Un settore bancario italiano meno fragile di quello esistente potrebbe svolgere un ruolo importante per disinnescare, oggi, l’avvio di un tale circolo vizioso. Le nostre banche dovrebbero impegnarsi a stimolare i finanziamenti, coperti da garanzie statali, e a utilizzare così in modo adeguato gli stimoli offerti dalla BCE fino all’inizio del 2022 attraverso l’immissione di un ingente ammontare di liquidità nel canale bancario; e, nello svolgere questa funzione, esse dovrebbero perseguire vantaggi sistemici di lungo termine senza sfruttare le smagliature normative per l’ottenimento di miopi vantaggi di breve termine (appesantimento degli oneri finanziari e sostituzione di precedenti prestiti non garantiti con i nuovi prestiti coperti da garanzie statali). Inoltre, nel medio termine, un settore bancario italiano meno fragile potrebbe svolgere un ruolo attivo e positivo nel sostegno finanziario alle imprese con potenziali di crescita durante la fase di ripresa dell’economia nazionale ed europea; esso avrebbe, cioè, la capacità di trovare un equilibrio fra efficace selezione dei mutuatari e rischio di credit crunch. Anche in una tale situazione più favorevole, sarebbe però velleitario pretendere che le banche italiane fungano da unico perno per affrontare e risolvere le strutturali debolezze dell’economia italiana e per spingere le imprese non finanziarie su un sentiero di crescita. Allo scopo, è quantomeno necessario disegnare forme complementari di finanziamento delle imprese.
Il recente decreto-rilancio, incentrato su una confusa risposta di breve termine agli svariati bisogni degli attori italiani, rafforza l’incertezza circa il futuro e avalla la strategia attendista delle imprese.
L’analisi delle possibili forme non bancarie di finanziamento delle imprese italiane deve partire da un dato sopra accennato (cfr. par. 3), relativo all’organizzazione dei mercati finanziari nazionali, e dalla ricchezza detenuta dalle famiglie. Fra i principali paesi dell’EA, l’Italia denuncia il più basso peso dei segmenti finanziari non bancari e una delle più alte incidenze della ricchezza finanziaria delle famiglie rispetto al PIL17. Insieme alla peculiare debolezza degli investitori istituzionali italiani (fondi pensione e assicurazioni ramo vita), ciò contribuisce a spiegare perché il paese si caratterizzi anche per il divario qualitativo più accentuato fra composizione dei portafogli finanziari delle famiglie e composizione delle potenziali esigenze di finanziamento non bancario da parte delle imprese. Pochi dati sono sufficienti per illustrare il punto. Verso la fine del 2019, la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane ammontava a circa 4.350 miliardi di euro, se calcolata come valore totale delle attività finanziarie lorde detenute; se depurata dai debiti delle stesse famiglie, essa si riduceva a circa 3.400 miliardi di euro. Sempre verso la fine del 2019, ben 160 miliardi di euro del valore totale di queste attività finanziarie lorde (ossia, il 3,7%) era detenuto in contanti e un restante ammontare di più di 1.250 miliardi di euro era detenuto sotto forma di depositi bancari (ossia, quasi il 29%). Ciò equivale ad affermare che circa un terzo delle attività finanziarie lorde delle famiglie italiane (poco meno di 1,5 trilioni di euro) era allocata in forma liquida. Del resto, alle soglie della crisi pandemica, il settore bancario italiano deteneva sotto forma di depositi più di 2.710 miliardi di euro; e tale ammontare è ulteriormente aumentato negli ultimi due mesi.
Basterebbe spostare un terzo della ricchezza liquida, detenuta oggi dalle famiglie italiane, verso attività finanziarie meno liquide e più rischiose (azioni e corporate bond) per alimentare un elevatissimo flusso di finanziamenti non bancari (circa 500 miliardi di euro) verso il settore produttivo nazionale. Senza il ricorso a distorsivi e pericolosi processi di “repressione finanziaria” (18), tale spostamento sarebbe però impraticabile; per giunta, senza improponibili coercizioni nelle scelte finanziarie delle piccole e medie imprese, le emissioni di corporate bond e di azioni non raggiungerebbero un ammontare tanto elevato da rivoluzionare la struttura patrimoniale e finanziaria delle attività produttive (19). Si tratta, pertanto, di perseguire obiettivi molto meno ambiziosi ma più solidi: rendere appetibile alle famiglie italiane una parziale e graduale riallocazione dei loro portafogli verso attività finanziarie meno liquide rispetto ai contanti e ai depositi ma meno rischiose rispetto alla detenzione diretta di azioni e di obbligazioni delle imprese; evitare alle piccole e medie imprese italiane accessi diretti ai mercati finanziari.
Questi risultati sono raggiungibili solo se si soddisfa una condizione preliminare: le famiglie italiane devono essere messe in condizione di effettuare scelte finanziarie in un quadro politico-istituzionale meno incerto. Si tratterebbe poi di costruire fondi, che siano gestiti da intermediari finanziari non bancari (ossia, da investitori professionali) e che possano fruire di un sostegno statale. Gli investitori professionali avrebbero il compito di accorpare e decidere gli acquisti delle emissioni obbligazionarie e azionarie di gruppi omogenei di medie e di piccole imprese, che potrebbero così diversificare le loro fonti di finanziamento senza un accesso diretto e costoso ai mercati; gli stessi investitori professionali dovrebbero, poi, finanziare gli acquisti collocando sul mercato le obbligazioni emesse dal fondo di appartenenza (20). Il sostegno statale assorbirebbe una parte dei rischi delle obbligazioni, offerte dai fondi nei mercati finanziari, e le renderebbe così appetibili per i portafogli delle famiglie italiane (21). Tali fondi assumerebbero la configurazione di intermediari pubblico-privati e, in caso di successo, produrrebbero almeno quattro effetti positivi: arricchirebbero le fonti di finanziamento delle piccole e medie imprese italiane durante la delicata fase di ripresa dopo la recessione pandemica; allenterebbero la pressione sul settore bancario italiano e ne agevolerebbero il rafforzamento; aprirebbero la struttura del capitale e la struttura finanziaria di quella parte delle imprese italiane che, anche se efficienti, non effettuano salti dimensionali a causa della loro difficoltà ad avere accesso diretto ai mercati dei debiti e delle azioni; ridurrebbero la distanza qualitativa fra la composizione dei portafogli finanziari delle famiglie italiane e le esigenze finanziarie delle imprese.
Conclusioni
La precedente analisi implica che, per uscire dalla gravissima recessione economica del 2020 e aprire una fase di crescita, l’apparato produttivo italiano non potrà avvalersi dei soli servizi creditizi e finanziari offerti dal settore bancario nazionale.
Come del resto accadeva già prima dello shock pandemico, le nostre grandi e mediograndi imprese innovative, che si sono inserite con successo nelle vecchie catene internazionali del valore (peraltro, oggi da rinnovare e semplificare), continueranno a utilizzare i servizi finanziari di gruppi bancari e non bancari internazionali per ottenere servizi più sofisticati di equity e di security e servizi di protezione rispetto ai rischi legati alle esportazioni. Inoltre, sulla base delle loro scelte strategiche, esse potranno rivolgersi direttamente ai mercati internazionali per differenziare le fonti di finanziamento. Anche le piccole e le medie imprese italiane non saranno in grado di superare il blocco delle attività economiche e di inserirsi nei processi europei di ripresa, facendo esclusivo affidamento sul finanziamento del settore bancario italiano. Esse dovranno anche accedere indirettamente a fonti di finanziamento di mercato (azioni e obbligazioni), pur se con la mediazione di fondi pubblico-privati.
Queste considerazioni non comportano l’emarginazione del settore bancario italiano. Anche se si affermassero le fonti non bancarie di finanziamento qui auspicate, le banche italiane continuerebbero a svolgere una funzione cruciale per i prestiti alle imprese. In tale caso, esse potrebbero anzi mantenere un ruolo ancora prevalente, anche se non più quasi-esclusivo, in un’economia che sarà in condizione di agganciare la ripresa anziché condannarsi all’emarginazione. Per fornire apporti positivi all’economia italiana anziché essere parte delle negative eredità della crisi, il settore bancario italiano deve però superare le fragilità che preesistevano allo shock pandemico e che si sono oggi aggravate.
Al riguardo, basti riferirsi a due aspetti. Primo: i casi critici, presenti alla fine del 2019, e i nuovi focolai di crisi, che potrebbero emergere per effetto della recessione, andrebbero affrontati e risolti mediante operazioni di acquisizioni di mercato da parte di banche solide. In mancanza di acquisizioni di mercato, sarebbe opportuno fare ricorso alle procedure europee e nazionali per ordinati processi di risoluzione bancaria o affidare il salvataggio delle banche in crisi al diretto intervento dello Stato. Nell’ultimo caso, si tratterebbe di sfruttare la temporanea tolleranza delle istituzioni europee e di rispettare i severi vincoli fiscali di bilancio pubblico. Ognuna di queste soluzioni ha costi specifici ma appare, comunque, preferibile rispetto al ricorso all’intervento del Fondo interbancario nazionale di tutela dei depositi. Tale strumento dovrebbe tornare al suo compito originario di accantonare fondi per la garanzia dei depositanti anziché fungere da stanza di compensazione per informali redistribuzioni di risorse all’interno del settore bancario italiano (22). Secondo: specie le banche piccole e medie dovrebbero innovare il loro business model, focalizzando gli sforzi sul rafforzamento patrimoniale e sui connessi processi di consolidamento.
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17 Nel paragrafo 3, si è sottolineato che, in Italia, i mercati dei corporate
bond e delle azioni sono persino meno incidenti che negli altri grandi paesi dell’EA. Si aggiunga che, nei mercati finanziari italiani, è sottosviluppato anche il segmento dei prestiti non bancari al settore produttivo. Durante la crisi finanziaria internazionale del 2007-09, è emersa un’area non regolata, denominata “sistema bancario ombra” (“shadow banking”), che svolgeva un ampio insieme di attività incluse forme di prestito. Il rafforzamento della regolamentazione internazionale ha permesso l’istituzionalizzazione dei prestiti non bancari che, pertanto, non sono più assimilabili allo “shadow banking” e coinvolgono investitori istituzionali e professionali. Nonostante alcuni tentativi, in Italia si è ancora a uno stadio iniziale del processo.
18 L’espressione “repressione finanziaria” indica l’introduzione di vincoli – più o meno espliciti – all’allocazione della ricchezza finanziaria. Tali vincoli sono difficilmente compatibili con la libertà di movimento dei capitali nell’ambito del mercato unico europeo. Infatti, in vigenza di questo irrinunciabile principio, le famiglie italiane troverebbero conveniente sottrarsi ai vincoli nazionali riallocando la loro ricchezza in altre parti del mercato europeo.
19 Specie le piccolissime e le piccole imprese italiane hanno una governance che non prevede la separazione fra i proprietari e i responsabili della gestione. Per non perdere il controllo gestionale, molti imprenditori sono contrari ad aprire al mercato la struttura finanziaria delle loro imprese. Ciò contribuisce a spiegare l’inadeguata dimensione di larga parte delle imprese italiane; in ogni caso, è un vincolo che va affrontato e non eluso.
20 Per maggiori dettagli in merito alla possibile organizzazione dei processi si rimanda a: Messori (2018) e (2019). 21 Pur se in contesti diversi, analoghe iniziative pubblico-private sono state realizzate dall’amministrazione Obama durante la primavera 2009. Esse sono state alla base della rapida uscita dalla crisi del 2007-’09 da parte dell’economia statunitense (cfr. al riguardo: Messori 2009, ch. 3).
21 Pur se in contesti diversi, analoghe iniziative pubblico-private sono state realizzate dall’amministrazione Obama durante la primavera 2009. Esse sono state alla base della rapida uscita dalla crisi del 2007-’09 da parte dell’economia statunitense (cfr. al riguardo: Messori 2009, ch. 3).
22 In mancanza di soluzioni di mercato, l’alternativa migliore sarebbe il ricorso a un equivalente, europeo o nazionale, della Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC) che svolge ruoli diversi e distinti, incluso quello di ristrutturare alcuni tipi di banche statunitensi in difficoltà. L’istituzione di un organismo simile alla FDIC richiederebbe, però, cambiamenti Istituzionali. Essa esula, quindi, dalla presente analisi.
*Estratto da M. MESSORI – BANCHE ITALIANE, PARTE DELLA CRISI O SUA SOLUZIONE?,ASTRID RASSEGNA – N. 8/2020
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**Insegna Economia e dirige la School of European Political Economy alla Luiss