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Di chi è il partito dell’astensione?

Man mano che ci avviciniamo all’ 8 e 9 giugno, giorni referendari, la tensione sale, ovviamente. L’attivismo delle forze sociali e politiche che sostengono il SI ai 5 referendum proposti, stanno enfatizzando l’importanza della partecipazione al voto. La preoccupazione che ci sia una forte astensione è latente e comprensibile. A parte il quesito riguardante il dimezzamento dei tempi di permanenza in Italia degli stranieri per ottenere la cittadinanza, quelli lavoristici sono di più difficile comprensione (provare a leggere i quesiti) e soprattutto, data la funzione meramente soppressiva, sono incerte e in alcuni casi peggiorative le conseguenze qualora prevalesse l’abrogazione.

Gli oppositori di questi referendum giocano di rimessa. Non fanno particolari sforzi tendenti a difendere lo status quo. Se si mobilitano è per suggerire agli elettori di starsene a casa. L’assenteismo nei referendum è sempre stato elevato, fatta eccezione per quello tra monarchia e repubblica, quello del divorzio e del finanziamento pubblico ai partiti. In molte altre occasioni non si è neanche raggiunto il quorum. Proprio l’esistenza di questo limite, legittima costituzionalmente l’astensione individuale.

Apparentemente, quindi, l’additare come anti democratico non andare a votare può sembrare strumentale, anche perché nessuno dei partiti favorevoli al SI sono in grado di scagliare la prima pietra, avendo in passato sponsorizzato atteggiamenti passivi. Ma la differenza con qualche decennio fa, è determinata dalla notevole caduta progressiva della partecipazione al voto che, da almeno un decennio, registriamo nelle competizioni elettorali, sia se riguarda l’Europa che il sindaco del piccolo paese. Non a caso Mattarella, non solo in vista dei referendum, ha sottolineato il vulnus che si sta consolidando nel sistema democratico del nostro Paese.

La disaffezione all’uso delle regole della democrazia è tema che appassiona gli studiosi, meno i protagonisti della politica; se in questa circostanza c’è un impegno a sostenere l’importanza di andare a votare, quasi a prescindere dai contenuti referendari, c’è da sperare che non sia un’una tantum ma l’inizio di un percorso che porti a nuove scelte da parte di tutti i partiti.

Resta però la questione attuale della paternità del partito dell’astensione. Indipendentemente dalla dimensione del fenomeno che soltanto le urne ci potrà documentare, c’è da scommettere che i sostenitori del NO faranno carte false per appropriarsene. Non baderanno alla consistenza dei NO, ma alla percentuale di assenteismo che si registrerà. Ovviamente, anch’essi non sono così sprovveduti da non sapere che gli astensionisti sono una miscela multicolore di persone non collocabile sotto un’unica bandiera, ma non andranno per il sottile.

Si tratterà di una appropriazione politica indebita e di una mistificazione della lettura del risultato. Ma tant’è. Il confronto corretto andrebbe fatto tra i SI e i NO anche se il quorum non fosse raggiunto. Purtroppo, in questo caso, l’unico dato che verrà contrapposto ai SI, per quanto spurio possa essere considerato, sarebbe quello dell’astensione. E’ il più facile per cantare vittoria da parte di quelli che esplicitamente o passivamente hanno tifato per il non voto. 

Comunque non potranno appropriarsi della rappresentanza, se non in chiave di propaganda. Quel partito è senza identità, ma non per questo amorfo, anzi è sintomo di un deficit serissimo di capacità di orientamento strategico di quanti si dichiarano classe dirigente, ma si dimostrano incapaci di riaffezionare la gente alla politica. La conclusione è che andare votare serve per l’autotutela della sovranità dell’elettore.

Ma ce n’è anche per quanti hanno indetto questi referendum e specie per quelli relativi al lavoro, il riferimento è innanzitutto alla CGIL. E’ augurabile che non accada che tutti non raggiungano il quorum. In ogni caso non si potrà far finta di niente. Ma neanche trovare capi espiatori, al di fuori di sé stessi. Il caso (o la maliziosità di qualcuno) vuole che questi referendum siano realizzati esattamente 40 anni dopo quello sulla scala mobile, il cui risultato è noto a tutti. 

Ancora oggi, la riflessione su quel referendum è stata congelata, quasi cancellata da chi avrebbe dovuto trarre occasione per attrezzarsi per fare forse errori nuovi ma sicuramente non ricascare in quelli vecchi. Questa volta speriamo che non si metta la polvere sotto il tappeto, ma si apra un dibattito vero su come i valori e gli obiettivi progressisti possono prevalere nel XXI secolo. Di certo, non con la riproposizione di contenuti e strumenti che furono propri del secolo passato.  

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