Secondo i dati “Relazione annuale al Parlamento ai sensi della Legge 185 del 1990”, The Weapon Watch, su 874 aziende della Difesa, ne ha identificate 212 che hanno l’autorizzazione a esportare armamenti. Il fatturato complessivo di queste 212 aziende si aggira oltre i 20 miliardi. Complessivamente il numero degli occupati in Italia è di 77-78 mila unità (oltre 40mila nel militare). Il settore automotive nella sola produzione di autoveicoli, in Italia, occupa circa 175mila addetti e l’intera filiera arriva quasi a 300mila e vale circa 50 mld.
Nell’automotive si ipotizzano tra i 25mila e i 50mila addetti in meno a fronte dell’impatto della mobilità elettrica, per contro nell’industria della difesa gli annunci, ovvero la volontà di assumere da parte delle imprese potrebbe attestarsi tra le 25mila e le 40mila unità. Se i numeri possono coincidere spannometricamente, il Paese non può permettersi di perdere decine di migliaia di posti di lavoro nell’automotive anche se in parte recuperabili nella Difesa.
Serve sviluppare e fare ripartire la filiera dell’automotive e consentire la crescita dell’industria della difesa. Le grandi tragedie dei conflitti devono però dare l’opportunità, anche nel campo della Difesa, di rafforzare l’idea di Europa come Stato Confederale, anche se il primo passo avviene attraverso un Piano, con un nome infelice, di riarmo dei singoli Stati sicuramente contestabile è perché l’Europa con i suoi meccanismi e procedure non è ancora in grado di darsi un Piano complessivo. Va però sottolineato che il Piano attuale prevede e incentiva le alleanze tra industrie nazionali europee lasciando le porte aperte, in particolare agli Usa.
Da sindacalista contrattualista dico è un primo passo, perfettibile, ma agiamo per renderlo migliore anziché bocciarlo. Oltretutto, realisticamente per i prossimi dieci anni non possiamo fare a meno degli USA. Ma su un settore che prevede piani decennali per sviluppare prodotti non si può che avere una visione industriale di decenni oppure si è miopi e dipendenti da altri.
L’Italia non può restare indietro nella crescita strategica dell’industria della difesa europea sia per un ruolo da protagonista che hanno già le aziende italiane sia per le ottime competenze e capacità professionali e tecnologiche di ciò che sviluppano e producono. Soprattutto, poi, per il ruolo politico di primattore che l’Italia deve avere nelle scelte strategiche dell’Europa.
Iniziando oggi, senza ulteriori rinvii e con un cammino lungo anni, ancora più travagliato se avanzeranno i rigurgiti sovranisti e populisti nelle prossime elezioni nei vari Paesi, si può costruire una maggiore indipendenza dagli Usa essendo consapevoli che l’onda di Trump rischia di non esaurirsi con la scadenza del suo mandato già molto lontana.
Non illudiamoci su un automatismo di travaso dall’industria dell’automotive alla Difesa di lavoratori perché le figure professionali ricercate sono diverse per titolo di studio e competenze. L’automotive, nei profili manifatturieri hanno, tendenzialmente ma non esclusivamente, professionalità non altamente qualificate mentre nell’industria della Difesa si cercano profili, anche operai, diplomati e principalmente ingegneri e tecnici per funzioni impiegatizie. Certamente molti pseudo addetti ai lavori si riempiono la bocca della parola formazione, riconversione professionale ma la storia degli accordi sindacali ci ricorda che molto è rimasto sulla carta. Il travaso derivante dalla chiusura della siderurgia, soprattutto in Campania, degli anni novanta del secolo scorso ci conferma quanto fu difficile gestire il passaggio da siderurgico a aeronautico.
Questo deriva anche da un limite del progetto formativo che spesso è statico e non adeguato o aggiornato professionalmente sulle competenze da formare e questo è un tema per la politica.
Infine credo sia necessario pensare a un rilancio dell’industria automobilistica italiana e non a spostare occupati, che fanno statistica ma non occupazione. Se oggi un lavoratore di Stellantis passasse a Leonardo statisticamente sarebbero due posti di lavoro ma il lavoratore è sempre lo stesso. Ma tutto ciò farebbe la gioia, sempre statistica e propagandistica, della presidente del Consiglio.
Stellantis, dopo i risultati non felici, che abbiamo approfondito nelle settimane scorse, può rilanciarsi a partire dalla 500 Ibrida di Mirafiori. Ci va tempo, sacrifici, purtroppo, ancora per i lavoratori torinesi ma l’incertezza delle decisioni in Europa non danno chiarezza sulla strada da intraprendere. Anche se un primo segnale è stato dato con la riduzione di CO2 spalmata su tre anni anziché uno, sino al 2027 ma nel 2026 bisognerà decidere gli indirizzi strategici e verificare la fondatezza delle date del passaggio all’elettrico. Intanto la spalmatura sui tre anni rafforza l’ibrido che è la quota di mercato dominante verso cui si indirizza il mercato.
E qui abbiamo la conferma del perché Stellantis e Volkswagen abbiano una profonda crisi da cui risollevarsi. Mentre il mercato andava verso l’ibrido, Vw e Stellantis investivano solo sull’elettrico. Secondo Jato Dynamics nel primo semestre del 2025 in Europa su 1,8 mln di auto immatricolate di Vw non ci sono modelli ibridi (Hev) (54% benzina, 18% diesel, 19% Bev e 9% Ibrido ricaricabile a spina: Phev). Stellantis su circa 1 milione di immatricolazioni ha il 75% benzina, 15% diesel, 13% Bev e 2% Phev. Strategia sbagliata di Tavares in Stellantis e dei tedeschi perché anche BMW come Mercedes non hanno modelli Ibridi (Hev). Per contro, il gruppo Vw piazza tre brand (uno ciascuno Vw, Skoda e Audi) nelle prime 25 auto elettriche (Bev) più vendute, in Europa, nel primo semestre 2025; Stellantis anche tre con Peugeot, Citroen e Fiat.
Nonostante l’assenza di modelli Ibridi (Hev), Bmw e Vw hanno un risultato positivo rispetto al primo semestre 2024, ma le migliori prestazioni le fanno Renault con + 6% e il 31% delle 700mila auto immatricolate sono Hev. Ford, con una crescita del 6% e 257mila immatricolazioni ha il 9% di Hev. Comunque guardando la tabella dei 10 top ten di vendite in Europa le immatricolazioni e la loro relativa alimentazione è un dato contradditorio, non c’è sempre calo dell’endotermico, anzi. Ciò dimostra che il problema sono i modelli che si mettono sul mercato se sono competitivi per qualità, prestazioni, estetica, infotainment.
A dimostrazione di questo e di quanto è lontano dall’elettrico il mercato abbiamo che l’auto più venduta in Europa è la Dacia Sandero la cui alimentazione è al 48% a benzina e il 52% a gpl.
Si, l’auto più venduta è nettamente in controtendenza rispetto ai ragionamenti della politica europea. Ma è tutta la top ten a smentire l’avvento dell’elettrico. Infatti abbiamo solo tre auto con, anche, alimentazione Bev: al terzo posto la Peugeot 208 con il 9%, all’ottavo la Peugeot 2008 con il 9% e al nono posto la Citroen C3 con 24%. Tutte e tre Stellantis. Ma sono ancora le stesse VW e Stellantis ha smentire l’elettrico perché dominando con circa il 40% del mercato europeo e 2,8 mln di auto immatricolate, di esse, il 72% di VW sono a benzina e/o diesel e per Stellantis l’85%. Elettrico dove sei?
Il nostro Paese non deve pensare a un travaso da auto a difesa ma aiutare la nostra maggiore e quasi unica azienda, a correggere le sue scelte sui modelli e alimentazione motoristica, il primo segnale è la 500 ibrida a Mirafiori e bisogna dare tempo a Filosa, che sa di averne poco, per cambiare strategia su alimentazione e modelli. Suggerisco di tenere d’occhio la Leapmotor, in specie la TO3 (volutamente confondo lo zero con la O!).
Fare ripartire Stellantis e l’indotto auto in Italia insieme allo sviluppo dell’industria della Difesa significa fare crescere un’occupazione stabile e duratura evitando i facili trionfalismi occupazionali di un governo che gioisce per la crescita del lavoro precario (cito Istat: occupati che abbiano svolto almeno un’ora di lavoro nella settimana di riferimento), ma statisticamente moltiplicatore, di camerieri, baristi e assistenti alle persone con contratti brevi e malpagati.