La Fiat Chrysler, come tutte le aziende transnazionali e globali, andrà dove troverà maggiore convenienza nella allocazione degli investimenti e delle produzioni.
Come tutte le aziende globali sceglierà i mercati finanziari che offriranno più facile e conveniente accesso al credito e ai finanziamenti, allocherà le produzioni dove c’è mercato e gli investimenti sono meglio remunerati.
Come tutte le aziende globali, Fiat Chrysler presidierà con propri stabilimenti e produzioni e stringendo alleanze, le aree geografiche del mercato globale più forti e promettenti e, presumibilmente, si organizzerà con più baricentri strategici nelle diverse aree del mondo.
Il peso e l’importanza di ciascuno di essi, non dipenderà dalla nazionalità della proprietà del gruppo o dal luogo di nascita del suo amministratore delegato, ma esclusivamente dalla consistenza del mercato e dal peso dei risultati economici, nonché dalle opportunità che ciascuna area geografica potrà offrire.
Non ci sono rendite di posizione per nessuno.
La Fiat rimarrà forte e solidamente ancorata al nostro paese: se il mercato dell’auto italiano ed europeo riprenderanno, se gli ingegneri e i progettisti italiani progetteranno buone vetture e se i tecnici e gli operai della Fiat in Italia sapranno produrre auto con costi competitivi e di migliore qualità della concorrenza. Il resto sono chiacchiere!
L’idea che la Fiat debba investire comunque in Italia e mantenere, a prescindere, il quartier generale a Torino in ragione delle sue origini e della sua storia, è semplicemente illusorio. Prima lo capiamo e meglio è!
Anzi, meno male che la Fiat già oggi non sia solo italiana.
In questi anni di crisi del mercato italiano ed europeo, sono state le vendite e i risultati economici prodotti in Brasile e in Sud America che hanno tenuto a galla la Fiat e permesso di preservare la struttura industriale e l’occupazione in Italia. Se la tenuta dei bilanci dell’azienda fosse dipesa dalle attività della Fiat italiana, si sarebbero già dovuto portare i libri in tribunale. In Europa in 5 anni, dal 2007 al 2013, c’è stata una flessione delle immatricolazioni di oltre 4 milioni di vetture, passando da 16 a 12 milioni di auto immatricolate.
Sul mercato italiano la situazione è anche peggiore. In 5 anni il mercato dell’auto in Italia si è praticamente dimezzato. Sono quindi le attività della Fiat multinazionale che ci consentono ancora oggi di domandarci “dove va la Fiat?”.
E per il futuro, cosa sarebbe capitato senza gli accordi sindacali e gli investimenti e l’alleanza con Chrysler? Cosa sarebbe successo di Pomigliano e degli investimenti Fiat in Italia se si fosse dato retta a chi non ha voluto gli accordi sindacali e voleva vendere il marchio Alfa Romeo alla Volkswagen? Se questo fosse accaduto, alla domanda “dove va la Fiat?”, avremmo dovuto sostituire la domanda “che fine ha fatto la Fiat?”.
La Fiat, oggi, non ha nulla a che vedere con gli stereotipi, che nonostante tutto si ostinano a resistere, di una Fiat finanziata e assistita dal denaro pubblico e con gli operai pronti permanentemente alla lotta di classe! Di sicuro non è più vero il primo stereotipo, non è mai stato vero il secondo.
La Fiat sugli investimenti non ha chiesto alcun finanziamento al Governo e i lavoratori della Fiat, più che alla lotta di classe contro l’azienda, soprattutto oggi, sono preoccupati e interessati a che gli investimenti ci siano e che il rientro al lavoro venga assicurato.
L’acquisizione di Chrysler e i programmi di investimenti negli stabilimenti italiani rappresentano oggi una straordinaria e irripetibile occasione per dare una risposta alla loro preoccupazione e per rilanciare e far crescere la produzione di auto in Italia. Condizione questa indispensabile per preservare la centralità e il peso della Fiat italiana nelle scelte del nuovo gruppo globale Fiat/Chrysler
La domanda non è, quindi, solo quella di chiedere alla Fiat quanti investimenti e quali modelli, ma anche quella di che cosa il Governo, le amministrazioni locali e il sindacato sono disposti a fare per difendere l’industria dell’auto nel nostro Paese e sostenere il peso e il ruolo della Fiat italiana nel Gruppo Fiat/Chrysler.
C’è molto da fare per rendere più attrattivi i nostri territori agli investimenti e alle produzioni industriali e manifatturiere e per incoraggiare le imprese e i mercati finanziari ad investire in Italia.
Lo stesso interrogativo su dove va la Fiat lo si potrebbe porre, infatti, sulla siderurgia italiana dopo le vicende e la crisi dell’Ilva, oppure sul settore elettrodomestico italiano alle prese con pesanti ristrutturazioni in parte fatte e in parte annunciate, e con la difficoltà di reggere sul piano dei volumi e dei costi la concorrenza dell’Est europeo.
E cosa ne facciamo della nostra industria pubblica? E che dire di un sistema della piccola impresa, che da punto di forza del nostro sistema industriale, nell’economia globalizzata è diventato un freno che sta ritardando l’internazionalizzazione e l’apertura ai mercati globali di una parte significativa del nostro sistema industriale.
Allora la domanda vera non è “dove va la Fiat?” ma piuttosto “dove vanno l’industria e la manifattura italiana?” Questo è il tema decisivo per la crescita e l’uscita dalla crisi. Non abbiamo alternative, né scorciatoie.
L’industria manifatturiera è alla base della nostra economia, è quello che sappiamo fare meglio. È la nostra vocazione, la nostra storia economica; è quello che ci ha consentito di diventare negli anni un paese ricco ed evoluto dal punto di vista economico e sociale.
Abbiamo impianti, tecnologie e presenze industriali in tutti i settori e in tutti i mercati più importanti del mondo.
Abbiamo soprattutto cultura, competenze e saperi industriali che hanno fatto scuola in Europa e nel mondo, costruiti in cento anni di storia industriale e che rappresentano la risorsa più preziosa di cui disponiamo e da cui ripartire. Disperdere questa risorsa rappresenterebbe una perdita irrecuperabile che segnerebbe in modo definitivo il declino della nostra industria e della nostra economia.
Senza un’industria forte e rilanciata non ci saranno né produzione, né ricchezza, né lavoro.
Se avessimo dedicato in questi ultimi anni meno tempo a parlare, e spesso a “straparlare” di Fiat, e ci fossimo invece occupati maggiormente dei nodi strutturali che impediscono alla Fiat come al resto dell’industria italiana di uscire dalla crisi, forse l’interrogativo sul futuro della Fiat avrebbe avuto un sapore meno preoccupato.
Gli investimenti hanno bisogno di ambienti politici e amministrativi favorevoli e di relazioni sindacali stabili con regole certe ed esigibili. Qui c’è una bella differenza tra la situazione italiana e quella di altri paesi: penso alla fiducia e alla collaborazione che la Fiat ha trovato con il governo Usa sul salvataggio di Chrysler e con quello brasiliano sul progetto di investimenti Fiat-Chrysler in Brasile (è in costruzione in Pernambuco un secondo stabilimento che occuperà, con l’indotto, 12000 persone); come pure ai sostanziosi incentivi ricevuti dal governo polacco, turco e serbo, per favorire gli investimenti Fiat nei loro paesi.
Penso alla cooperazione che Fiat ha stabilito con il sindacato americano UAW, con il quale cogestisce l’Accademia del WCM (World Class Manufacturing) per programmi di formazione congiunta e l’implementazione del nuovo sistema di produzione nelle fabbriche Chrysler. Lo stesso WCM che in Italia è stato ideologicamente demonizzato e usato pretestuosamente dalla Fiom per giustificare l’opposizione agli accordi sindacali e alla Fiat.
I progetti di investimento della Fiat hanno quindi dovuto fare i conti con la sostanziale indifferenza del Governo e con l’aperta ostilità di una parte del sindacato e della politica e di gran parte dei mezzi di informazione che in questi anni hanno scatenato una vera e propria offensiva mediatica e politica contro la Fiat e contro i sindacati che con l’azienda hanno fatto gli accordi sindacali.
Il Governo è stato praticamente assente, ed è ridicolo oggi continuare a chiamarlo in causa perché convochi la Fiat solo per dare modo alla Fiom di essere presente a un tavolo con Fiat e farci ripetere in sede istituzionale quello che già è stato detto dalla Fiat nelle sedi sindacali
Il tavolo di confronto e la collaborazione tra Fiat e Governo sono naturalmente necessari. È giusto e doveroso che il Governo e il sindacato chiedano alla Fiat di rendere conto dei suoi progetti e impegni per gli stabilimenti italiani e di dare continuità al piano degli investimenti nel nostro paese.
Tuttavia viviamo in tempi nei quali non è concesso di limitarsi a chiedere a un’azienda investimenti e impegni occupazionali senza assumere a propria volta impegni e responsabilità sui progetti industriali. Quindi il Governo italiano deve fare la sua parte e mettere in campo quello che serve per sostenere i progetti industriali della Fiat e di rilancio dell’industria dell’auto nel nostro paese.
Deve contribuire alla ripresa dei consumi interni riducendo l’imposizione fiscale che grava sul lavoro, promuovere l’innovazione e la ricerca, sostenere le esportazioni, assumere tutte le iniziative che possano favorire l’attrattività del nostro paese per gli investimenti italiani ed esteri. Tutto questo darebbe forza e autorevolezza al Governo italiano nel chiedere impegni certi circa la presenza e l’occupazionale di Fiat/Chrysler in Italia e aiuterebbe il sindacato a fare meglio la sua parte.
Su queste vicende la politica italiana e una parte del sindacato hanno dimostrato troppo provincialismo e di non essere al passo dei cambiamenti che la nuova condizione dei mercati impone e che la Fiat ha chiesto. E mentre si decidevano le sorti della principale industria del paese e del programma di investimenti privati più importante degli ultimi decenni, la politica pensava ad altro, limitandosi sostanzialmente a fare da spettatrice di fronte allo scontro sindacale che si era aperto. Peggio; una parte, come una tifoseria da stadio, non ha fatto altro che parteggiare rumorosamente per l’uno e l’altro dei contendenti, sperando così, con largo spreco di demagogia e populismo, d’intascare qualche misero dividendo di facile consenso. Uno spettacolo indecente!
La Fim-Cisl ha fatto altro! In questi anni di crisi, in Fiat come in tutte le aziende metalmeccaniche ha messo al centro della propria azione una sola priorità: il lavoro da difendere, il lavoro da creare. Per questo, in Fiat come nella altre aziende metalmeccaniche, la Fim-Cisl in questi anni ha fatto gli accordi sindacali necessari a salvare fabbriche e posti di lavoro. Non diversamente da come hanno fatto nella crisi i più importanti sindacati industriali in Europa e nel Mondo .
La Fiat ha condizionato con perentorietà il programma di investimento e di incremento della produzione di auto nel nostro paese alla possibilità di disporre di una organizzazione produttiva più flessibile ed efficiente, oltre che di relazioni sindacali più stabili e affidabili. Il primo e più impegnativo banco di prova è stata la trattativa di Pomigliano sul progetto industriale più importante per la Fiat, e nello stabilimento più a rischio e più difficile per il sindacato: il trasferimento della produzione della Panda dalla Polonia allo stabilimento di Pomigliano. Nella trattativa abbiamo concretamente e visibilmente preso atto che la Fiat era cambiata. La rigidità delle posizioni negoziali e la disinvoltura con la quale Fiat stava abbandonando il tavolo di trattativa, e con esso il progetto di investimento su Pomigliano, hanno fatto precipitare in poche settimane le relazioni sindacali della Fiat e italiane nel mondo globale.
Di fronte alle nuove e più impegnative condizioni negoziali c’è chi non si è sottratto alla responsabilità e ha negoziato e fatto gli accordi, e chi invece, ha preferito buttare la palla in calcio d’angolo e dedicarsi alla politica. Adesso che la nebbia si è diradata e i contorni della realtà industriale e sindacale emergono con più evidenza, credo appaia più chiaro chi, in Fiat, ha fatto le scelte giuste e chi quelle sbagliate. E i fatti fanno giustizia delle accuse e degli insulti che per quelle intese ci siamo presi.
Cosa ne sarebbe, infatti, dello stabilimento di Pomigliano e degli investimenti Fiat se anche la Fim e gli altri sindacati si fossero tirati indietro e, per amore dell’unità, non si fossero presi l’onere e la responsabilità di firmare gli accordi sindacali con la Fiat sulle nuove regole e sul nuovo modello organizzativo. Certo, un’intesa sindacalmente impegnativa e naturalmente discutibile, che tuttavia conteneva solo deroghe al CCNL in materia di flessibilità degli orari, la monetizzazione di 10 minuti di pausa e interventi giustificati antiassenteismo. La costituzione della Newco e l’uscita della Fiat da Confindustria sono avvenute infatti solo successivamente all’accordo. Quanto all’uscita della Fiom dalla Fiat, essa è solo conseguenza del rifiuto di quel sindacato di riconoscere le maggioranze delle Rsu e dei lavoratori che si erano espresse a favore dell’accordo.
Con gli accordi sindacali abbiamo assicurato in Fiat gli investimenti, permesso il rientro al lavoro di migliaia di lavoratori e costruito realistiche prospettive per coloro che sono ancora in CIG.
Il miglior riconoscimento dell’accordo di Pomigliano e degli accordi Fiat è venuto infine dalle nuove regole unitarie sulla rappresentanza. Basti pensare che con queste stesse regole, gli accordi di Pomigliano e Mirafiori, sarebbero stati gli accordi di tutti e rispettati da tutti, e le vicende Fiat avrebbero conosciuto esiti meno complicati.
La crisi e l’acquisizione di Chrysler hanno cambiato gli scenari. Il piano industriale Fabbrica Italia presentato dalla Fiat nel 2009, che puntava al raddoppio delle produzioni e alla forte crescita della quota Fiat in Europa, si è presto infranto contro una crisi senza precedenti, che di fatto ha dimezzato in questi anni il mercato dell’auto in Italia e ridotto drasticamente quello Europeo. Il perfezionamento dell’acquisizione di Chrysler e la costituzione di un’unica azienda globale aprono nuovi orizzonti e inedite opportunità per dare continuità agli investimenti in Italia e rilanciare, con un nuovo progetto industriale, produzioni e marchi italiani nella competizione europea e globale.
Nell’incontro al Lingotto di fine ottobre 2012 ci sono state presentate dall’AD Marchionne le linee generali di un nuovo piano industriale strategico, che mette al centro il ridisegno delle missioni produttive degli stabilimenti nonché la progettazione e messa in produzione di 17 nuovi modelli per il prossimo quinquennio. Si tratta di un rilancio basato su prodotti trasformati in marchi Cinquecento, Panda per il segmento di bassa gamma, da un lato e dall’altro, Alfa Romeo e Maserati, al fine di spostare decisamente il baricentro produttivo sull’alto di gamma, che ha maggiori possibilità di mercato e migliori margini.
È un progetto industriale ambizioso, una sfida difficile per l’azienda ma anche per il sindacato. Fiat/Chrysler è destinata a diventare un’unica azienda globale. Il processo di integrazione industriale e societaria sarà definito a breve. Per noi si pone il problema dell’integrazione sindacale tra Fim-Fiom-Uilm e Uaw e gli altri sindacati del gruppo. È già attiva una collaborazione sulla quale la Fim sta investendo molto, consapevole che in fondo non è così importante la collocazione del quartier generale (tra l’altro, al momento in cui scrivo non è scontato, come molte Cassandre profetizzano, che è già deciso venga trasferito negli Stati Uniti): quello che conta è che nel quartier generale della nuova società abbiano ascolto le voci dei lavoratori di Fiat/Chrysler in qualsiasi parte del mondo si trovino e che il sindacato di Fiat/Chrysler sappia costruirsi e concepirsi come sindacato globale, e come tale interlocutore autorevole dell’azienda.
(*) Segretario generale Fim Cisl