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Dottori in niente: la vergognosa condizione dei ricercatori

Lo scorso 30 maggio l’ADI, Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca in Italia, ha reso noti i risultati della IV Indagine Annuale su Dottorato e Post-Doc. Il quadro che ne emerge è imbarazzante se non vergognoso: il sistema universitario italiano investe in alta formazione post-laurea per poi disperdere praticamente il 97% dei dottori di ricerca costretti a spendere altrove le competenze maturate.

Il rapporto fornisce una fotografia dei dottorati di ricerca in Italia affrontando quattro diverse criticità: la riduzione in valori assoluti del numero di dottorati; la tassazione applicata ai dottori di ricerca; le prospettive di lavoro per i dottori di ricerca e la “(S)valorizzazione” del dottorato; il confronto con altri Paesi europei. 

In generale, dopo i recenti interventi normativi, si registra una complessiva riduzione del numero di dottorati di ricerca (-19%), con un picco negativo nelle regioni del Mezzogiorno (-38%). Calano anche le borse di studio: 16% in meno all’anno, anche in tal caso con un profilo peggiore per le regioni del Mezzogiorno. Qui la riduzione ha accompagnato il processo di accorpamento dei corsi di dottorato (-41%) disposto dal nuovo regolamento di dottorato (D.M. 45/2014).

 

 

Ma è sulle prospettive dei dottori di ricerca che si evidenziano i dati più eclatanti. 

Come noto, con l’introduzione della L. 240/2010 l’assunzione a tempo indeterminato è divenuta più difficile. Ai 3 anni di dottorato seguono ora almeno 5 anni da ricercatore a tempo determinato di tipo “a” (RTDa: 3 anni prorogabili per altri 2), propedeutici ad altri 3 come ricercatore a tempo determinato di tipo “b” (RTDb), tipologia contrattuale a cui è agganciato un meccanismo di tenure track che porta il sistema a prevedere l’apertura di una contestuale posizione da professore associato. Tra dottorato e RTDa si possono aggiungere poi fino a 4 anni di assegno di ricerca. Ne consegue che un dottore di ricerca fortunato perché inserito in un percorso di continuità, farà 12 anni di precariato e riuscirà ad avere una posizione stabile mediamente sui 40 anni. 

È allora scontato che, ad oggi, la metà dei ricercatori in Italia svolge attività con un contratto a termine o di una borsa di studio. Nel 2013 esistevano oltre 28.000 dottorandi, 15.300 assegnisti di ricerca, 8.000 collaboratori a programmi di ricerca, 3.300 ricercatori a tempo determinato e 53.500 docenti di ruolo (professori ordinari, professori associati, ricercatori universitari). Questo significa che, nel 2013, il 50,9% delle figure impegnate in attività di ricerca accademica non ha goduto di una posizione strutturata, una percentuale che si attesta al 33,8% se si escludono i dottorandi.

 

 

La situazione andrà peggiorando nei prossimi 4 anni. Le possibilità di fare ricerca per i 10.160 dottorandi che hanno conseguito il titolo sono ridottissime: già a partire dal primo anno dopo il conseguimento del titolo, quasi 1/3 dei dottori di ricerca non trova spazio nel sistema accademico, ovvero non può fruire di un assegno di ricerca al fine di sviluppare le ricerche prodotte nell’ambito del corso di dottorato. Ma anche per i 15.300 assegnisti attivi nel 2013 il futuro è tutt’altro che roseo: 

  • oltre l’86,4% non continuerà a fare ricerca dopo uno o più anni di assegno;
  • il 10,2% uscirà dal mondo della ricerca dopo un contratto da RTDa;
  • solo il 3,4% sarà trasformato in RTDb, avviandosi verso la carriera accademica.
  • il 96,6% dei 15.300 assegnisti sarà espulso dal sistema accademico.

 

 

 

Al di là della frustrazione che migliaia di aspiranti ricercatori vivono in tali condizioni di precarietà infinita, è lo stesso sistema accademico a pagarne le spese. L’espulsione degli assegnisti di ricerca rappresenta uno spreco di personale qualificato per la cui formazione abbiamo investito fino a 140.000 euro pro-capite. 

 

Numero dottorandi nei Paesi europei 2012 (in migliaia)

 

         Fonte: IV Indagine Annuale su Dottorato e Post-Doc, p. 60.

 

 

Se si considera il rapporto fra numero di dottorandi e ampiezza della popolazione, l’Italia segna un povero 0,6% di dottorandi ogni 1.000 abitanti, al terzultimo posto tra i Paesi europei. Persino gli Stati maggiormente colpiti dalla crisi economica, con l’esclusione della Spagna, continuano ad avere performance migliori: la Grecia occupa l’8° posto con 2,1 dottorandi ogni 1.000 abitanti; Irlanda e Portogallo sono rispettivamente al 10° e 11° posto con 1,9 e 1,8. A condurre la classifica sono Finlandia, Austria e Germania con, rispettivamente, 3,7, 3,1 e 2,6 dottorandi ogni 1.000 abitanti. 

Vista nel suo insieme, questa debolezza del sistema pubblico di investire nella ricerca non appare pertanto una risposta temporanea e di necessità alla penuria di risorse pubbliche, ma una chiara impostazione politica: affrontare la congiuntura economica negativa demolendo il sistema pubblico della ricerca, senza peraltro agire coerentemente su quello privato, è una strategia politica suicida che ci allontana dal resto d’Europa. Si assiste infatti  a un “drastico smantellamento del sistema dell’università e della ricerca pubblica” (p. 25). Dal 2009 ad oggi il Fondo di Finanziamento Ordinario per il sistema universitario si è contratto del 18%, più di 1.1 miliardi di euro in meno, mentre il rapporto 2013 dell’OCSE Education at Glance vede l’Italia al secondo posto su 30 Paesi per l’ammontare di risorse sottratte al sistema della formazione pubblica dal 2008 al 2010, terz’ultima nella spesa per l’Università (compresa la spesa per Ricerca e Sviluppo) e ultima per percentuale del PIL speso per la formazione pubblica. Il Fondo per gli Investimenti nella Ricerca Scientifica e Tecnologica (FIRST), entro cui confluiscono i fondi PRIN (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale), FIRB (Fondo per gli investimenti nella ricerca di base), FAR (Fondo per le agevolazioni alla ricerca) e FAS (Fondo per le aree sottoutilizzate), nell’ambito delle competenze del MIUR, si è visto sottrarre il finanziamento aggiuntivo di 360 milioni di euro per il 2009, riducendosi così, per l’anno 2012, a circa 82 milioni di euro. Secondo l’ultimo rapporto OCSE Research and Development Statistics 2014 l’Italia si colloca agli ultimi posti per le risorse finanziarie dedicate a ricerca e sviluppo in rapporto al PIL (1,3%). 

L’andamento del reclutamento nelle università, come prodotto immediato delle politiche di riduzione della spesa pubblica nel sistema della ricerca, è dunque solo la prima e più evidente conseguenza nefasta di una siffatta logica al ribasso.

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