si portavano gli ex-voto al Padreterno o alla Madonna. Oggi ci si esprime allo stesso modo con un voto laico. Ad esempio, a Venezia, la festa del Redentore trae origine da una promessa fatta il 4 settembre 1576 che impegnò il Senato veneziano, in caso di liberazione dalla peste del 1575-77, alla costruzione dell’omonima chiesa e a ricordare il miracolo con una festa annuale, la terza domenica di luglio di ogni anno. Sempre a Venezia, analoga genesi si rintraccia nella festa della Madonna della salute, che si svolge tutti gli anni il 21 novembre come atto di ringraziamento prima per il rallentamento, poi per l’estinguersi della peste bubbonica nel 1630-31, dopo aver provocato la morte di poco meno di 47.000 persone, un quarto della città. Se questa interpretazione fosse anche solo in parte vera, appare molto più semplice spiegare il successo fuori dell’ordinario dei presidenti di regione uscenti come pure interpretare il voto referendario come un riconoscimento di fiducia al governo Conte e alla sua coalizione.
Molti commentatori si sono (troppo) concentrati sul risultato di Luca Zaia in Veneto (76,8%), che in effetti ha ottenuto la percentuale di voto in assoluto più elevata in tutta la storia delle elezioni regionali. Tuttavia bisogna ricordare che nel 2010, alla prima candidatura di Zaia, la coalizione di centro-destra aveva già ottenuto oltre il 60% dei voti, poi scesi al 50% nel 2015 a causa della scissione del sindaco leghista di Verona (11,8%). Grossomodo la crescita di Zaia è stata intorno al 15-17% sulle precedenti tornate elettorali regionali; rispetto alle elezioni politiche del 2018 (48,1%), circa 28 punti percentuali in più. Risultati eccezionali, certo, ma anche in altre regioni sono accaduti dei veri e propri miracoli, per certi versi superiori a quanto accaduto in terra veneta. De Luca in Campania aveva vinto nel 2015 con il 41,1%, poi la coalizione di centro-sinistra è stata travolta nelle elezioni politiche del 2018 raccogliendo appena il 16,4% dei voti. Nel 2020 ottiene il 69,5% dei voti, 28 punti percentuali in più rispetto al 2015 e addirittura 53 punti sopra due anni fa. Merito delle politiche pubbliche regionali? Merito della personalizzazione della politica? Oppure questi risultati assolutamente fuori della normalità democratica rinviano all’eccezionalità del tempo appena trascorso? Passiamo alla Puglia. Contro ogni previsione, grazie al voto al solo presidente e al voto disgiunto, Emiliano viene riconfermato presidente della sua regione con il 46,8% dei voti. E’ vero, si tratta più o meno della stessa percentuale del 2015, ma bisogna tener conto del contesto di forte contestazione all’operato della giunta di centro-sinistra, tanto che nelle elezioni politiche del 2018 i consensi erano scesi al 16,1%. Nel 2020 triplicano – appunto – per miracolo, con un aumento imprevedibile di oltre 30 punti percentuali.
Si possono fare molti altri esempi anche a livello comunale, ma rimane il fatto che la volatilità elettorale contemporanea da sola non riesce a spiegare cosa è accaduto. In molte occasioni, Alessandro Pizzorno, da sempre scettico sulle virtù progressive della democrazia elettorale, ha ricordato l’interpretazione della scuola antropologica contemporaneista francese secondo cui il voto rappresenta uno degli ultimi grande riti collettivi della post-cristianità: non si sceglie, non si decide, ma si partecipa ad una cerimonia comunitaria di ri-legittimazione delle istituzioni politiche 21. Questo modo di vedere le cose non ha mai avuto particolare seguito, non fosse altro perché troppo confliggente con l’esperienza empirica del conflitto partigiano nelle campagne elettorali, le scelte divisive degli elettori, le differenze che pur si possono misurare tra le politiche di governo di una parte o dell’altra. ma le eccezioni e le emergenze a volte accadono e cambiano il senso della storia. Con il condimento di tutta la retorica risorgimentale dell’epoca è quanto ci ricorda l’inno di Mameli (1847) quando, di fronte al pericolo, invoca il refrain “stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò, sì!”. Per molti versi la partecipazione al voto e l’esito del referendum possono essere interpretati allo stesso modo. Come pure i modesti risultati di chi come Renzi e Salvini hanno cercato di interpretare nel solito modo di sempre il ruolo dell’opposizione. Di nuovo, nell’emergenza c’è solo un gioco in città. Qualcosa del genere, come si è ricordato nel secondo paragrafo, si osserva anche in tutte le altre nazioni del mondo come reazione alla grande paura del Covid, mentre in Europa ha perfino cambiato in modo radicale il modo in cui le opinioni pubbliche continentali guardano a Bruxelles, compresa l’Inghilterra, che per la prima volta dopo molti anni registra una netta maggioranza favorevole alla Comunità Europea.
note
1 Una versione precedente e concisa di questo testo è stata pubblicata sul n. 5 del 2020 di “ItalianiEuropei”.
2
Vedi G. Zagrebelsky (2020), Non è l’emergenza che mina la democrazia. Il pericolo è l’eccezione, in “La Repubblica”, 28 luglio e la reazione di G. Agamben (2020), Stato di eccezione e stato di emergenza, in www.quodlibet.it/una-voce-giorgio-agamben, 30 luglio.
3
Il saggio è compreso nel volume, curato da Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera, che raccoglie una silloge di scritti di C. Schmitt (1972), Le categorie del ‘politico’, Bologna, Il Mulino, pp. 29-86. Per comprendere l’ambiente culturale del cattolicesimo conservatore tedesco che fa da retroterra a questo scritto giovanile si veda C. Schmitt (2015), Imperium. Conversazioni con Klaus Figge e Dieter Groh,1971, trascrizione integrale e note di commento a cura di Frank Hertweck e Dimitrios Kisoudis in collaborazione con Gerd Giesler, Macerata, Quodlibet. Un primo tentativo di ricostruire la ricezione italiana si trova in C. Galli (2010), Carl Schmitt nella cultura italiana (1924-1978). Storia, bilancio, prospettive di una presenza problematica, in “Storicamente”, n. 6 (www.storicamente.org/Galli_Carl_Schmitt#nt-1), riedizione integrale del saggio pubblicato nel 1979 in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, n.1.
4 Si veda a proposito dell’importanza del ‘miracolo’ nella riflessione schmittiana8 C. Pontorieri (2017), Il miracolo e il silenzio. Note su Schmitt e Dostoevskij, in “Carl-Schmitt-Studien”, n. 1, pp. 176-192.
5 E così proseguiva: “Abbiamo dovuto costruire un metodo di azione e di intervento che mai è stato sperimentato prima, ricorrendo allo strumento del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri», per poi chiarire che i Dpcm erano adottati con il «massimo coinvolgimento delle Regioni» e coinvolgendo «anche le parti sociali», proprio come vedremo più avanti. Vedi http://www.agipronews.it/attualit%C3%A0-e-politica/Coronavirus-Conte-Crisi-Governo-id.163489.
6 Cfr. P. Krugman (2020), Why Can’t Trump’s America Be Like Italy?, in “The New York Times”, 23 luglio.
7 Le poche eccezioni, come quella del Presidente della Lombardia Attilio Fontana, vanno considerate nella loro specificità come eccezioni che confermano la regola.
8 Le tre caratteristiche citate nel testo fanno riferimento alla gravità delle decisioni di cui parlano J. Buchanan e G. Tullock (1998, ed. orig. 1962), Il calcolo del consenso. Fondamenti logici della democrazia, Bologna, Il Mulino.
9 A titolo di promemoria appare utile ricordare quella parte dell’art. 48 della Costituzione di Weimar che recitava: «Il presidente può prendere le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, quando essi siano turbati o minacciati in modo rilevante, e, se necessario, intervenire con la forza armata. A tale scopo può sospendere in tutto o in parte la efficacia dei diritti fondamentali stabiliti dagli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124 e 153» , che si riferivano nell’ordine: all’inviolabilità della persona, del domicilio, del segreto di corrispondenza, della libertà di pensiero, di riunione, di associazione, di proprietà. Il problema forse più rilevante dell’art. 48 era l’assenza di qualsiasi indicazione su cosa si dovesse intendere per “rilevante”.
10 Preoccupazione poi rilevatasi fondata specie se si pensa alle tensioni politico-istituzionale tra la metà degli anni cinquanta e la metà degli anni sessanta durante le presidenze di Giovanni Gronchi e Antonio Segni.
11 Cfr. G. Motzo (1988) Politica della difesa e comando costituzionale delle Forze Armate, in “Quaderni costituzionali”, n. 2, pp. 297-317 con, a seguire, la relazione della Commissione Paladin, pp. 318 e ss. Una diversa ricostruzione di questo episodio, che trascura l’insediamento e il lavoro della Commissione Paladin, è stata proposta da A. Panebianco (2020), Quando l’emergenza chiama meglio farsi trovare preparati, in “Corriere della sera”, 18 marzo.
12 Una ricerca su 58 paesi e oltre 100.000 interviste è stata condotta dal National Bureau of Economic Research di Cambridge MA e conferma la crescita quasi ovunque della fiducia nei governi nazionali. Si veda Aa. V.v. (2020), Global behaviors and perceptions at the onset of the Covid-19 Pandemic, Working Paper 27082, anche in https://www.nber.org/papers/w27082. Per una panoramica europeo della crescita di popolarità dei leader nazionali e per lo stupefacente rivolgimento nei giudizi dei cittadini europei, primi fra tutti gli italiani, nei confronti di Bruxelles si vedano le periodiche rilevazioni realizzate da Eurobaroemtro ( come ad esempio: https://www.europarl.europa.eu/at-your-service/files/be-heard/eurobarometer/2020/covid19/en-public-opinion-in-the-time-of-covid19-20200701.pdf). Costanti aggiornamenti sulle dinamiche del clima di opinione nel nostro paese sono forniti da tutti gli istituti di sondaggio, come nel caso, ad esempio, di Ipsos in https://www.ipsos.com/sites/default/files/ct/news/documents/2020-05/italia_ai_tempi_del_covid_-_26_maggio_-_agg_nr_15.pdf).
13 Il testo integrale del discorso di Rui Rio, con il quale nella seduta del 18 marzo 2020 ha espresso il voto favorevole del gruppo parlamentare del Psd alla proclamazione dello stato di emergenza, si trova in http://app.parlamento.pt/webutils/docs/doc.pdf?path=6148523063446f764c324679626d56304c334e706447567a4c31684a566b786c5a79394551564a4a4c305242556b6c42636e463161585a764c7a457577716f6c4d6a42545a584e7a77364e764a5449775447566e61584e7359585270646d4576524546534c556b744d4451794c6e426b5a673d3d&fich=DAR-I-042.pdf&Inline=true.
14 A giudizio di chi scrive, pur nella diversità di giudizi sui rapporti governo-regioni, sono sicuramente utili le considerazioni svolte nel recente saggio di G. Scaccia e C. D’Orazi (2020), La concorrenza fra Stato e autonomie territoriali nella gestione della crisi sanitaria fra unitarietà e differenziazione, in “Forum di Quaderni Costituzionali”, n. 3, 2020 (anche in: www.forumcostituzionale.it).
15 Una prima evidenza empirica della rilegittimazione delle organizzazioni di rappresentanza di interesse la si può rinvenire nei dati di Astrid, Ipsos (2020, a cura di), Indagine sui corpi intermedi. Report. Indagine demoscopica sulla popolazione italiana, Maggio, mimeo.
16 Valga per tutti l’articolo di D. Di Vico (2020), E le parti sociali?, in “Corriere della sera”, 7 settembre.
17 Il riferimento è alla seconda lettera paolina ai Tessalonicesi (2, 1-12) in Lettere di San Paolo. Nuova versione ufficiale della Cei, Milano, Edizioni Paoline, 2009, pp. 198-200. Vedi anche le svariate annotazioni in tutta l’opera di Schmitt. Qui interessa in particolare C. Schmitt (2001), Glossario, Milano, Giuffrè, p. 91 e passim,; Id. (1987) Ex Captivitate Salus. Esperienze degli anni 1945-47, Milano, Adelphi, pp. 30-32.
18 Cfr. R. Baldwin (2020), Rivoluzione globotica. Globalizzazione, robotica e futuro del lavoro, Bologna, Il Mulino.
19 Alle sei regioni a statuto ordinario (Liguria, Veneto, Toscana, Marche, Campania, Puglia) va aggiunto anche il rinnovo del consiglio regionale della Val d’Aosta
20 Per omogeneità di confronti non si è tenuto conto del voto (per corrispondenza) degli italiani residenti all’estero iscritti all’Aire.
21 Cfr. ad esempio A. Pizzorno (2007), Il velo della diversità. Studi su razionalità e riconoscimento, Milano, Feltrinelli.