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Di chi è Internet? A Washington una sentenza che cambierà la nostra vita*

Ventisei parole che potrebbero cambiare radicalmente il sistema dell’informazione e in generale le nostre relazioni sociali. Sono quelle della Section 230 del Comunications Decency Act, con cui il governo americano nel 1996, con un sospetto anticipo rispetto all’affermazione dei social, che sarebbe avvenuto non prima di otto anni dopo, quasi che già avesse chiaro dove sarebbero andati a finire quei ragazzotti dei garage della Silicon Valley, stabiliva che le piattaforme non sono responsabili dei contenuti pubblicati nei loro spazi.

A contestare questo concetto è una ong israeliana, Shurat Hadin, che sostiene le ragioni della famiglia Gonzalez, la cui figlia, californiana, rimase uccisa nel massacro del Bataclan a Parigi, nel novembre del 2015. Il loro ricorso si basa sulla visibilità che i contenuti jihadisti ancora conservano su YouTube e anche sulle altre piattaforme, come Facebook e Twitter.

Tramite questi contenuti, sostengono i legali della famiglia Gonzalez, sono reclutati i terroristi che compiono poi atti quali quello del Bataclan. Dunque, si sostiene che vi sia una responsabilità diretta delle piattaforme che grazie al provvedimento del 1996 americano si sottraggono a ogni coinvolgimento negli effetti di quello che viene pubblicato.

Il principio in discussione è centrale per la natura della rete. Infatti, se fosse accolto il ricorso, Internet diverrebbe né più né meno che un media, in cui si riprodurrebbe la dinamica del mercato della comunicazione, con editori, proprietari di spazi e contenuti e autori che inevitabilmente assumerebbero ruoli e responsabilità professionali.

In questo modo verrebbe stroncato quel fenomeno di continua e alluvionale produzione di contenuti individuali e spontanei che hanno permesso alla rete di diventare un indispensabile strumento di contatto, relazione e visibilità dei contenuti, prima di allora ignorati e sacrificati.

La rete non è un media, ci spiegano i principali analisti del fenomeno, ma una protesi della nostra vita che ha aperto uno spazio del tutto inedito nel sistema di comunicazione, facendo affiorare una gigantesca realtà di attività e pensieri che il mercato commerciale non aveva considerato. Riportare questo mondo nel tubetto delle competenze proprietarie e professionali significa ignorare la straordinaria opportunità che il mondo sta usando in questi anni raccontando ogni minimo aspetto dell’avventura umana, senza l’indispensabile presenza di professionisti. La guerra in Ucraina non sarebbe sotto i nostri occhi e non avrebbe visto una partecipazione attiva ed efficacie della popolazione ucraina se la rete non fosse stata un canale di comunicazione aperto.

Certo che si consumano orrori ed errori in questo flusso inesauribile, ma possiamo dire che vogliamo chiudere l’accesso alle università perché negli Usa si compiono delle stragi nei campus? No, bisogna impedire quei crimini garantendo la libertà di movimento. Lo stesso vale per la rete. Ma in più c’è un aspetto che non dovrebbe essere delegato solo alla corte suprema americana che si pronuncerà su questo caso: la natura di spazio pubblico delle piattaforme.

Google, Facebook, TikTok, sono luoghi su cui si incontrano miliardi di persone e sono ormai integrate nelle relazioni personali e professionali di una parte consistente della popolazione terrestre. Possiamo ancora considerare questi spazi privati, attribuendo ai proprietari il potere di decidere chi e come possa parlare e soprattutto come usare quella mole infinita di dati che vi vengono depositati? Considerare i service provider editori significa riconoscere il loro diritto a imporre regole e costi nell’uso di questi nuovi media. Una vera follia.

Bisogna invece, proprio perché i padroni delle piattaforme sono solo postini, sottrarre ogni responsabilità e potere nell’interferire sui contenuti ai proprietari e soprattutto nel disporre a loro piacimento di dati e algoritmi.

La sentenza americana rimette in gioco proprio il profilo e la prospettiva di queste risorse indispensabili. L’Unione Europea e anche i singoli stati dovranno intervenire sul pronunciamento della corte di Washington e adeguare i propri ordinamenti, dando una risposta concreta alla vera domanda: Internet è una protesi della nostra vita?

*da Huffington Post, 21/02/2023

**Giornalista, Insegna all’Università Federico II, Napoli 

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