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E’ sempre domenica, ma non è festa, allora guardiamo avanti

Persone che si scambiano saluti, che applaudono medici e infermieri, che propongono flash mob dai propri balconi. Persone che stanno dimostrando – almeno per ora – una notevole disciplina a riguardo delle regole imposte dal Governo. Sindaci che stanno dando prova di essere il vero collante delle comunità locali. Questo stanno facendo gli italiani. Tutto bello, a volte commovente, spesso sorprendente. Ma le nostre vite restano comunque sospese. Schiacciate da un presente ingombrante e paralizzante. Minacciate dalla misteriosità del male. Irrigidite da un conflitto interiore tra libertà individuali condizionate e necessità di tutela del prossimo. 

Però, abbiamo l’obbligo morale oltre che esistenziale di alzare lo sguardo oltre il presente. Finirà questo tsunami che ci ha trovati impreparati.  Quando finirà, non potremo farci trovare di nuovo incerti. Perché un futuro ci dovrà essere, anche se il dramma dell’insufficienza delle sale di terapia intensiva, della caccia alle mascherine, della carenza di personale sanitario, dei funerali che non si celebrano ci inchioda a discussioni infinite sull’oggi.

Non è ovviamente facile avere idee chiare sull’avvenire, anche perché difficilmente sarà come l’altro ieri. Ma alcune direttrici si vedono già con più nettezza di altre. Su di esse occorre da subito individuare occasioni, sedi, condizioni per fare approfondimenti, per tracciare percorsi di coinvolgimento degli stakeolders, per non improvvisare soluzioni domani. Senza farsi prendere dalla fretta di dare risposte vincenti o farsi immobilizzare dalla paura di sbagliare.

La nostra prima reazione, all’apparire del virus, è stata quella di barricarci contro gli “untori”. Salvo poi essere ripagati con identica moneta da parte dei Paesi confinanti e da quelli storicamente “amici”. Abbiamo smesso di volare verso la Cina, l’unica che poi ha allungato la mano per aiutarci e ci siamo sentiti respinti da USA, Austria, Francia, ed altri ancora. Per fortuna, questo atteggiamento non si è radicalizzato. Ciò non toglie che porrà, all’indomani del dramma, una questione di ridefinizione delle vere alleanze internazionali ed il banco di prova sarà il ripristino della piena funzionalità degli organismi sovranazionali, ora in stato comatoso e quindi limitati nel coordinamento internazionale. L’ atteggiamento dell’OMS ne è la prova. 

Inoltre, necessita una seria discussione sull’Europa. Non facciamoci deviare dal permesso ottenuto per sforare il fiscal compact. E’ stato concesso nella logica che ciascuno si lecchi le proprie ferite, ciascuno se la veda da solo con i mercati finanziari se s’indebita troppo, sia pure per un nobile obiettivo. No, ci vuole uno scatto di reni per fare di questa occasione la dimostrazione che occorre più Europa. Ma ve l’immaginate gli Usa, dove se scoppia in California una pandemia, il Texas non fa transitare i tir con le merci e il Massachusetts rifiuta i voli da Los Angeles? Bisogna fare di tutto perché non succeda quello che stiamo vedendo in questi giorni. I sovranisti sono silenti, ma gongolano.

In secondo luogo, è chiaro che stiamo assistendo ad un caso ILVA centuplicato e poi elevato all’ennesima potenza. Un enorme conflitto tra esigenze della produzione ed esigenze della tutela della salute. Non basta dire, prima la salute. Tutti sono d’accordo. Poi, sul territorio i problemi che sorgono rischiano di vanificare l’assunto. Siamo un sistema produttivo, soprattutto industriale ma anche agricolo, turistico, dei servizi avanzati iperconnesso nel mondo. E’ fondato su un import ed export enorme e condizionante. Con l’aggravante che siccome non abbiamo grandi pivot ma un mare di piccole e medie aziende, siamo dipendenti malamente da una globalizzazione non regolarizzata a sufficienza.

Così ci siamo trovati scoperti. Produciamo ma ponendo la lotta all’inquinamento nelle retrovie delle priorità, la scomposizione delle fasi produttive soltanto al servizio delle convenienze economiche di breve periodo, finanche le distanze tra lavoratore e lavoratore spesso non rispettano la regola del metro. E’ da queste insufficienze che bisognerà ripartire se vogliamo rimanere la seconda economia industriale dell’Europa. E’ con politiche mirate e non con interventi a pioggia, che vanno rilanciate le produzioni ed è con un disegno di alta qualità delle tecnologie e delle professionalità che si può andare alla conquista di mercati e recuperare il tempo perduto senza essere subalterni agli altri. Nello stesso tempo va frenato l’inurbamento delle metropoli a favore degli insediamenti più piccoli.

Infine, abbiamo riscoperto l’immenso valore del welfare state. Senza sanità pubblica, soprattutto i deboli e i poveri sarebbero stati abbandonati al loro destino. Come succederà negli USA, come può avvenire in Inghilterra se passa la linea di Jonhson. Sarebbe irresponsabile, però, che il valoroso contributo che negli ospedali sta dando tutto il personale che vi lavora, dal primario all’addetto alle pulizie, diventasse un paravento dei limiti che la sanità ha da tempo. Il principale: essere di responsabilità esclusiva delle Regioni. L’arrivo del covid19 ha messo in evidenza che la tutela della salute non può che essere uguale dappertutto. 

Invece, si sono formati nel tempo 21 sistemi sanitari – dal Veneto ed Emilia Romagna (ottimi, tutto pubblico) alla Sicilia e Calabria (pessimi, prevalentemente privato convenzionato) – l’uno diverso dall’altro. Rappresentano uno sfizio che si scarica sulla popolazione. Così anche le eccellenze professionali vengono sminuite dalle scelte organizzative, dai sistemi degli acquisti, dalle scomposizioni delle attività a favore della sanità privata. In questi giorni, per fortuita combinazione dovuta all’emergenza, si è imposto il ruolo di orientamento del Governo, supportato dalla Protezione Civile. Un ripensamento sul potere esclusivo delle Regioni in fatto di sanità credo che dovrebbe essere messo all’ordine del giorno. A tutela dei cittadini e del loro diritto costituzionale di essere curati, indipendentemente da dove si vive.

Andare oltre l’emergenza non è una fuga in avanti. E’ un modo per rassicurare le persone che per ora sono attonite, ma cercano di evitare la paura del futuro. Soprattutto ai giovani, che hanno dimostrato di non farsi accalappiare dalla logica egoista del “tanto a me non capiterà”, occorre dare un senso prospettico all’accaduto. E il miglior modo è quello di farli guardare in avanti, con spirito critico e onestà intellettuale. E’ convenienza di tutti, dire parole sincere, vere, incisive.

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