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E’ un problema di equilibrio tra legge e contrattazione*

La regolazione dei minimi salariali costituisce un meccanismo fondamentale nel funzionamento del mercato del lavoro. Questa funzione è storicamente svolta, in Italia, dai contratti collettivi nazionali di categoria. 

Senonchè, la capacità dei contratti collettivi di regolare la generalità dei rapporti di lavoro relativi ai singoli settori di riferimento, con particolare riguardo alla disciplina dei contenuti economici, è andata progressivamente diminuendo. 

Specie con la crisi economica, si sono diffuse aree di lavoratori con un salario al di sotto di quello stabilito dai contratti firmati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale.

Le stime al riguardo indicano quote di lavoratori con retribuzioni inferiori ai minimi contrattuali comprese tra il 9 e il 21 per cento, con picchi del 30 per cento in alcuni settori (Agricoltura, Alberghiero-ristorazione, Alimentare, Servizi alle imprese) (cfr. Garnero, 2013; Lucifora, 2017; le stime sono calcolate su dati da indagini condotte dall’ISTAT e su dati amministrativi raccolti dall’INPS). 

Anche per questo motivo ha acquisito consistenza l’opinione secondo cui sarebbe necessario introdurre, anche nel nostro ordinamento, forme di retribuzione, compensi o salari minimi per i lavoratori dipendenti, che fossero regolati per legge.

Tuttavia, sebbene l’introduzione di un salario minimo legale potrebbe – a ben determinate condizioni – contribuire a ridurre l’area delle situazioni anomale ora richiamate, resta che, a ben vedere, il vero problema del rispetto della “giusta retribuzione” del lavoro prescinde dalla fonte che ne determina la misura.

In altre parole, al di là della legge o del contratto collettivo quale fonte della misura della retribuzione minima, il problema vero, almeno nel nostro Paese, sembra essere piuttosto quello degli strumenti volti a garantire l’effettivo rispetto del livello retributivo minimo stesso

Un tema che coinvolge sicuramente i lavoratori ma che interessa anche le imprese perché volto a contrastare fenomeni di concorrenza sleale. 

In questo senso, l’introduzione di un salario minimo legale non risolverebbe, di per sé, il problema di adeguare i salari più bassi

Questo risultato, esattamente come oggi accade per i livelli salariali definiti dalla contrattazione collettiva, richiede invece uno sforzo maggiore per il rispetto delle regole.

In primis attraverso il potenziamento dell’attività ispettive che rappresentano il primo presidio del rispetto delle regole del lavoro, anche per quanto riguarda i livelli retributivi minimi. Del resto, l’introduzione della diffida accertativa già costituisce una soluzione tecnica che mette il personale ispettivo nelle condizioni di garantire il rispetto dei livelli salariali minimi attualmente previsti nel nostro ordinamento. 

Resta, comunque, centrale il tema del rapporto tra l’eventuale introduzione di un salario minimo legale e il sistema della contrattazione collettiva esistente. 

Questa problematica era già affrontata nel testo della legge delega di riforma del lavoro (cosiddetto Jobs Act, L. n. 183 del 2014) che prevedeva l’introduzione di un salario minimo legale con riferimento ai soli “settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale”.

È evidente infatti che, nel nostro Paese, la mancata adozione di un salario minimo legale è da mettere in correlazione proprio alla diffusione della contrattazione collettiva che, storicamente, si è fatta carico di individuare i livelli salariali minimi per ciascuna categoria di lavoratori.

Tali minimi sono vincolanti per le imprese che fanno parte delle Associazioni datoriali firmatarie dei CCNL, ma il rispetto “generalizzato” di tali minimi viene, di fatto, assicurato da una pluridecennale interpretazione giurisprudenziale che, ex art. 2099 Cod. Civ., identifica quanto meno nei minimi contrattuali il concetto “retribuzione proporzionata e sufficiente” dei lavoratori, stabilito dall’art. 36 della Costituzione.

È inoltre da ricordare che i minimi contrattuali previsti dai CCNL, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, rappresentano anche la misura utilizzata per il calcolo dei contributi sociali al fine di verificare la regolarità contributiva dei datori di lavoro (cfr. art. 1 del D.L. n. 338/1989 come convertito dalla Legge n. 389/1989).

Quindi, a ben guardare, si potrebbe sostenere che, in qualche misura, un salario minimo legale di riferimento, nel nostro ordinamento, è già vigente.

Ma se questo assunto è vero, si avrebbe la conferma che il vero problema, come si accennava, è quello di definire il rapporto tra legge e contrattazione.

 

Due scenari si possono ipotizzare. 

Il legislatore, con la finalità di tutelare ogni forma di lavoro, introduce un salario minimo “universale”, che non tiene specificamente conto del sistema della contrattazione collettiva vigente, ed il cui rispetto, da parte del datore di lavoro, assolve agli obblighi fondamentali che derivano dalla Costituzione e dal sistema delle leggi a tutela del lavoro.

E’ del tutto evidente come una scelta di tal genere ben potrebbe ingenerare nelle imprese la tentazione di “sciogliersi” dal complesso di obblighi che derivano dal rispetto dei contratti collettivi, a favore di una regolamentazione unilaterale del rapporto di lavoro che troverebbe, però, nel rispetto del salario minimo, la sua tutela fondamentale. 

Si tratta del c.d. fenomeno della “fuga” dal contratto collettivo che si sta registrando, già da tempo, in vari paesi europei che hanno adottato il sistema del salario minimo legale, pur in presenza di una consolidata tradizione di contrattazione collettiva.

È opportuno, infatti, sottolineare che il perimetro delle garanzie e delle tutele offerte al lavoratore dei CCNL è ben più esteso del mero trattamento economico minimo.

Una scelta di tal genere, in ogni caso, comporterebbe di affrontare e risolvere non indifferenti problemi tecnici, ad esempio, in ordine all’individuazione della giusta misura di un salario minimo legale.

In particolare, nella scelta del livello ottimale del salario minimo sarebbe necessario tener conto di varie considerazioni, tra le quali, a mero titolo d’esempio:

 

  • per non avere un impatto negativo sulla domanda di lavoro e quindi sull’occupazione (regolare), il salario minimo non dovrebbe essere troppo alto rispetto a quello medio/mediano;
  • un salario minimo troppo elevato correrebbe, inoltre, il rischio di diminuire la percentuale di lavoratori effettivamente coperti (perché può aumentare l’area del non lavoro e/o il lavoro irregolare);
  • il salario minimo dovrebbe, tuttavia, essere abbastanza alto da stimolare l’offerta di lavoro, quindi essere più elevato del salario di riserva, che dipende dal livello del sussidio di disoccupazione (o assegno CIG) e/o dal costo-opportunità di lavorare (particolarmente elevato, per esempio, per chi ha figli piccoli e vive in zone senza asili), tanto più ora dopo l’introduzione del Reddito di Cittadinanza;
  • il salario orario minimo dovrebbe comunque tener conto della distinzione tra retribuzione oraria diretta (applicabile eventualmente ad ogni tipo di collaborazione con l’impresa) e retribuzione oraria complessiva che, prendendo in considerazione gli elementi indiretti e/o differiti (ferie, mensilità aggiuntive, tfr), dovrebbe applicarsi solo al lavoro subordinato;
  • il salario minimo legale dovrebbe applicarsi indistintamente a tutti i lavoratori subordinati di qualsiasi categoria e di qualsiasi settore, con complessi riflessi sul sistema retributivo vigente, previsto dai contratti collettivi, che si differenzia per settori e per qualifiche dei lavoratori,
  • il salario minimo dovrebbe prevedere meccanismi di adeguamento al costo della vita che non determinino spirali inflazionistiche.

 

L’altra opzione che il legislatore potrebbe seguire, sulla falsariga delle scelte operate con la legge n. 183 del 2014, è quella che prende a riferimento, per la determinazione del salario minimo, il sistema della contrattazione collettiva vigente, salvo a individuare un vero e proprio livello minimo di garanzia per i settori e le attività prive di contrattazione di riferimento.

La vera questione, allora, diventerebbe quella di individuare criteri obiettivi per individuare quale dovrebbe essere il contratto collettivo di settore da prendere a riferimento.

Proprio perseguendo tale finalità Confindustria e Cgil Cisl Uil hanno sottoscritto l’accordo interconfederale del 2011 e l’accordo interconfederale del 2014 (che ha preso il nome di  Testo Unico sulla Rappresentanza, e che ha incorporato, confermandoli, i contenuti dell’accordo del 2011), ove sono state definite le regole per selezionare gli agenti contrattuali e rendere, così, i processi negoziali più certi e volti a garantire la piena esigibilità degli accordi conclusi sia a livello nazionale che a livello aziendale.

La piena “democraticità” dei criteri adottati in quegli accordi ha la sua controprova nell’elevatissimo numero di organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori che hanno aderito a quegli accordi.

Senonchè è quasi un anno, oramai, che il Ministero del Lavoro, più volte sollecitato in tal senso, non consente che venga rinnovata la convenzione, a suo tempo sottoscritta dalle parti stipulanti l’accordo interconfederale del 2014 con l’Inps, attraverso la quale si raccolgono i dati per determinare l’effettivo grado di rappresentanza delle organizzazioni sindacali dei lavoratori, differenziandola per ogni settore produttivo che ha un contratto collettivo di riferimento.

E sempre in quest’ottica Confindustria e Cgil Cisl Uil hanno sottoscritto, nel 2018, l’accordo denominato “Patto per la fabbrica” nel quale la nostra organizzazione si è, anzitutto, impegnata a misurare la propria rappresentatività e a condividere criteri di misurazione della rappresentanza datoriale con le altre organizzazioni di rappresentanza delle imprese, sempre al fine di identificare, nel modo più corretto possibile, quale potrebbe essere il contratto collettivo di riferimento, per ogni settore produttivo. Di riferimento per il settore perché stipulato dalle organizzazioni di rappresentanza delle imprese e dei lavoratori che risulterebbero essere maggiormente rappresentative e che, pertanto, dovrebbero essere in grado di interpretare al meglio quel complesso equilibrio di interessi che viene realizzato con la sottoscrizione di un contratto collettivo. 

Solo l’osservanza del contratto collettivo di riferimento dovrebbe, quindi, consentire alle imprese l’accesso ai benefici economici e normativi previsti dall’ordinamento (ad es: sgravi contributivi, detassazione) e la possibilità di partecipare alle gare d’appalto pubbliche.

Ma nel patto del 2018 Confindustria e Cgil Cisl Uil si sono anche impegnate a determinare nei contratti il Trattamento economico minimo (TEM), considerandolo equivalente al salario minimo inderogabile, da distinguere dal Trattamento economico complessivo (TEC). 

Dunque la finalità principale che viene perseguita dai disegni di legge in esame ben potrebbe essere assolta con l’osservanza, da parte delle imprese, del TEM.

Correlativamente, assolta con il TEM la finalità principale cui mira l’introduzione di un salario minimo legale, ben si potrebbe agire sulla riduzione del cuneo fiscale e contributivo del lavoro – universalmente individuato, da tutti gli analisti economici, come uno dei fattori di maggior freno per la competitività delle imprese italiane – da riservare alla quota di salario costituito dal delta tra il TEM e il TEC.

In questo modo si perverrebbe al duplice obiettivo di tutelare adeguatamente il lavoro regolare e garantire la corretta competizione tra le imprese, che ben potrebbero, a questo punto, modulare adeguatamente il livello del TEC sulla base degli effettivi incrementi di produttività e redditività aziendale. 

Quel disegno di riforma condiviso del modello della contrattazione, definito nel 2018, se adeguatamente ma inscindibilmente attuato con la misura della rappresentanza sia datoriale che sindacale, potrebbe dunque costituire la base per l’attuazione di un “salario minimo” pienamente coerente con la storia dei rapporti sindacali di questo Paese, ma verrebbe da dire anche pienamente rispettoso dei dettami della Costituzione, lasciando al decisore politico il compito di individuare il livello di salario minimo orario da rispettare nei settori non regolati da contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative. 

 

Osservazioni sui testi del disegno di legge

Come si accennava nella premessa, riteniamo opportuno formulare qualche osservazione di merito sulle singole disposizioni contenute nei disegni di legge oggetto dell’audizione.

Quanto alla rilevante questione del rapporto tra legge e contrattazione, il disegno di legge n.310 sembra optare decisamente per la prima delle due alternative indicate in premessa, ossia per una regolazione di legge che, di fatto, si impone o, meglio, si sovrappone alla contrattazione vigente, perché fissa autonomamente un valore orario del salario minimo.

Nelle esperienze dei principali Paesi europei la fissazione e il periodico adeguamento del salario minimo è sempre il risultato del confronto, pur attuato con diverse modalità, tra il governo e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali e datoriali, con l’evidente fine di “modulare” e adattare alla realtà economica del singolo Paese il livello equo del salario minimo.

Nel caso in esame, invece, questo – a nostro avviso, indispensabile – apporto di esperienza e conoscenza della realtà del mercato del lavoro, fornito dalle organizzazioni di rappresentanza o da loro riferenti, viene sostanzialmente ignorato, per poi recuperarlo, in modo francamente non chiaro, ai fini dell’individuazione dei contratti che dovrebbe adeguarsi, o meno, al salario minimo (senza l’individuazione di alcun previo criterio selettivo) ovvero delle modalità di incremento dei salari di importo superiore al salario minimo orario, con una evidente svalutazione dell’effettivo esercizio dell’autonomia contrattuale collettiva.

Il livello del salario minimo indicato nel disegno di legge n.310 (9 euro al netto dei contributi previdenziali e assistenziali) è peraltro così più elevato del costo medio orario attualmente assicurato dai minimi applicati nelle imprese industriali (che si aggira intorno ai 7,5 euro lordi) sulla base della contrattazione vigente, che dimostra, per tabulas, quanto questa modalità di fissazione dell’importo del salario minino sia inaccettabile, perché assolutamente dissonante con la realtà del mercato del lavoro che vorrebbe regolare.

Su questo stesso argomento il disegno di legge n. 658 segue, in parte, la strada della valorizzazione dell’apporto della contrattazione collettiva ma poi, con un certo grado di contraddittorietà, finisce anch’esso per fissare “unilateralmente” un importo di riferimento che, seppur sempre di 9 euro all’ora, è meno elevato del precedente perché viene considerato al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali. Resta che il livello è comunque troppo elevato e che il metodo di individuazione valorizza solo in apparenza l’apporto delle parti sociali. 

Parti sociali la cui rappresentatività, peraltro, viene individuata facendo riferimento alla disciplina di legge che regola l’attività del Cnel, ossia ad una normativa che, nella legislazione degli ultimi decenni, non è mai stata ritenuta effettivamente utile per identificare le parti stipulanti il contratto collettivo “di riferimento”.

Tant’è che lo stesso disegno di legge, per disciplinare il problema della pluralità/concorrenza di vari contratti nazionali applicabili (problema attualissimo, posto che si contano, nell’archivio del Cnel, più di 900 ccnl di categoria, riguardanti tutti i settori di attività economica del Paese, con decine di contratti per ogni singolo settore produttivo), finisce, molto più opportunamente, per invocare espressamente i contenuti dell’accordo interconfederale concluso tra Confindustria e Cgil, Cisl Uil il 10 gennaio 2014, al quale, come si è già ricordato, hanno aderito la stragrande maggioranza delle organizzazioni sindacali di questo Paese. 

Per misurare, invece, la rappresentanza datoriale il disegno di legge individua criteri (numero delle imprese associate in relazione al numero complessivo di imprese associate e correlativo numero dei dipendenti) che andrebbero senz’altro riconsiderati e ripensati, dato che l’unico sistema di rilevazione, attualmente vigente in Italia, che potrebbe aiutare a fornire questi dati è quello in atto presso le Camere di Commercio che, però, è largamente fondato sulle autodichiarazioni rese dalle stesse associazioni datoriali. 

Nell’accordo interconfederale del 2018, come già ricordato, Confindustria si è impegnata a definire “un percorso condiviso anche con le altre associazioni datoriali per arrivare ad un modello di certificazione della rappresentanza datoriale capace di garantire una contrattazione collettiva con efficacia e esigibilità generalizzata, nel rispetto dei principi della democrazia, della libertà di associazione e del pluralismo sindacale”. 

Da ultimo una osservazione che accomuna le due proposte di legge in ordine ai meccanismi di adeguamento, nel tempo, del salario minimo, che vengono meramente demandati all’applicazione di indici statistici, senza alcun tipo di previa valutazione tecnica sui possibili effetti che, da una così rigida applicazione di tali indici, potrebbero derivare all’andamento dell’inflazione. 

 

*intervento alla 11° Commissione Lavori Pubblici del Senato della Repubblica il 12/03/2019

**Direttore Area Lavoro, Welfare e Capitale Umano di Confindustria

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