Le politiche per il lavoro sono di fronte alla prova dello sblocco dei licenziamenti. Una prova che non deve essere condotta in modo muscolare, come invece rischia di essere da parte di una politica con basso tasso di responsabilità.
Uscire dalla pandemia, tra l’altro in un momento di grande trasformazione del mondo del lavoro, richiederebbe senso comune e condivisione di azioni straordinarie di accompagnamento per i lavoratori, che oggi non vediamo.
A questo governo, e a quello precedente, va imputata una grave responsabilità: in 16 mesi di blocco dei licenziamenti (provvedimento necessario ma al contempo straordinario e unico) nulla di concreto è stato fatto per riqualificare o ricollocare i lavoratori che la pandemia ha messo in difficoltà.
Il nostro Paese non ha saputo mettere in campo né un’ora di formazione per riqualificare un cassintegrato, né uno strumento per far transitare con certezza un lavoratore in esubero da un posto a un altro. Per non dire della inconcludenza totale nella gestione dei tavoli di crisi al Ministero dello Sviluppo Economico, dove da anni sono in stallo molte vertenze su cui nessun governo è stato capace, di intraprendere politiche di reindustrializzazione e sviluppo concrete.
Purtroppo le cosiddette “politiche attive” in Italia sono ancora relegate “all’arte di arrangiarsi”. È la metafora di un Paese che ha preferito lo status quo alle riforme che sarebbero necessarie per sottrarre alla palude del regionalismo il mercato del lavoro e la formazione, mai come in questo momento fondamentali per agganciare la ripresa e gestire la transizione tecnologica ed energetica senza lasciare indietro nessuno.
Basterebbe questo motivo – ve ne sono, come noto, anche altri – a spiegare perché il sindacato italiano in questo momento ha deciso di alzare la voce. L’obiettivo è chiedere al governo e alle controparti datoriali un confronto per sostenere un modo diverso di uscire dalla pandemia. Il presidente Draghi sembra convinto che la ripresa in atto nell’economia e soprattutto nella manifattura sanerà ogni tensione sociale, ma quello che abbiamo davanti non è un passaggio fisiologico. Il cigno nero della pandemia ha profondamente segnato la società e il lavoro: non si può pensare che tutto possa tornare come prima.
Da sindacalista del settore metalmeccanico riconosco che è in corso una robusta ripresa produttiva, che ha portato molti distretti e aziende ai livelli pre-crisi. Ma come ho già sottolineato la trasformazione ecologica, tecnologica, digitale, insieme a quella demografica, accelera e pesa sempre più sulle scelte di riorganizzazione delle imprese e della società. Le filiere metalmeccaniche sono in radicale trasformazione, non bisogna compiere leggerezze che possano minare la ripresa e alzare la tensione, come alcuni incresciosi fatti di cronaca di questi giorni stanno dimostrando.
La Fim Cisl chiede al governo un sussulto di responsabilità e di condividere con il sindacato una diversa transizione rispetto alla scadenza del 30 giugno. Il 1 luglio non deve diventare “il giorno del licenziamento”: sarebbe un errore.
Ad ogni azienda che cercherà di liberarsi di forza lavoro risponderemo nettamente che questo è il momento della responsabilità e che il problema può essere affrontato mettendo in campo strumenti alternativi. Nuovi ammortizzatori sono disponibili, infatti, senza extra-costi: dai contratti di solidarietà, alla staffetta generazionale concordata, ai contratti di espansione (che vanno resi dal governo meno costosi soprattutto per le Pmi), alle riduzioni di orario. E anche quella necessaria riqualificazione e capacità di ricollocare le persone per la quale il governo continua a lasciare sole le parti sociali.
A Confindustria e a Federmeccanica, con le quali abbiamo gestito l’emergenza Covid e rinnovato importanti contratti, come quello dei Metalmeccanici, firmato in piena pandemia, diciamo che non è licenziando chi lavora che ristruttureremo e rilanceremo il settore.
Le imprese denunciano che c’è una carenza di competenze nel mercato del lavoro; tutti gli indicatori, a partire dal report di Bankitalia, lo confermano. Allora è sulle competenze che dobbiamo investire, così come su “piani sociali” che a fronte di situazioni di crisi straordinaria come questa che stiamo vivendo, sappiano dare risposte di occupazione certa e di qualità ai lavoratori coinvolti. Lo stillicidio di morti sul lavoro che si sta verificando dall’inizio dell’anno è sintomatico di qualcosa che non sta funzionando e che va sanato.
L’emergenza lavoro continua a essere tra le principali preoccupazioni di un Paese che a fatica cerca di uscire dalla crisi generata dalla pandemia. A queste preoccupazioni è possibile dare una sola risposta: dobbiamo uscirne insieme. Il governo Draghi sbaglia a tirar dritto senza tener conto di questo malessere latente, puntando solo sulle misure, pur straordinarie e importanti, del PNRR.
Noi non siamo un sindacato che difende posti di lavoro o fabbriche “decotte”: non pensiamo che il Paese abbia bisogno di questo. Ma pensiamo che vadano difese le persone, alle quali vanno date risposte per quanto riguarda lavoro, formazione, sicurezza e prospettiva. Siamo un sindacato che protesta perché non accetta l’assenza o l’inefficacia delle politiche per il lavoro di cui questo Paese ha tanto bisogno.
*Huffinghtonpost 25/06/2021