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È il momento di definire una giusta via per la sanità integrativa

Nel corso degli anni, sotto i nostri occhi, è cresciuto un welfare secondario che ha abbracciato un grande arco di temi. Dalla previdenza integrativa alla sanità integrativa; dai fondi paritetici interprofessionali agli enti bilaterali, ai provider fornitori di servizi di welfare aziendale. 

Si tratta di centinaia di Fondi che interessano circa 15 milioni di lavoratori (contando le persone coinvolte, circa il doppio se si considera che molti lavoratori fruiscono contemporaneamente dei benefici di più Fondi) e che hanno ormai totalizzato una raccolta di risorse di alcune centinaia di miliardi di euro. 

Per quanto riguarda la sanità integrativa, secondo un censimento del 2018 del Ministero della Salute, i numeri sono questi: 332 Fondi sanitari che riguardano 10,5 milioni di lavoratori iscritti, con prestazioni già erogate del valore di 2,5 miliardi di euro. A mio avviso, se la strada è quella di evitare nel modo più rigoroso una sovrapposizione con le prestazioni della Sanità pubblica agendo in modo genuinamente complementare, tutta questo comparto va sostenuto e regolamentato. 

Come si fece nel 1993 con la legge 124 che disciplinó la costituzione dei Fondi di previdenza complementare: i primi due a nascere furono Fonchim e Cometa, rispettivamente dei lavoratori chimici e metalmeccanici. Anche per la sanità complementare va prevista, dunque, una legge di regolamentazione per superare l’attuale giungla. Occorre uscire da una sterile contrapposizione tra sanità pubblica e privata: se si tracciano precisi confini per quanto riguarda i servizi da erogare ai cittadini, non si corrono rischi di invasione di campo. 

La Sanità pubblica, come si è visto nel corso di questa pandemia, deve rimanere il pilastro fondamentale. Come abbiamo accennato, non mancano elementi di critica nei confronti dei Fondi di Sanità Complementare, relativi al rischio di ridimensionamento del Welfare pubblico. Così come, non va sottovalutato un altro aspetto: gli sgravi contributivi e fiscali che favoriscono la contrattazione sindacale sono, da un lato, un fattore di irrobustimento della coesione sociale e, dall’altro, una accentuazione delle diseguaglianze di trattamento tra chi è contrattualmente forte e stabile nel lavoro e chi è imprigionato, suo malgrado, nel recinto del lavoro fragile e discontinuo. 

Partire anche dall’esame di limiti e contraddizioni può rappresentare un utile stimolo per affrontare, senza pregiudizi, un tema di grande attualità e importanza. Sappiamo anche che, il progressivo venir meno della distinzione tra lavoro dipendente e autonomo, impone una ricerca a vasto raggio sul futuro dei diritti del lavoro: quel “pavimento” di diritti universali che debbono necessariamente comprendere la tutela della salute.

* Presidente dell’Associazione Lavoro&Welfare 

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