Durante la pandemia, lo ricorderete sicuramente, passò di bocca in bocca un concetto, quasi una certezza: “non sarà più come prima”. La vulgata generalizzata la interpretò in chiave positiva ed in effetti i comportamenti collettivi di quel periodo furono improntati largamente all’autocontrollo e alla solidarietà. A tutti i livelli, prevalsero consapevolezza del pericolo in corso (minoritaria restò l’esperienza dei no vax), attenzione a salvaguardare le attività essenziali (dalla salute all’insegnamento, dalla produzione al lavoro, dalla giustizia alla diffusione della comunicazione), cura dei più deboli con straordinarie esperienze di volontariato e pratica di uno spirito comunitario. Detto terra terra, si pensò seriamente che la società italiana stesse facendo le prove generali di un salto di qualità verso equilibri sociali, economici e politici più cooperativi e concilianti.
Non è andata proprio così. Rapidamente, si è imposta la voglia di tornare a come si stava prima, a fare quello che si faceva prima, a pensare nella stessa maniera di prima. Tutto ciò che poteva rappresentare una valorizzazione delle vicende vissute nel lockdown è stato relegato in una zona d’ombra. Valgono per tutte, due spaccati. Il silenzio piombato quasi immediatamente sull’immane sforzo compiuto dai medici, dagli infermieri e da quanti lavorano nel settore della sanità, tanto che ora assistiamo alla fuga verso l’estero di questi, senza avere forze fresche per sostituirli e senza risorse finanziarie adeguate. La sottovalutazione del ruolo svolto dai sindaci nel mantenere coese le proprie comunità; solitudine sovrastata dalla debordante pubblicità intorno ai Governatori delle Regioni, molti dei quali si sono distinti soltanto per rendere più difficili le scelte governative.
Di conseguenza, i cerchi concentrici dell’individualismo si sono moltiplicati. Ovviamente, non bisogna sottovalutare i tratti positivi del post Covid. Produzioni e occupazione hanno preso a crescere, i consumi stanno ritornando ai livelli di qualche anno fa, la gente non soltanto fatica ma si diverte più e meglio di prima. Ma non vanno nascosti anche i tratti negativi: il 65% di chi lavora è insoddisfatto di quello che fa (dati Censis), moltissimi giovani non “consumano” politica (leggere l’intervista di Ultimo, il cantante, sul Corriere della sera del 19 maggio), la solidarietà incomincia a scarseggiare (il 75% dei delegati della FIM CISL intervistati è d’accordo nel ritenere che a proposito della solidarietà “i nostri iscritti la sentono solo se riguarda direttamente il proprio gruppo e la propria azienda”, cfr Fellin e Moretti, I nuovi linguaggi della rappresentanza sindacale, Edizioni Lavoro) e anche tra gli imprenditori più smart, la partecipazione alla vita associativa è marginale (è molto documentato il libro di Roberto Mania, Capitalisti silenziosi, Egea).
I riferimenti fattuali potrebbero continuare, allargando l’area delle contraddizioni a riguardo dei comportamenti individuali che collettivi, sia che si riferiscano al nostro Paese, sia a quelli del mondo occidentale. Si potrebbe obiettare che le società a base democratica e liberale sono sempre state attraversate da questi conflitti. Essendo caratterizzate dalla competizione culturale, sociale ed economica tendono a fabbricare differenziazioni, divisioni, sopraffazioni e sottomissioni. Ma come ci ha ammonito Pierre Carniti “le difficoltà da affrontare sono serie ed impegnative. Ma al tempo stesso si deve essere consapevoli che c’è una sola difficoltà veramente insormontabile: è la rassegnazione.” (Lettera aperta a CGIL, CISL, UIL 10/10/2017).
L’”io” competitivo può avere tante facce: essere cinico, imbroglione, stupratore, presuntuoso, sfruttatore, intollerante, sovranista. In questo tempo, sta tentando di imporsi, sia all’”io” ragionevole, rispettoso, affabile, conciliativo, altruista, pluralista, europeo, sia al “noi”, che intende comunità, attenzione ai più indifesi, alle diversità etniche, culturali e sociali. E’ a questo montare di tendenza che non ci si deve rassegnare, nella consapevolezza che la fluidità della società non riesce a catalogare in schemi rigidi donne e uomini, giovani ed anziani sempre più indotti a considerarsi capaci di poter sapere tutto, di avere il mondo a portata di chat, che la complessità del vivere si può risolvere con 70 battute di messaggino.
Chi pensa che basti mettere un po’ di bavaglio alle tecnologie che consentono queste false e fatue credenze, ritiene che si possa svuotare il mare con il secchiello. La questione è maledettamente più complicata e soprattutto non la si può affrontare con le categorie culturali del secolo scorso. Era tutto più semplice anche se pieno di disagi e di resistenze. La contrapposizione tra ricchi e poveri era a portata di mano, di occhi e di orecchi; ci si confrontava a distanza ravvicinata, sopruso e riscatto avevano terreni di scontro ben definiti. Lo squilibrio tra acculturati e ignoranti aveva una evidenza plateale e non mistificabile e spesso i primi aiutavano i secondi ad uscire dalla minorità. La differenziazione tra i potenti e i subalterni, al di là del censo, è stata una molla poderosa per generare la cultura dei diritti individuali, sociali e politici. Quella società così nettamente segmentata è alle nostre spalle.
Tutto è più liquido, ci ha convinto Zygmunt Bauman. Le aggregazioni sono meno scontate e comunque non dipendono soltanto dalla condizione materiale della vita, dall’ambiente in cui si trascorre la maggior parte della giornata, dalle relazioni che si coltivano e si consolidano. Dipendono anche da questione sempre più grandi e complesse come quelle con cui abbiamo a che fare quasi quotidianamente: clima, intelligenza artificiale, migrazioni, denatalità, disuguaglianze mai viste nella distribuzione della ricchezza mondiale, tanto per evocare le più coriacee. Colpiscono i singoli e intere comunità ma con gradi di preoccupazioni, di sensibilità, di capacità di risposta non omogenei e spesso confliggenti.
Le soluzioni non sono a portata di mano e in Italia, molte sono state già bruciate nell’applicazione sul campo. Scaricare sui singoli individui la responsabilità di definire il proprio futuro, come si è tentato alla fine degli anni 90 del secolo scorso, con l’avvento dei primi governi di centro-destra, ha fatto flop. La bandiera del privato contro il pubblico è stata ammainata rapidamente per dare spazio alla grande menzogna di far credere che ciascuno si poteva arricchire a spese dell’incremento del debito pubblico. Altro che più mercato e meno Stato.
C’è stata poi l’illusione di una generale delegittimazione dei corpi intermedi della società civile, ipotizzando una tutela dell’”io” e un’organizzazione del “noi” soltanto per via politico – istituzionale, rafforzando alcuni punti nevralgici dell’ordinamento democratico, pur necessario e legittimo ma perseguito in modo verticistico e insensibile al coinvolgimento delle articolazioni sociali.
Le soluzioni vanno ricercate in una faticosa ma indispensabile costruzione di un “io” non chiuso in sé stesso ma che incorpori il “noi” e di un “noi” non ossessionato dalla volontà di farci tutti uguali ma che sappia valorizzare i tanti “io” che sentono il bisogno di far parte di una comunità. Per ottenere questa armonia, ci sono vari lavorii da sostenere con tenacia.
La cultura, la scienza, la formazione rappresentano un bagaglio che il singolo e l’insieme dovrebbero valorizzare, quasi a prescindere. Non solo siamo un Paese tirchio, spendendo sempre meno del necessario e del possibile (finora è stato speso il 17% dei fondi PNRR, dice la Fondazione Agnelli), ma pensiamo che basta un po’ di informazione a soddisfare il bisogno di sapere. Invece, sin dall’infanzia, il buon “io” e il buon “noi” va formato e nel tempo educato non alla competizione sfrenata ma alla cooperazione creativa. Soltanto in questo modo il merito si imporrà a tutti i livelli come criterio non solo individuale ma plurale.
La partecipazione alla vita sociale, economica e politica ha un’importanza straordinaria. Da soli ci si sperde nei meandri della complessità e senza vitalità partecipativa si fa soltanto il gioco di chi, pochi, vuole farsi dare una delega in bianco per esercitare poteri incontrollati sugli altri, molti. In campo economico, si è stravolto un concetto sano come “il piccolo è bello”, nato come work in progress per far crescere competenze e prodotti da diventare progressivamente apprezzati e grandi. Con la flat tax si incentiva a rimanere piccoli, solitari e/o imbroglioni. Né ci si può lamentare della scarsa e progressiva astensione all’esercizio del voto amministrativo e politico, se tra un’elezione ed un’altra la partecipazione delle persone non viene non dico organizzata ma almeno sostenuta e favorita.
La rivitalizzazione del riformismo democratico, quello che sa interpretare il nuovo che si va consolidando e che per essere ben vissuto ha bisogno di cambiamenti di ogni tipo: educativi, contrattuali, legislativi, nazionali e sovranazionali. C’è la tendenza, penso al sistema fiscale, di fare aggiustamenti parziali, corporativi, contraddittori rispetto al dettato costituzionale che impone la progressività nella tassazione della ricchezza. E’ una strada senza sbocchi, specie se non sa affrontare il cambiamento che è in atto nell’accumulazione capitalistica che è nettamente lontano da quella della fase industriale e non sa andare incontro alle nuove esigenze dei cittadini, che ovviamente si attestano sulla richiesta di meno tasse, in assenza di proposte più intelligenti e quindi utili ed efficaci.
Esercitarsi a riempire di contenuti originali questi ambiti di orientamento della coscienza civile e politica degli italiani, può sconfiggere la rassegnazione che è l’anticamera della regressione democratica di un popolo. Ormai abbiamo chiaro che le “democrature” si stanno diffondendo nel mondo per assenza di un pensiero compiuto circa la convivenza dell’“io” e del “noi”, con il rischio che sia l’uno che l’altro, tra i nostri pronomi più belli, possono essere travolti dalla perdita della libertà di esprimersi al meglio.
Da che parte stai?
A quanti mi hanno chiesto in questi giorni di unirmi a chi vuole fare la predica